ℙ𝕒𝕣𝕥𝕖 1 - Spietato

-Apertura delle celle 11, 14 e 19!-.
All'interno di uno dei più rinomati carceri di massima sicurezza del paese, il passare delle ore era un continuo e ridondante susseguirsi di routine sempre uguali accompagnate da una insopportabile puzza di muffa e urina che ne riempiva i corridoi. Pesanti mura di cemento armato e vetrate protette da spesse barre di ferro arrugginito fungevano da linea di confine con il mondo esterno, rendendo spesso impossibile per i carcerati anche solo rendersi conto di che giorno fosse e di quanto tempo avessero effettivamente trascorso in reclusione. Le settimane erano facilmente confondibili con i mesi, ed i mesi con gli anni.
-Metteteli in isolamento. E qualcuno dia una ripulita alla cella 23, quel figlio di puttana se l'è fatta sotto-.
Lungo i corridoi senza fine che attraversavano interamente la struttura di forma circolare si potevano udire distintamente le risate sguaiate delle guardie carcerarie, spesso seguite dalle grida disperate del malcapitato di turno e, altrettanto spesso, da insulti sputati in diverse lingue.
La struttura del penitenziario ricopriva una superficie di ben 398 metri quadri innalzati su tre piani; la facciata principale presentava un aspetto estremamente cupo e ancora peggio appariva all'interno, ove minuscole celle prive di qualsiasi sorta di comfort ospitavano un numero di detenuti pari al doppio della capienza massima effettiva. Gli ambienti erano sporchi e marcatamente trascurati, poiché la direzione prestava un interesse pressoché nullo alle norme igieniche di base ed era ovviamente incurante del benessere dei suoi ospiti.
Quel luogo dimenticato da Dio ospitava criminali di ogni tipo, ma era conosciuto in particolar modo per la cosiddetta "ala D": un reparto di massima sicurezza che ospitava individui altamente pericolosi tra cui assassini, mafiosi, sicari e terroristi. E se nelle altre zone del carcere la vita per i detenuti era difficile, all'interno dell'ala D diveniva quasi impossibile non impazzire dopo i primi mesi di prigionia.
Maltrattamenti, risse e suicidi qui erano all'ordine del giorno.
-Doctor Smiley, che piacere rivederti-. Una coppia di guardie si erano avvicinate a una delle celle all'interno della quale un uomo dalla corporatura esile li osservava in silenzio, attraverso le sbarre arrugginite; aveva una chioma di capelli corti che ricadevano ordinati sulla parte superiore della sua fronte, alto circa un metro e settanta e munito di uno sguardo penetrante. Un giovane neurologo con una carriera piuttosto breve alle spalle, accusato di aver causato volontariamente il decesso di un numero imprecisato di pazienti attraverso pratiche mediche indiscutibilmente folli e per questo, adesso, condannato all'ergastolo.
Una delle guardie aprí il chiavistello arrugginito facendo forza con entrambe le mani, mentre l'altra faceva un passo all'interno della cella giocherellando con il lungo manganello che stringeva tra le mani. -Mi giunge voce che ci sono state delle incomprensioni tra te e un mio collega, ieri-.
Smiley fece una piccola smorfia e l'unico raggio di luce esterna che riusciva a penetrate attraverso alla piccola finestrella impolverata, posta nella parte alta della parete, illuminò per un attimo il suo viso evidenziando un ampio ematoma sulla mandibola.
-Credo che il tuo collega abbia bisogno di una visita specialistica molto approfondita- ghignò, per niente intimorito dall'atteggiamento aggressivo degli altri due. -Potrei aiutarlo io, magari-.
-Che battuta divertente. Siamo in vena di scherzare questa mattina?- ribatté l'uomo in divisa con una risata sguaiata, tornando ad agitare il manganello davanti al suo volto con fare minaccioso. -Vediamo se avrai ancora voglia di fare il furbo, dopo che ti avrò fatto saltare tutti i denti!-.
Da una delle celle posizionate sul lato opposto del corridoio, uno dei detenuti infilò un paio di braccia nere fra le sbarre iniziando ad agitarle a mezz'aria, con il preciso scopo di attirare l'attenzione. -Questo si che mi piacerebbe vederlo!- commentò, con un tono di voce volutamente fastidioso. Si trattava di Jason The Toymaker, un trentenne dall'aspetto fisico molto inusuale, che si distingueva dagli altri detenuti grazie alla vistosa chioma di capelli rossi che gli ricadeva fin sulle spalle ed alle braccia muscolose che aveva totalmente tatuato di nero, dai polsi salendo fino ai gomiti.
-E tu chiudi quella cazzo di bocca, maledetta bestia!- replicò uno dei secondini, lanciandogli uno sguardo di profondo disprezzo.
-Esatto, chiudi quella cazzo di bocca- ripeté Doctor Smiley, ancora una volta incurante delle minacce.
Pareva a tutti gli effetti voler sfidare l'autorità delle guardie, anche se questo di solito non portava a risultati positivi.
Di fatti, nei quattro minuti successivi il suono sordo di una raffica di manganellate rimbalzò sulle parti lugubri del carcere, seguita dalle grida di incitamento di alcuni prigionieri che si stavano godendo lo spettacolo e dai lamenti dell'ex dottore, ora disteso a terra in posizione fetale intento a proteggere la sua testa dai colpi. Poi, finalmente soddisfatto, il suo aggressore si chinò su di lui per verificare che fosse ancora vivo e finí per sputagli addosso, appena prima di uscire dalla cella e tornare a girare la chiave nel lucchetto.
-Direi che possiamo considerare questa incomprensione già risolta-.
Di nuovo il silenzio più totale era calato nell'intero corridoio, poiché nessuno degli altri criminali avrebbe voluto essere il prossimo.
Nonostante l'unico diritto a tutela dei detenuti fosse quello alla vita, infatti, non era affatto insolito che qualcuno di loro finisse per lasciarci le penne a causa delle percosse ricevute, della malnutrizione o come conseguenza di tentativi di suicidio che venivano sistematicamente ignorati dalla direzione carceraria. Dopotutto, il penitenziario era sovraffollato e il valore di quelle persone era, almeno per la società, pressoché nullo; così molte volte erano le stesse guardie a causare volontariamente fratture o ferite che poi con il tempo, non venendo curate un modo adeguato, causavano infezioni talvolta letali.
Dopo aver completato il quotidiano giro di controllo a tutte le celle del piano secondo dell'ala D, la coppia di uomini in divisa abbandonò la zona camminando a passo lento verso l'uscita, mentre uno dei due faceva scorrere minacciosamente il proprio manganello sulla superficie delle sbarre creando una sorta di macabra colonna sonora stonata.
Un avvertimento per tutti gli altri.
Ad osservare l'intera scena nel silenzio più totale era stato uno dei prigionieri più temuti, dapprima collocato ai piani inferiori ma recentemente trasferito in una nuova cella a seguito di una colluttazione avvenuta ai danni di un altro detenuto, del quale aveva causato la morte. Un individuo la cui crudeltà era preceduta soltanto dalla sua grande fama, nonché senza dubbio uno degli ospiti più pericolosi dell'intera struttura: Jeff the Killer, questo era lo pseudonimo che gli era stato affibbiato dai media locali.
Era stato collocato nella cella 17, affiancata da ambi i lati da altre due momentaneamente vuote.
Il comportamento abituale di questo individuo si differenziava in modo piuttosto marcato rispetto a quello degli altri criminali tenuti prigionieri in quel posto poiché lui, anziché dimostrarsi spavaldo o al contrario spaventato alla vista delle guardie, semplicemente non esprimeva mai alcun tipo di emozione. Per la maggior parte del tempo se ne stava immobile dietro alle sbarre con lo sguardo fisso a terra, teneva il capo quasi sempre chino utilizzando i suoi lunghi capelli neri per oscurare in modo parziale la sua visuale e talvolta si rifiutava anche di rispondere quando i secondini richiamavano la sua attenzione. Ciò che lo rendeva estremamente pericoloso era tuttavia il fatto che la sua condizione mentale fosse incredibilmente volubile motivo per cui, da un momento all'altro, poteva passare da uno stato quasi vegetativo a una reazione incredibilmente aggressiva, anche in assenza di una valida ragione.
La carnagione di Jeff era chiarissima, condizione causata dal fatto che la sua pelle non venisse a contatto con i raggi del sole da moltissimo tempo, ed era facilmente distinguibile anche grazie alla grottesca cicatrice che albergava sulle sue guance, un falso sorriso che lui stesso aveva inciso con l'ausilio di un grosso coltello da cucina ormai diversi anni addietro.
Ma soprattutto, a differenza di altri criminali presenti in quella lunga fila di celle maleodoranti, il numero di omicidi compiuti da Jeff the Killer era tutt'ora sconosciuto.

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