ρꪖ᥅ꪻꫀ 41 - Vivere

Dieci giorni dopo.

La villetta degli Arkensaw, ricavata dalla ristrutturazione ed ampliamento di una vecchia abitazione rurale, sarebbe stata decisamente inadatta ad ospitare soltanto Jane. Si innalzava su due piani, aveva una discreta quantità si stanze alcune delle quali adibite a ripostiglio, ed era circondata a trecentosessanta gradi da un giardino il cui prato verde adesso, dopo anni di incuria, veniva annaffiato e tagliato regolarmente.
Nei corridoi e nelle stanze che nei giorni precedenti erano stati caratterizzati da un silenzio ben poco apprezzabile, Jane non poteva che sentirsi rincuorata di poter sentire la presenza di Jeff, nonostante il presente fosse per lei qualcosa a cui  talvolta faticava a credere: a seguito di tutti quegli anni trascorsi nell'odio e nel rancore, adesso aveva trovato il perdono in un angolo del suo cuore che neanche era certa di possedere. Quando le capitava di pensarci, tuttavia, si domandava come avesse potuto mettere a repentaglio la sua stessa vita per salvare quella di un serial killer; e non uno qualunque, ma colui che aveva ucciso a sangue freddo entrambi i suoi genitori, e sfigurato il suo volto in modo irreparabile. A quella brutta storia, chiunque avrebbe giurato non poterci essere un finale felice; eppure, adesso lei e Jeff convivevano nella casa dei suoi genitori, la stessa in cui fu consumata quella strage molti anni prima.
Ma nonostante le capitasse fin troppo spesso si riportare alla mente in modo involontario quei tragici ricordi, Jane era riuscita ad abituarsi molto velocemente e spontaneamente alla sua nuova vita; molto diverso, invece, fu per Jeff.
Lui continuava a sentirsi un pesce fuor d'acqua, nonostante fossero trascorsi già dieci giorni dal suo arrivo in quella grande casa. Era del tutto disabituato ad avere una vita normale, e questo lo si poteva notare anche semplicemente nei piccoli gesti quotidiani che qualunque altra persona attua quasi inconsapevolmente: non era più abituato a dormire in un letto pulito, a mangiare utilizzando le posate, a sentirsi assetato o affamato ed avere sempre a disposizione qualcosa di fresco che poteva semplicemente prelevare dal frigo; addirittura, trovava difficoltoso tenere lo sguardo sullo schermo del televisore se non per pochi minuti. E se Jane aveva creduto che sarebbe riuscito in tempi brevi a recuperare le abitudini che di certo aveva avuto almeno da bambino, man mano che i giorni passavano le era più chiaro che le cose non sarebbero state così facili.
Come se non bastasse, Jeff sembrava restio a parlarle, e tendeva a chiudersi in se stesso evitando ogni possibile tipo di comunicazione nonostante non avesse apparentemente un valido motivo per farlo.
Quella mattina, Jane si era svegliata presto ed aveva sceso le scale fino al piano di sotto, non prima di aver lanciato uno sguardo alla porta chiusa che conduceva alla camera del ragazzo; o meglio, alla stanza che aveva deciso di riservare a lui.
Sbadigliando si diresse in cucina ed accese il fornello, per prepararsi una tazza di caffè; spostando lo sguardo sul vetro della finestra, poté intravedere un cielo grigio che minacciava un'imminente pioggia. Si mise a sedere al tavolo ed accese lo smartphone, con l'intento di dare un'occhiata alle nuove offerte di lavoro disponibili nella sua zona.
Sapeva di avere bisogno di un'occupazione adesso, e se possibile avrebbe prediletto un lavoro stabile e duraturo che le avrebbe permesso di andare avanti con le sue forze, senza più attingere dall'eredità lasciata dai suoi genitori.
Sorseggiava il caffè e faceva scorrere il dito indice sullo schermo, perdendosi tra le numerose offerte di lavoro molte delle quali, ahimè, richiedevano caratteristiche di cui lei non era in possesso. Tornando alla sezione delle notizie, poi, la sua attenzione fu immediatamente attirata da un articolo in particolare, la cui anteprima recitava queste parole:
"Da vita umana a merce di scambio. Scoperto business illegale che vede coinvolta un'organizzazione di ricerca scientifica".
"Usavano gli ergastolani come cavie da laboratorio, tra i collaboratori anche diverse carcerieri e poliziotti".
Sentì il suo cuore mancare un battito, e per poco la tazzina di caffè non si rovesciò sul tavolo; quelle poche righe non le lasciavano molto spazio per fantasticare, lei sapeva bene a cosa si riferissero. E se Natalie era stata scoperta ed arrestata, di certo la polizia avrebbe indagato molto a fondo cercando di identificare ogni singolo responsabile di quell'atrocità; a quel punto non poteva far altro che chiedersi se in qualche modo sarebbero arrivati fino a lei, magari strappando forzatamente le informazioni alla stessa Natalie.
Stava per aprire l'articolo, intenzionata a leggerne i dettagli, ma proprio in quel momento sentì i passi di Jeff che stava scendendo lentamente le scale; ripose il telefono in tasca e riprese a sorseggiare il caffè, lanciando uno sguardo falsamente disinteressato in direzione del soggiorno.
Il killer attraversò il corridoio con le mani affondate nelle tasche e la mente persa tra chissà quali pensieri, avvicinandosi al divano davanti al quale Dado se ne stava disteso a terra.
-Hei, bello- lo sentì mormorare, con un filo di voce.
Quasi senza rendersene conto Jane allargò un piccolo sorriso; nonostante la riluttanza che aveva inizialmente dimostrato, oramai Jeff aveva instaurato con il cane un rapporto solido, al punto che spesso Dado si infilava nella sua stanza per dormire assieme a lui.
Dopo aver riposto la tazzina nel lavello, Jane emise un sospiro e raggiunse il ragazzo nel salotto, cercando di nascondere come meglio poteva la sua preoccupazione riguardo alla notizia che aveva appena letto; l'ultima cosa che voleva, era caricare il peso di quella preoccupazione sulle spalle di Jeff.
Lo trovò seduto a terra con le gambe incrociate, e la testa del cane poggiata sul petto mentre era intento ad accarezzarlo.
-Oramai siete grandi amici, voi due- esordì la ragazza, accennando un sorriso mentre si avvicinava, e si sistemava a sedere sul divano.
Il killer sollevò lentamente lo sguardo e lo posò su di lei; ma era totalmente inespressivo, gelido, come quello di un manichino.
-Volevo salutarlo per bene prima di andare- mormorò, a bassa voce. -E ovviamente... Poi avrei salutato anche te-.
La mora rimase interdetta, al punto che qualsiasi cosa avesse voluto dire morì soffocata nella sua gola. Aggrottò la fronte e l'espressione sul suo viso si fece molto seria. -Cosa? Ma che stai dicendo?-.
-Me ne vado, Jane- le rispose lui, tornando ad osservare con tenerezza il cane che adesso stringeva con entrambe le braccia.
Un silenzio innaturale inghiottì la stanza per i secondi che seguirono, finché la mora non si alzò in piedi di scatto. -Aspetta, perché dici questo? Ho forse fatto qualcosa di sbagliato, che ti ha...-.
-No- la interruppe lui, alzando bruscamente il tono della voce. A quel punto abbassò lo sguardo e cessò di muoversi, restando immobile con le braccia ancora avvolte attorno al busto del cane, che pareva domandarsi come mai lui avesse smesso di accarezzarlo.
Jane scosse energicamente la testa. -E allora che ti prende? Non puoi andartene via, non puoi rischiare di essere visto da qualcuno...-. Era paralizzata dallo stupore e dalla confusione, non riusciva a comprendere che cosa stesse accadendo. Ripercorse mentalmente gli ultimi giorni cercando di capire quando e soprattutto cosa avesse sbagliato per causare quella sua inaspettata decisione, ma solo pochi secondi dopo un forte guaito del cane la riportò al presente.
E ciò che vide, la terrorizzò: Jeff aveva il volto piegato verso il basso ed era così immobile che non riusciva neanche a capire se stesse respirando, eppure le sue braccia si erano strette attorno al corpo di Dado con una tale forza che la bestiola, adesso, si stava divincolando con gli occhi spalancati.
Tutto accadde nel giro di pochi istanti, ma un secondo guaito del cane le fece capire che forse Jeff stava intenzionalmente cercando di soffocarlo.
-Smettila! Gli stai facendo male!-.

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