Nuove arrivate (pt.2)
Quando arrivai a casa, mamma era ancora al lavoro.
Appoggiai la borsa a terra accanto alla porta d'ingresso, nell'unico spazio non ancora occupato dagli scatoloni del trasloco, e mi concessi finalmente un sospiro.
Era stata una giornata impegnativa, come molte altre negli ultimi due mesi.
Da quando papà era morto, era andato tutto a rotoli.
Avevo mentito al signor Barnes, la mia insonnia era peggiorata ulteriormente da quel fatidico 15 agosto. Non ero riuscita a dormire per tre giorni interi, ero sull'orlo della pazzia. E le voci... le voci erano diventate più insistenti: se prima le sentivo solo di notte, nei miei pochi istanti di sonno, ora mi parlavano tutto il giorno. Erano sempre con me.
Erano parte di me.
E poi improvvisamente mamma aveva chiesto un trasferimento, perché diceva che per lei era troppo difficile vivere nella stessa città dove aveva conosciuto papà, nella casa che avevano comprato insieme per mettere su famiglia. Quindi l'aveva venduta, avevamo fatto le valigie, e c'eravamo messe in moto verso Bridgefield, una piccola cittadina a neanche un centinaio di chilometri da Brunswick. Quantomeno non avevamo cambiato Stato.
Stavo andando in cucina a prepararmi un sandwich quando suonò il campanello.
Mi paralizzai.
Mamma non c'era e io odiavo rapportarmi con persone sconosciute. Non sopportavo i convenevoli e le presentazioni, mi mettevano a disagio, e avrei scommesso i miei pochi risparmi che si trattava di qualche vicino venuto a salutare le nuove arrivate.
Potevo fingere di non essere in casa. Nessuno avrebbe saputo che avevo ignorato chiunque ci fosse alla porta. Per quanto ne sapeva mamma, ero ancora dallo psicologo della scuola.
Il campanello suonò di nuovo, con più insistenza. Sapevano che ero in casa.
Sbuffai, mi passai una mano sul viso e mi voltai verso l'ingresso, facendomi coraggio.
Non aprire.
Mi bloccai, le poche buone intenzioni che avevo che iniziavano a vacillare.
Il campanello suonò per una terza volta.
Ignoralo. Penseranno che non ci sia nessuno e se ne andranno.
Ma forse mi avevano vista entrare...
Non aprire, ho detto.
Suonarono di nuovo. Non potevo fare finta di niente.
Mettendo a zittire le voci, raggiunsi la porta in quattro grandi falcate e la spalancai.
Squadrai le due visitatrici in un millesimo di secondo, memorizzando tutti i possibili dettagli. La prima era una donna bassa e tarchiata, i capelli scuri striati di grigio raccolti in un morbido chignon e il viso paffuto aperto in un sorriso allegro. Al suo fianco, una ragazza più o meno della mia età teneva tra le mani una pirofila di vetro; era molto più alta della madre e vantava un fisico atletico da far invidia, con capelli castani che le ricadevano quasi fino ai fianchi in morbide onde e occhi azzurrissimi, del colore di un cielo d'estate.
«Ciao! Tu devi essere Margaret», esclamò la signora con un entusiasmo a me sconosciuto, il sorriso così grande da formarle tante piccole rughe d'espressione intorno agli occhi «Io sono Mary e lei è mia figlia Olivia, abitiamo proprio in fondo alla strada.»
Vicini. Come volevasi dimostrare.
Spostai lo sguardo sulla ragazza, che mi sorrise cordialmente.
«Ciao, buongiorno.» Ero a disagio come non mai e imbarazzatissima. Avevo difficoltà a conversare con persone che conoscevo da anni, figuriamoci queste formalità da vicinato. Riuscivo a dimostrarmi sicura di me solo sotto pressione, come era successo nello studio dello psicologo; in quei casi, l'arroganza ereditata da mia madre mi faceva sembrare un'altra persona rispetto a quella che ero realmente.
«Abbiamo saputo che siete appena arrivati e volevamo darvi il benvenuto in quartiere», continuò, per nulla scoraggiata dalla mia risposta.
«Ehm, grazie. Mia madre non è in casa.» Spostai il peso da un piede all'altro e tolsi la mano dalla maniglia solo per asciugarmi il palmo sui jeans.
«Oh, non preoccuparti, cara! Siamo solo passate a salutare, mio figlio Liam è all'allenamento di baseball, ma ti dà il benvenuto anche lui. Io e Olivia abbiamo preparato un pasticcio di carne.»
Notai distrattamente come avesse nominato il figlio tra le persone fuori casa ma non il marito.
Olivia mi allungò la pirofila coperta di carta stagnola. «Spero vi piaccia.»
Mamma era vegetariana. Ma erano state gentili, non vedevo alcun motivo per essere sgarbata.
«Vi ringrazio molto.» Presi il pasticcio con mani sudate e mi sentii maleducata e stupida. Perché non ero in grado di relazionarmi con le persone?
Perché loro non sono come te. Non ti capiscono.
«Come vi ho detto mia madre non c'è, ma se vi va di entrare posso prepararvi un tè, o un caffè», dissi tutto d'un fiato e mi sentii avvampare. Mi era costato moltissimo far loro quest'offerta e sperai fino all'ultimo secondo che rifiutassero, ma erano state cortesi e Olivia sembrava avere la mia età, forse frequentava la mia stessa scuola. Forse avremmo potuto essere amiche. Forse non sarei stata sola.
Non sei sola.
La signora annuì con entusiasmo e Olivia sorrise di nuovo. «Ci piacerebbe molto, grazie.»
Annuii anch'io con nervosismo e mi feci di lato, lasciando loro abbastanza spazio per passare.
«Siamo arrivate ieri e non siamo ancora riuscite a sistemare», mi scusai, notando i loro sguardi posarsi sui vari scatoloni «C'è un po' di confusione, mi dispiace.»
«Quando ci siamo trasferiti noi, ci sono stati scatoloni in giardino per tre settimane. Erano tutte cose che andavano riposte in garage, ma il garage era occupato da altrettanti scatoloni», mi rassicurò Mary.
«Siete nuovi anche voi?», chiesi, mettendo a bollire l'acqua.
«No, no. Siamo arrivati qui sette anni fa, quando Liam e Livvy erano ancora bambini. Avevamo bisogno di più spazio.»
«Oh, capisco.» Non ero brava a fare conversazione, non sapevo parlare del più e del meno, lo trovavo profondamente stupido.
Non avresti dovuto invitarle ad entrare.
«Ti ho vista a scuola, oggi», mi disse Olivia, mettendosi una ciocca ribelle dietro l'orecchio «Abbiamo vari corsi in comune. Volevo parlarti, ma sei scappata via subito.»
Alzai lo sguardo su di lei, sentendo un leggero calore inondarmi le guance. Non ricordavo di averla vista, ma non avevo prestato molta attenzione. Avevo trascorso tutto il tempo a cercare di farmi notare il meno possibile. A nessuno piacevano i nuovi arrivati, soprattutto se l'anno scolastico era iniziato da quasi un mese.
«Ci ho messo una vita a trovare le classi giuste, non volevo arrivare in ritardo alle lezioni successive», risposi, in tono forse un po' troppo secco. Non era mia intenzione, non volevo essere maleducata; il problema era che spesso mi sentivo attaccata, e rispondere a tono era il mio modo di mettermi nella difensiva.
Non si perse d'animo, anzi, mi sorrise. «Lo so, quella scuola è un labirinto. Se ti va, domani potremmo andare insieme, così troverai subito la classe giusta.»
«Mi piacerebbe molto», le sorrisi, e mi sembrò quasi strano. Da quando era morto papà, non sorridevo più.
Il rumore di chiavi che giravano nella toppa mi avvisò che mamma era tornata a casa e, conoscendola, non avrebbe apprezzato la presenza delle nostre vicine.
«Maggie? Maggie, come mai non hai ancora messo in ordine questi scatoloni?», urlò arrabbiata dall'ingresso.
Come se fosse stato compito mio, erano tutte cose sue.
«Sono in cucina», urlai di rimando, trattenendomi a stento dall'alzare gli occhi al cielo.
Avevamo ospiti, non volevo capissero da subito quanto disastrata fosse la mia famiglia.
«Beh, potresti anche muovere il culo e venire a sistemare tutto questo...», entrò in cucina a passo di marcia, bloccandosi non appena si rese conto che non ero sola «... casino. Salve.»
La nostra vicina si rianimò. «Salve! Sono Mary e lei è mia figlia Olivia, siamo le vicine. Siamo venute a darvi il benvenuto.»
Mamma strinse la sua mano tesa con circospezione. Odiava il contatto fisico, specialmente con persone sconosciute, ma rifiutarsi di toccarla sarebbe risultato a dir poco sgarbato.
«Louisa. È un piacere conoscervi.»
«Oh, il piacere è tutto nostro! Vedrete, vi troverete benissimo qui. Tutti nel quartiere sono gentilissimi e la città è molto tranquilla, non succede praticamente mai nulla qui. Mio figlio Liam si lamenta spesso di questo, ma è meglio così. Morirei di angoscia a sapere i miei figli in giro chissà dove in una città pericolosa.»
Sbirciai mamma di sottecchi, notando che la sua espressione era rimasta completamente impassibile. Dubitavo fortemente le interessasse sapere dove andavo e con chi, non le era mai importato, dopotutto. Era papà quello che si interessava a me. Papà che non c'era più.
Non pensare a lui.
«Non potrei essere più d'accordo», rispose semplicemente, facendo capire in modo educato che non era intenzionata a fare conversazione.
Ma Mary non si diede per vinta. «Siete qui per lavoro? La vecchia signora Higgings qui di fronte dice che si tratta di un trasferimento. Riguarda lei o il marito?»
Domanda sbagliata.
Gli occhi di mamma diventarono di ghiaccio e vidi le sue mani stringersi lungo i fianchi, così forte che le unghie le si conficcarono nei palmi.
Se io avevo problemi a parlare di papà, per lei era ancora peggio. Era stato l'amore della sua vita, avevano iniziato ad uscire insieme da giovanissimi e fin da subito era stato chiaro che erano fatti l'uno per l'altra. Non ho mai visto una coppia più affiata di loro dopo tanti anni insieme, e penso non la vedrò mai. Erano veramente perfetti insieme e mamma lo aveva amato più di qualsiasi cosa al mondo. Più di quanto avesse mai amato me.
Le nostre vicine dovettero accorgersi dell'improvvisa tensione, perché Mary arrossì lievemente.
«Scusate, non volevo essere invadente. A volte parlo troppo e faccio domande a sproposito», mormorò, abbassando lo sguardo.
Mamma continuava a non reagire, gli occhi così fissi su di lei che per un attimo pensai fossero diventati di vetro.
«Siamo solo noi», intervenni, deglutendo vistosamente e facendomi coraggio per pronunciare le parole seguenti «Papà non c'è.»
Papà non c'è.
Avevo pronunciato questa frase così tante volte negli ultimi due mesi che ormai non aveva più nemmeno significato. Poteva voler dire tutto e niente, come "papà non c'è al momento". Ma le persone capivano lo stesso, lo si vedeva da come improvvisamente abbassavano lo sguardo e mormoravano qualche parola di scusa, o dicevano qualcosa che avrebbe dovuto essere consolatorio. Ma non c'erano parole consolatorie per me.
Papà non c'era più, e non c'era niente che potessi fare al riguardo.
«Ci dispiace», disse Olivia, visibilmente mortificata «Non intendevamo in nessun modo essere offensive o invadenti. Non eravamo al corrente della situazione.»
E come avrebbero potuto esserlo? Eravamo arrivate da un solo giorno e non avevamo parlato con nessuno. Tutto ciò che si diceva su di noi nel vicinato erano voci probabilmente prive di fondamento. Ma era così che funzionava nei piccoli paesini, e prima o poi ci avremmo fatto l'abitudine.
«Non c'è problema», si riprese mamma, alzando il mento e provando addirittura a stiracchiare un sorriso, finto come il suo naso, che si era rifatta due anni prima «Non preoccupatevi. Però ora, se volete scusarci, io e Margaret dovremmo proprio iniziare a sistemare gli scatoloni.»
Alzai lo sguardo su di lei, stupita. Non era mai stata il massimo della gentilezza e cordialità, ma cacciarle così mi sembrava a dir poco sgarbato, perfino per i suoi standard.
«C-certo», balbettò Mary, presa alla sprovvista «Vi chiediamo scusa per il disturbo.»
Le guardai dirigersi verso la porta in silenzio, senza sapere bene cosa dire. Non volevo che se ne andassero così, ma non ero di certo la persona più adatta per risolvere una situazione del genere. Mamma, d'altra parte, stava ancora fissando il bancone della cucina con una tale intensità che mi aspettavo si rompesse da un momento all'altro.
Sull'uscio, Olivia si voltò un'ultima volta verso di noi. «Margaret? Se ti va, io domani esco di casa per le sette e mezzo. Mi farebbe davvero piacere se venissi con me.»
Si chiuse la porta alle spalle prima che potessi risponderle, ma sentii un sorriso sollevarmi gli angoli della bocca.
«Sembra una ragazza davvero adorabile», commentò mamma in un tono seccato che stonava con le sue parole.
«Già. Forse potrei riuscire a diventare sua amica. Non sarebbe male.»
«Non andrai con lei domani mattina.»
Mi voltai di scatto verso di lei, che avevo iniziato ad aprire le ante della credenza come se stesse cercando qualcosa, cosa di cui dubitavo fortemente, dal momento che era praticamente vuota.
«Cosa? Perché?»
«Gli ultimi scatoloni arrivano alle otto. Ho bisogno che tu sia qui per controllare che quelli del trasloco non facciano casino.»
Altri scatoloni? E dove diavolo li avremmo messi?
«Ma alle otto ho scuola. Non puoi stare qui tu? Tanto inizi di lavorare alle nove.»
Capii di aver esagerato dal modo in cui sbatté con violenza l'anta.
«Non permetterti di parlarmi così», sibilò, puntandomi un dito contro «Credi di essere l'unica ad avere problemi? Questo nuovo posto di lavoro fa schifo e la gente di questa stupida cittadina non fa altro che spettegolare su di noi da quando siamo arrivate. Quindi, per favore, non rendermi anche tu la vita un inferno e fai quel che ti dico.»
Abbassai gli occhi a terra, mordendomi il labbro. Mamma non era mai stata particolarmente comprensiva, ma da quando papà non c'era più era diventata praticamente ingestibile. Si comportava come se fosse stata solo lei ad aver perso papà. Come se io non avessi diritto di soffrire per la sua perdita.
Sopporta. Solo per questa volta.
No. Ero stanca di sopportare, di fare sempre finta che andasse tutto bene. Erano mesi che non facevo altro che abbassare la testa, perché ero fatta così. Ma ora avevo l'opportunità di farmi un'amica in una nuova città in cui non conoscevo assolutamente nessuno e non avrei di certo rinunciato solo perché me lo ordinava mamma.
Ti ho detto di sopportare.
No. Non questa volta.
«Ho visto il signor Barnes, oggi. Mi ha detto che vorrebbe vedermi domani prima dell'inizio delle lezioni, per assicurarsi che mi stia ambientando. Ma se proprio hai bisogno di me a casa posso chiamarlo e chiedergli di rimandare la seduta.»
Mamma era un libro aperto; non era in grado di mascherare la minima espressione, le si leggeva sempre in faccia tutto quello che le passava per la testa. Per questo capii subito di aver fatto centro, da come le si arrossò la parte alta delle guance dalla rabbia.
Era stata lei ad obbligarmi a vedere il signor Barnes, e saltare una seduta sarebbe andato contro i suoi ideali. Per non contare poi il fatto che, per lei, le apparenze erano quanto più contava nella nostra società.
Quindi non le restò altro da fare che sospirare stizzita.
«D'accordo, allora. Starò a casa io.»
«Grazie!» Le rivolsi un mezzo sorriso e scappai in camera prima che potesse cambiare idea.
Non esserne troppo contenta. Non sai che razza di persona sia questa Olivia.
Certo, non la conoscevo neppure. Ma finalmente avevo l'opportunità di ricominciare da zero, in una città senza pregiudizi e malelingue che pensavano di conoscermi meglio di quanto mi conoscessi io stessa. Finalmente, potevo essere solo Maggie.
Non sarai mai solo Maggie.
Potevo provarci. Ed ero intenzionata a farlo.
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