ℙ𝕒𝕣𝕥𝕖 4 - Sadico
Jane sentì che le sue ginocchia avevano iniziato a tremare, come se facessero fatica a sopportare il peso del suo corpo. Se il tentativo di interrogatorio con il precedente ergastolano era andato male, quello che stava per affrontare non poteva che andare peggio.
E in quel momento, ancora, non sapeva quanto.
Sollevando lo sguardo con titubanza ciò che le si parò davanti fu un ragazzo dai lunghi capelli neri che per qualche motivo non era stato posizionato su una sedia come gli altri, ma a terra; le sue braccia erano costrette sul petto da una camicia di forza come quelle che venivano un tempo utilizzate all'interno degli ospedali psichiatrici, mentre le gambe erano tenute ferme da una catena che era stata avvolta attorno ai suoi polpacci. Aveva una carnagione estremamente chiara, quasi cadaverica, e teneva la testa chinata verso il suolo in modo tale che fosse impossibile vedere il suo volto.
Per qualche ragione, la prima cosa che provò trovandosi al cospetto di quell'individuo fu una strana e indefinita sensazione di disagio profondo: doveva trattarsi senz'altro di un soggetto pericoloso, a giudicare dalle precauzioni che erano state messe in atto dai secondini.
Senza palesare i suoi sentimenti Jane iniziò a sfogliare il fascicolo, facendo scorrere lo sguardo tra le righe impresse sulla carta bianca.
"Rinominato dai media Jeff the Killer, trattasi di un soggetto ventiseienne dalla forte instabilità mentale caratterizzato da una personalità sadica che sembrerebbe innata, con marcati istinti autolesivi. Il suo comportamento è imprevedibile, fuori dagli schemi, caratteristica che lo rende estremamente pericoloso. Accertato pluriomicida, ma è tuttora da stabilire con chiarezza il numero esatto di crimini violenti a suo carico".
La mora sospirò tra le labbra socchiuse, mentre con un brivido si accorse che il detenuto stava lentamente sollevando la testa in modo da poterla guardare. Ma una viscerale sensazione di profondo sconforto la aggredì all'improvviso, nel momento esatto in cui poté incrociare il suo sguardo: gli occhi del killer erano tinti di un azzurro ghiaccio estremamente chiaro, mentre sulle sue guance troneggiava una spessa cicatrice ricurva: un'orrendo squarcio ormai rimarginato, memoria di quella che doveva essere stata una profonda ferita a forma di sorriso.
Qualcosa si accese in quell'istante nella mente di Jane, anche se dapprima non fu in grado di dare un nome preciso a quella sensazione; era come se dentro di se sentisse di aver già incontrato prima quella persona, di averla già vista.
Iniziò a tremare visibilmente, ma non lasciò che la sua ansia le impedisse di proseguire; tornò quindi sul foglio che stringeva tra le mani.
"Il serial killer in questione presenta altresì un modus operandi molto specifico, poiché risulta abbia commesso tutti gli omicidi con l'ausilio della stessa arma: un coltello da cucina munito di una lama da 30cm, ora in possesso del dipartimento di polizia locale".
Mentre leggeva poteva sentire chiaramente il peso del guardo che lui le teneva addosso. Continuava a fissarla così intensamente che quasi dimenticava di sbattere le palpebre.
L'angoscia dentro di lei crebbe esponenzialmente.
"Le vittime sono state spesso ritrovate senza vita all'interno delle loro abitazioni, con una ferita profonda sulle guance che ricorda la forma di un sorriso. Un rituale che ripeteva ad ogni omicidio, come una firma".
A causa del suo stato d'animo fu costretta a tralasciare il resto della descrizione del detenuto, saltando fino alla sezione dedicata all'interrogatorio: avrebbe dovuto porre domande legate a uno degli omicidi accertati, ovvero quello di una donna di quarantacinque anni assassinata all'interno del suo appartamento tre anni prima.
Fingendo una sicurezza che non possedeva impugnò una penna e inspirò aria nei polmoni, preparandosi a porre la prima domanda; ma quando fu tornata a sollevare lo sguardo, sentì il suo sangue gelarsi nelle vene.
-Io... Ti riconosco...-.
La voce del killer raggiunse le sue orecchie come un suono piatto, statico, privo di emozione.
Sentì il cuore saltare un battito e, senza rendersene conto, si ritrovò a stritolare i fogli che teneva in mano.
Questa volta ricambiò il suo sguardo, e nuovamente fu folgorata da quella strana sensazione di familiarità.
-Impossibile- mormorò, con un filo di voce. Per l'ennesima volta tentò di ricomporsi, rassicurata dalla presenza della guardia armata che, in piedi affianco alla cella, vegliava sulla sua incolumità.
-Se non ti dispiace adesso vorrei... Iniziare l'interrogatorio- esclamò. -Parlami di quell'omicidio, la donna che hai assassinato all'interno della sua abitazione-.
Sul volto sfregiato del killer apparve un piccolo sorriso. -Non so di cosa stai parlando- le rispose, a voce bassa.
-Ti prego di collaborare- ribatté lei, con decisione.
Ma il ragazzo, ancora una volta, sorrise in modo appena percettibile. -Lo sto facendo. Ma come pretendi che possa ricordarlo?- rispose. -Ho ucciso troppe persone, per ricordarle tutte-.
-Era una donna di circa quarantacinque anni, alta un metro e settanta, bionda. È stata trovata al terzo piano di una palazzina, sventrata- continuò Jane, stringendo la penna nel pugno della mano destra. Le sue mani erano già zuppe di sudore. -Aveva una... Una specie di sorriso inciso sul volto, proprio come il tuo- mormorò infine, con il fiato spezzato.
In quell'esatto istante Jeff the Killer scoppiò in una breve risata, piegandosi in avanti fino a posizionare il volto a pochi millimetri di distanza dalle sbarre della gabbia in cui era imprigionato. -Informazione inutile, lo faccio con tutti- ghignò. -Come ti ho detto non mi ricordo di lei... Ma mi ricordo di te- concluse, e nel momento in cui pronunciò quella frase un barlume di follia si accese nei suoi occhi.
Jane rabbrividì, premendo la schiena contro allo schienale della sedia, e in quel momento iniziò a sentirsi davvero male. Per quanto ne sapeva quel folle si stava semplicemente prendendo gioco di lei, non le sarebbe sembrato così strano apprendere che conoscesse la sua storia; tuttavia, non potè fare a meno di ricollegare quell'affermazione alla sensazione che aveva provato nell'istante in cui aveva incrociato quello sguardo per la prima volta. E un dubbio atroce iniziò a scavare spazio nella sua mente, ma prontamente lo respinse.
Non poteva trattarsi di lui. Quale crudele gioco del destino sarebbe stato?
-Quella donna...- riprese a dire, senza riuscire a impedire alla sua voce di tremare. -Era madre di due figli-.
Il volto del moro in quel momento, senza nessuna ragione apparentemente, parve trasformarsi: il suo sguardo si fece estremamente cupo, carico di cattiveria e aggressività, mentre un terrificante sorriso si allargava sulla bocca esponendo l'intera arcata dentale. Si trascinò a terra quanto bastava per poggiare una spalla sulle sbarre, poi iniziò a sghignazzare rumorosamente. -Davvero non ti ricordi di me, Jane?-.
Lei si immobilizzò.
Un terrore profondo invase il suo corpo, trapassandolo come un fulmine a cielo sereno. In un solo attimo mille domande invasero i suoi pensieri, ma ad una fra tutte aveva l'impellente bisogno di trovare una risposta: stava bluffando, oppure si trovava davvero faccia a faccia con colui che le aveva distrutto la vita?
Lo guardò in faccia con le palebre spalancate, mentre lui travolto da una risata folle e incontrollata continuava a fissarla. Il suono di quella voce le entrò nella testa e vi si moltiplicò come se stesse rimbalzando tra le pareti di una stanza spoglia, fino a creare un fracasso insopportabile.
Ormai in preda al panico la ragazza tornò a stritolare la cartella tra le sue mani, a stento riuscì a far uscire dalla sua bocca qualche parola. -Fallo... Fallo smettere, ti prego- mugolò. Non si stava più rivolgendo a lui bensì al poliziotto lì affianco, che non esitò un solo secondo ad intervenire come se avesse atteso quel momento sin dall'inizio dell'interrogatorio. Lo vide infilare il manganello tra le sbarre della cella, colpendo il detenuto con tre energiche mazzate che impattarono con una violenza assolutamente non necessaria sulle sue spalle e sulla sua schiena, parzialmente protetta dal tessuto spesso della camicia di forza.
-Chiudi quella cazzo di bocca, mostro!- gli gridò, per poi poggiare la punta del manganello sotto alla sua gola in modo da costringerlo a sollevare il capo.
Jeff cessò la sua risata, tornando a rivolgere a Jane uno sguardo che questa volta lei non riuscì ad interpretare. -Ma certo che ti ricordi...- esclamò ancora, prima di ricevere una quarta manganellata dritta sulla nuca, che lo costrinse a strizzare le palebre per il dolore.
-Ti ho detto di tacere!-.
L'agente di polizia si rivolse poi alla ragazza, facendole cenno di alzarsi in piedi. Sfilò l'arma via dalle sbarre e la ripose nella sua cintura, poi ridacchiando frugò tra le tasche dei pantaloni estraendo un piccolo oggetto che lei non riuscì dapprima a identificare.
-Tranquilla, finché questo stronzo è dentro la gabbia non può farti niente- la rassicurò. Tacque qualche attimo forse attendendo una risposta che non giuse mai, poi riprese a ridacchiare sotto ai baffi. -Mi sa che non hai superato il test pratico, ragazza, ma se ti vuoi divertire...-. Con un rapido movimento del pollice premette il pulsante posto sulla parte superiore dell'accendino dando vita a una piccola fiamma, che causò una reazione pressoché immediata del detenuto: con uno sguardo terrorizzato, infatti, adesso il killer premeva la schiena contro alle sbarre della sua cella tentando invano di allontanarsi; alla sola vista del fuoco il suo atteggiamento aggressivo e minaccioso era completamente svanito, e aveva iniziato a comportarsi come un coniglietto spaventato.
L'agente di polizia infilò una mano tra le sbarre posizionando l'accendino a pochi millimetri dal suo orecchio destro, mentre il ragazzo iniziava ad annaspare rumorosamente. La fiamma sfiorò la sua pelle più volte.
-È terrorizzato dal fuoco, il piccolo bastardo- commentò poi, con un sorriso compiaciuto. -Adesso non sembra più così pericoloso, non trovi?-.
Jane osservò quella scena con il fiato sospeso, incapace di far risalire una singola parola dalla sua gola. Guardò quell'uomo che giocherellava con la fiammella con un sadismo che, nonostante le circostanze, non riusciva pienamente a giustificare. Gli occhi del killer erano spalancati, mentre tentava disperatamente di sottrarsi alla tortura nonostante l'impedimento della camicia di forza; e nell'incrociare quello sguardo intriso di paura, ancora una volta intravide il fantasma di un ricordo imprigionato nei meandri della sua mente. Ne era quasi certa, doveva trattarsi dell'assassino dei suoi genitori.
Fu proprio quella sorta di nuova consapevolezza che la spinse ad avvicinarsi alle gabbia, guardandolo dritto negli occhi questa volta senza più paura. Afferrò le sbarre con entrambe le mani, poi esclamò con una voce straziata: -Sei stato tu...-.
Il detenuto ricambiò il suo sguardo in silenzio, mentre l'agente di polizia ritirava la mano.
-Sei stato tu- ripeté.
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