ρꪖ᥅ꪻꫀ 40 - Proteggere

Un venticello fresco penetrava nel salotto attraverso la finestra socchiusa, mentre Jane camminava avanti e indietro per la stanza cercando di mettere ordine nel caos che aveva accumulato durante le ultime settimane.
Jeff la ossevava immobile, senza dire una sola parola, con la schiena sprofondata nel divano. Dopo aver vissuto lunghi anni dietro alle sbarre fredde e logore di una cella, ed aver sperimentato una breve clandestinità per poi trovarsi di nuovo prigioniero tra le grinfie di un dottore fuori di cervello, stava godendo finalmente di una sorta di libertà personale che neanche immaginava di riuscire mai a raggiungere.
Adesso che era al sicuro, nella grande casa dei defunti genitori di Jane, non aveva idea di come avrebbe dovuto comportarsi: non era abituato al lusso di poter distendersi su un divano, di poter rilassare i nervi conscio di non dover più scappare da niente.
-Purtroppo non potrai più uscire da qui- borbottò Jane, gettando nel bidone dei rifiuti un mucchio di cartacce. -Specialmente finché Natalie non avrà sistemato le cose... e anche dopo, dovrai stare molto attento-.
Lentamente si avvicinò a lui, e come l'istinto le suggerì allargò un tiepido sorriso. -Per il resto del mondo, tu sei morto-.
Il killer strinse le spalle, ed abbassò lo sguardo puntandolo in direzione del caminetto spento. -Non è molto diverso da come è sempre stato- mugolò.
La mora taque; effettivamente, non aveva tutti i torti. La società lo aveva radiato sin dal momento in cui i suoi disturbi mentali erano venuti a galla, e da allora era sempre stato un totale reietto. Aveva passato metà della sua vita in prigione, e l'altra metà in fuga per evitare di essere catturato.
Jane annuì brevemente. -Adesso vedo se ho dei vestiti che puoi metterti, perché non ti dai una ripulita?- gli disse, indicando con una mano la porta del bagno.
Jeff non rispose a quella domanda, ma puntando i pugni sul divano si alzò in piedi lentamente; aveva bisogno di riposo, per recuperare energia.
Frettolosamente la ragazza si precipitò nella sua stanza ed iniziò a frugare nell'armadio, alla ricerca di qualche indumento che ad occhio e croce sarebbe stato della misura giusta per lui; parevano tutti un po' troppo larghi, considerato che Jeff era dimagrito in modo a dir poco preoccupante, ma alla fine riuscì a recuperare una tuta grigia non troppo femminile che avrebbe potuto prestargli temporaneamente. Rimase ferma in piedi davanti all'armadio per qualche minuto, catturata da alcuni pensieri che parevano non voler più uscire dalla sua testa.
Era seriamente preoccupata per la salute di Jeff, e sapeva che se le cose si fossero messe male non avrebbe potuto contare sull'aiuto di nessun medico. Oltre a questo, poi, era anche paralizzata dalla paura che in qualche modo le forze dell'ordine avrebbero potuto scoprire la verità, e presentarsi alla sua porta.
Scosse la testa. Non era questo il momento di lasciarsi prendere dal panico.
Stringendo gli abiti puliti sul petto si avvicinò alla porta del bagno, e vi bussò un paio di volte con le nocche: dall'interno, udiva lo scrosciare dell'acqua che cadeva sul piatto della doccia.
-Vieni- mormorò la voce di Jeff dall'interno. Aprendo la porta Jane lo trovo in piedi davanti al lavandino, a torso nudo, mentre aspettava che l'acqua della doccia uscisse calda abbastanza da poter iniziare a lavarsi.
-Ho trovato questi- disse la ragazza, porgendogli i vestiti puliti. -Fai con calma- aggiunse.
Senza quasi rendersene conto, il suo sguardo cadde sulle braccia del ragazzo: erano attraversate da cicatrici, alcune molto vecchie, altre decisamente più recenti. Quei segni indelebili che portava sulla pelle, erano la testimonianza del suo odio verso se stesso, e della sua propenzione ad autodistruggersi.
Sul braccio sinistro, poi, erano ben visibili una serie di ematomi causati dalle flebo che Arden aveva applicato più volte, con ben poco riguardo.
Con un groppo in gola Jane si costrinse a voltare le spalle ed uscire dal bagno, senza aggiungere nient'altro; eppure, in quel momento avrebbe voluto chiedere a Jeff come si sentisse, e se avrebbe potuto aiutarlo in qualche altro modo.
Richiuse la porta dietro di sé e diede una carezza sulla testa del cane, che sembrava continuare a chiedersi che cosa ci facesse uno sconosciuto in casa.
Andò poi in cucina, con l'intento di preparare qualcosa da mangiare, ma proprio in quel momento sentì il cellulare iniziare a squillare.
Con sgomento osservò lo schermo illuminato: era il suo capo.
-..Pronto?-.
-Ti avevo avvisata, Jane. Questa volta sei fuori, capito? Vieni domattina a firmare la lettera di licenziamento, oppure te la faccio recapitare a casa-.
La ragazza tacque con il cuore in gola, e poggiò le spalle al muro emettendo un lungo sospiro. -Mi dispiace, ho avuto un...-.
-Non voglio saperlo- la interruppe bruscamente l'uomo dall'altro capo del telefono. -Eri stata avvisata, ti ho concesso un'ultima opportunità ma hai saltato il turno di nuovo senza avvisare. Capisci la mia posizione, vero?-.
-Ha ragione...- mugolò lei, passandosi una mano sulla fronte. -Ma non può immaginare che cosa ho dovuto...-.
-Domattina, Jane- la interruppe ancora. -Vieni domattina a firmare il tuo licenziamento-. Dicendo questo, l'uomo interruppe precipitosamente la telefonata.
Lei strinse le mandibole ed infilò il telefono in tasca; doveva aspettarselo che sarebbe andata a finire così. Avrebbe voluto poter spiegare meglio il motivo delle sue assenze, ma d'altro canto sapeva bene di non poter dire una parola a riguardo. Volse lo sguardo alla finestra e deglutì saliva, dicendo tra se e se che non sarebbe stato un così grosso problema trovarsi una nuova occupazione. E comunque, in questa prima fase, sarebbe stato meglio non lasciare Jeff a casa da solo neanche per qualche ora.
Aveva molti soldi da parte, l'eredità dei suoi genitori era ancora parzialmente intatta; non aveva nulla di cui preoccuparsi, dopotutto.
Neanche si accorse di essere rimasta lì impalata a pensare, finché non sentì la porta del bagno aprirsi, e vide Jeff fare capolino con i capelli bagnati e lo sguardo rilassato. Lui la guardò per un breve lasso di tempo, poi chinò le ginocchia e fece, per la prima volta, una timida carezza sulla schiena di Dado.

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