Nuove arrivate (pt.1)
Tenni lo sguardo fisso sull'orologio appeso al muro per quello che mi parve un tempo infinito, quando invece non era passato che qualche minuto.
Non volevo essere lì. Non volevo che quell'estraneo sapesse tutti i miei segreti e non volevo essere costretta a parlarne.
Eppure c'ero, anche se contro la mia volontà. A nessuno importava mai più di tanto di quello che volevo io.
«Allora, Margaret, come è andato il tuo primo giorno?»
Distolsi lo sguardo dall'orologio e lo posai sull'uomo calvo sulla quarantina seduto dall'altro lato della scrivania, in una poltrona rosso scuro molto più comoda della mia e con una penna in mano, pronto ad aggiungere note e commenti al mio fascicolo aperto ordinatamente davanti a lui. Un'ombra di barba gli scuriva le guance e gli occhi chiari erano piccoli, troppo piccoli per quelle sopracciglia folte e la fronte alta. Era decisamente brutto, eppure una rapida occhiata alla mano sinistra mi confermò che era sposato. Assurdo.
«Margaret?»
Sprofondai di più sulla sedia e tornai a fissare l'orologio. «È andato bene.»
Tic. Tac.
«Bene? Hai conosciuto qualcuno?»
Conosciuto? Era già tanto che qualcuno mi avesse rivolto la parola. Il che era successo esattamente due volte. Tre, se chiedere "permesso" valeva come tale.
«Sì, qualcuno in corridoio», risposi invece. Due minuti. Erano passati solo due maledettissimi minuti.
«Davvero? Chi?»
Dio, quanto avrei voluto andarmene.
«Non ricordo il suo nome. Una ragazza bionda.»
Inarcò un sopracciglio con uno sbuffo divertito. «Questa scuola pullula di ragazze bionde. Non mi sei d'aiuto.»
Mi limitai a fissarlo, abbastanza a lungo e intensamente da fargli capire che non me ne fregava un bel niente, prima di riportare lo sguardo sull'orologio.
«Margaret. Guardami, per favore.»
Non ci pensavo nemmeno. Il ticchettio delle lancette mi tranquillizzava con il suo ritmo ipnotico.
«Margaret.»
Oh, ecco il tono che non ammetteva repliche. Come se non ci avessi già fatto l'abitudine da anni.
Rotei gli occhi fino a farli posare su di lui e inarcai le sopracciglia. Sapere che il mio atteggiamento lo irritava mi provocava soddisfazione, anche se sentivo lo stomaco stretto in una morsa d'acciaio. Odiavo essere oggetto di attenzione, odiavo sentire sguardi sconosciuti su di me. Se avessi potuto, mi sarei scavata una fossa con le mie stesse mani pur di fuggire da lui. Ma non gliel'avrei mai data vinta.
«So che è il tuo primo giorno e che probabilmente vorresti essere ovunque tranne che qui, ma tua madre ha insistito perché ti conoscessi subito.»
Trattenni uno sbuffo a fatica. «Mia madre, certo. Non ho problemi mentali, come può vedere dal mio fascicolo. Ma, nonostante questo, la mia dolce e cara madre ha pensato di farmi visitare dallo psicologo della scuola il mio primo giorno, in modo da farmi passare per la psicopatica che è convinta io sia. Ma non lo sono, non è vero? Sono solo più irritabile degli altri e ho più difficoltà di concentrazione, ma l'insonnia non ha mai ucciso nessuno. Non è una malattia mentale.»
«Capisco la tua rabbia, Margaret, ma io ho le mani legate. Se tua madre vuole farti venire qui, tu devi venire qui. E nonostante quello che hai detto sia vero, l'insonnia non è un disturbo da sottovalutare, ricordatelo. Da quanto tempo non dormi?»
Da sempre. Non ricordavo nemmeno l'ultima volta che ero riuscita a dormire un'intera notte.
«Da un po'. Ma ogni tanto riesco ad addormentarmi per qualche ora.»
«Non è sufficiente, lo capisci, vero? Il tuo corpo ha bisogno di molte più ore di sonno per riuscire a restare sano e in forze.»
Come se non lo sapessi.
«Non è una cosa che decido io. Semplicemente non dormo e basta.»
«Lo so, ed è per questo che sei qui. Per trovare una soluzione, insieme. L'insonnia è peggiorata da quando è morto tuo padre?»
Una fitta di dolore mi attraversò il petto. «Non parlo di lui.»
«Non stiamo parlando di lui.»
«Sta cercando di collegare la mia insonnia alla morte di mio padre, ma lui non c'entra niente. Non dormivo già da prima. E io non parlo di lui.»
«D'accordo. Di cosa vuoi parlare, allora?»
«Di nulla. Voglio solo andare a casa.»
Lui sospirò, stropicciandosi gli occhi. «Sei appena arrivata, permettimi di conoscerti un po' meglio, che ne dici? Ti chiedo solo venti minuti del tuo tempo e poi ti lascio andare.»
Venti minuti erano un'eternità, ma non avevo molte altre alternative.
«Va bene, ma non le garantisco che risponderò a tutte le sue domande. Non mi fido di lei.»
Fidarmi delle persone era un problema serio per me. Fin da quando ero bambina, ero sempre stata sospettosa per qualsiasi cosa, a volte persino paranoica. Mamma era una bugiarda nata, quindi non era stata certo un buon esempio, ma non potevo dare tutta la colpa a lei. Un dottore da cui ero stata una volta mi aveva detto che la paranoia era spesso causata dall'insonnia, ma, di nuovo, non me la sentivo di usarla come scusa. Forse era semplicemente parte della mia natura.
«Lo capisco. Spero che con il tempo, conoscendoci meglio, capirai che non sono un tuo nemico. Per il momento, però, facciamo così: ti farò qualche domanda, a cui ti chiedo di rispondere con assoluta sincerità. Se non te la senti di essere sincera, non rispondere affatto. Ma niente bugie, va bene?»
La mia vita intera era una bugia. Chiedermi di farne a meno era come chiedermi di non respirare.
«Va bene.»
«Come è stato il tuo primo giorno?»
Quasi sorrisi. Quasi. «Orribile.»
Inarcò le sopracciglia, forse sorpreso dal mio essere così diretta. «Che cosa lo ha reso così tremendo?»
Le voci. Le grida. Le persone. Le voci. Levocilevocilevoci.
Non parlargli delle voci.
«La gente qui è... diversa. Penso ci metterò un po' ad abituarmi.»
«Cosa intendi con "diversa"?»
Mi strinsi nelle spalle. «È diversa. Non saprei dare una spiegazione.»
Mi fissò incuriosito per un secondo, poi distolse lo sguardo per scrivere una, forse due parole su un piccolo taccuino, troppo distante da me per poterlo leggere.
«Diversa. D'accordo. Che mi dici invece della casa nuova? Ti piace?»
«Sono arrivata ieri pomeriggio e ho trascorso tutto il tempo a svuotare scatoloni. Non ho praticamente nemmeno avuto il tempo di vederla.» Prima bugia. Metà degli scatoloni erano ancora impilati nella mia stanza, perché mi ero stancata e volevo dare un'occhiata in giro. La casa era carina, piccola ma accogliente, molto luminosa e con spazio più che sufficiente per due persone. Ma non avrei mai dato a mamma la soddisfazione di sentirsi dire che quella casa tutto sommato mi piaceva.
«Sei riuscita a dormire questa notte?»
«Non proprio.» Mi ero addormentata un paio d'ore e, per la prima volta dopo tanto tempo, ero riuscita a sognare. All'inizio ero in un luogo buio, poi qualcuno aveva iniziato a cantare e si era accesa una luce in lontananza e...
Non c'era nessuna luce. Non hai sognato.
«Pensi possa essere legato al trasferimento? Cambiare casa può causare molto stress.»
Avevo vissuto nella stessa casa per diciassette anni, quindi ne dubitavo fortemente.
«Può darsi.»
Se anche le mie risposte secche e vaghe lo infastidivano, non lo dava a vedere. Peccato.
Alzai di nuovo lo sguardo verso l'orologio, notando che erano passati quindici minuti. Forse mi avrebbe lasciata andare e lo strazio sarebbe terminato.
Intrecciò le dita sotto il mento e si sporse leggermente in avanti, lo sguardo improvvisamente serio.
«Ti capita mai di sentire delle voci?»
Aggrottai le sopracciglia, fingendo confusione. «Cosa?»
Ti sta sudando la fronte e il tuo battito è accelerato. Non sei brava a mentire.
Ero bravissima, invece.
Avevo cinque anni quando commisi l'errore di parlare a qualcuno delle voci che sentivo. Da bambina ingenua qual ero, lo dissi a papà, gli raccontai che, quando riuscivo ad addormentarmi, sognavo sempre un luogo buio e una voce mi teneva compagnia. Mi raccontava storie, mi parlava di cose di cui nessuno a parte me era a conoscenza. La voce mi conosceva, era mia amica.
Ovviamente, papà andò nel panico. Dopotutto, sentire voci che non esistono non è mai un buon segno.
Mi portò da vari strizzacervelli, ma nessuno di loro trovò qualcosa di sbagliato in me. Diedero tutti la colpa all'insonnia, dissero che la mancanza di sonno poteva causarmi allucinazioni, visive o uditive. Dissero che era normale. Che io ero normale.
Mi diedero dei sonniferi e varie medicine per provare a tenere a bada le allucinazioni, ma alla voce non piacquero, quindi mi feci più furba e iniziai a mentire.
Quando mi chiedevano se avessi iniziato a dormire, rispondevo che andava meglio; quando mi chiedevano se sentissi ancora voci, rispondevo di no.
«Ti ho chiesto se senti mai delle voci che sono solo nella tua testa. O se vedi cose che in realtà non esistono.»
«Mi sta chiedendo se soffro di allucinazioni?» Il mio tono di voce era basso, controllato. Avevo risposto a queste domande così tante volte che ormai le risposte mi venivano senza nemmeno pensarci troppo, come recitando un copione studiato alla perfezione.
Il signor Barnes socchiuse leggermente gli occhi. Mi stava analizzando, stava cercando di capire se la mia spavalderia fosse solo una facciata. Lo era, ma lui non poteva saperlo.
«Sì, immagino di sì.»
Mi scostai una ciocca bionda che mi era scivolata davanti agli occhi. «La risposta allora è no. Non soffro di allucinazioni, visive o uditive, da qualcosa come dodici anni. Certo, ne ho sofferto, ma ora non più. Ho preso alcuni farmaci che mi hanno aiutata.»
Questo era quello che volevano sentirsi dire tutti i medici: che i farmaci prescritti erano stati d'aiuto. Che, grazie a quelli, eravamo guariti. Ma, nella maggior parte dei casi, non era così. Eravamo solo diventati più bravi a mentire.
Rimase di nuovo in silenzio, scrutandomi. Non sembrava convinto.
Quindi sospirai e mi misi seduta più dritta, le mani unite in grembo in una posa da brava signorina. «Senta, so che nemmeno lei si fida di me. E va bene così, non ho fatto nulla per guadagnarmi la sua fiducia. Ma è tutto scritto nel mio fascicolo. Tutti i medici qualificati da cui sono stata hanno detto le stesse cose. Non sono malata. Sono solo stanca.»
Non abbassò lo sguardo sul mio fascicolo, ancora aperto ordinatamente davanti a sé, ma tenne lo sguardo incollato al mio, cercando di leggere nei miei occhi la verità. Quindi alzai il mento e sostenni a mia volta il suo sguardo. Dimostrarsi sicuri di sé era l'unico modo per sopravvivere in un mondo in cui le apparenze significavano tutto.
Dopo quasi un minuto, mi sorrise. «Direi che per oggi abbiamo finito. Sentiti libera di passare ogni volta che lo desideri.»
Non ci saremmo rivisti per un bel po', allora.
Sei stata brava, ma dovrai essere più convincente se vuoi liberarti di lui.
«La ringrazio, signor Barnes. Le auguro una buona giornata.»
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