Capitolo 6 - Grace

Vagai tutto il giorno per la città nascondendomi in qualche vicolo quando sentivo delle sirene farsi più vicine. Sapevo che la polizia mi stava cercando per comunicarmi l'accaduto o perché ero l'indiziata principale. Non riuscivo a capacitarmi di ciò che era appena successo. Ero rimasta orfana per la seconda volta e in più avevo forse ucciso l'uomo che amavo. Mi sentivo paralizzata dal dolore, non riuscivo a reagire, non sapevo cosa fare. Eppure non riuscivo a piangere, questo mi tormentava più di qualsiasi altra cosa.

Forse i sensi di colpa sarebbero arrivati più avanti, quando l'altro lato del mio carattere si sarebbe alternato a questo istinto omicida. Non volevo che quel momento arrivasse. Infondo gli eventi sono imprevedibili, non avevo tutta la colpa e non ero nemmeno sicura che fossero morti.

Attenta che nessuno mi vedesse andai a bussare a casa di Tristan. Era un appartamento a qualche isolato da dove abitavo io e mi ci volle un po' per arrivarci a piedi. Viveva da solo fortunatamente quindi non avrebbe avuto problemi a ospitarmi.

Bussai troppe volte impaziente che aprisse. Quando mi vide capì che qualcosa non andava dal mio viso struccato, i capelli spettinati, la tuta che indossavo. Non uscivo mai in quel modo. Mi accorsi solo in quel momento che non avevo nulla: cellulare, documenti, soldi, vestiti, niente. Quegli abiti erano l'unico ricordo che mi restava della mia vecchia vita. Vecchia, perché da quel giorno decisi di cambiare.

Gli raccontai tutto, che avevo aperto il gas per fare un semplice dispetto senza pensare alle conseguenze catastrofiche. Sapevo che di lui avrei potuto fidarmi, disse che fare delle bravate era normale e seppur titubante che non sarei dovuta uscire di casa finchè non si sarebbero avute notizie. Si era sparsa la voce che mi stavano tutti cercando, alcune persone mi avevano vista scappare via ma di Roy non si sapeva nulla. Non dormii tutta la notte e Tristan restò sveglio a controllarmi. Non sapeva dei miei problemi di salute ma temeva che avessi potuto uccidermi.

I miei genitori furono dichiarati morti il giorno dopo per le ustioni gravi e il fumo inalato. Mi sentii la persona più orribile del mondo. Passai una settimana senza parlare con nessuno. Se Roy fosse morto non me lo sarei mai perdonata.

Tristan andava a lavoro e chiedeva informazioni ai suoi conoscenti. Non si parlava d'altro, l'incendio era sulla bocca di tutti. La gente provava pietà per me, iniziò a pensare fossi fuggita via sconcertata e mi fossi suicidata ma non mi cercavano più; il problema principale era diventato mio fratello. Era in coma per il forte impatto. L'esplosione gli aveva fatto sbattere la testa sulla ringhiera della scala e io rivedevo quella scena centinaia di volte nella mia testa: il modo in cui mi aveva guardata l'ultima volta, seccato, le ultime parole che ci eravamo scambiati mi tormentavano. Sarei dovuta correre più veloce, precipitarmi di sopra e impedirgli di aprire, trascinarlo via. Lui mi aveva sempre protetta e io non lo avevo fatto.

Tristan si prendeva cura di me, mi comprò nuovi vestiti, dei trucchi, videocassette che guardavamo insieme. Io mi preoccupavo di tenere in ordine e pulito l'appartamento, visto che non potevo uscire. Ma le cose da fare non erano mai abbastanza e non servivano a distrarmi, i miei pensieri tornavano sempre a lui.

Decisi di uscire un pomeriggio, dopo una settimana dall'accaduto. Pensai che sarebbe stato necessario camuffare il mio aspetto, così mi tagliai i capelli e indossai un cappello maschile e un abbigliamento sportivo. Sembravo ancora io, ma almeno sarei passata inosservata. Lasciai un biglietto sul tavolo della cucina e presi il bus fino all'ospedale in cui Roy era ricoverato.

Chiesi di lui alla reception e andai alla stanza indicata. Ricordo che quando varcai la soglia lo vidi disteso sul letto, inerme, con le mani lungo i fianchi e tanti tubi collegati al suo corpo che lo tenevano in vita. Mi si strinse il cuore a constatare che la responsabile ero io. Iniziai a singhiozzare e chiedergli perdono, come se potesse svegliarsi. Pregai, pregai così tanto anche se non ero mai stata credente, ricordando tutti gli insegnamenti ricevuti in convento. Ma lui non apriva gli occhi e cosa peggiore non poteva più sentirmi. Non mi avrebbe più parlato se un giorno avrebbe visto cosa avevo combinato e per un momento ebbi persino la tentazione di staccare la spina. Ebbi paura di me stessa, di cosa avrei potuto fare contro la mia volontà e corsi via. Non tornai mai più.

Passarono i giorni. Fu proprio Tristan a procurarmi dei documenti falsi. Li poggiò sul tavolo proprio davanti a me e io incuriosita me li rigirai il nome. Lessi il nome: Camilla Smith. Cognome un po' troppo scontato, ma comunemente usato in america. Mi disse che se avessi voluto vivere una vita dignitosa avrei dovuto fare quel sacrificio. Inizialmente fui riluttante, cambiare vita significava cambiare aspetto, amicizie, abitazione. Tutto quello che avevo costruito sarebbe andato distrutto, ma dovevo farlo per me stessa, altrimenti avrei vissuto i miei ultimi anni in galera.

Così depositai tutti i miei ricordi nel passato e chiusi la porta. Ci misi mesi per abituarmi, per lasciarmi andare. Iniziai a lavorare in qualche negozio di abbigliamento, a realizzare me stessa. Diedi una possibilità a Tristan, lo lasciai entrare nella mia vita. Tutto sembrava migliorato anche se le crisi si facevano più frequenti e di notte avevo incubi terrificanti. Iniziai ad andare da uno psicologo ma non servì a molto. Sapevo che parlare non mi avrebbe curata. Per stare bene avevo bisogno di Roy, non di recitare la parte di qualcuno che non ero io. Ma dovetti rassegnarmi e diventare infelice.

La mia vita scorreva piatta e indisturbata, niente scombussolava quella tranquillità e mi annoiavo tremendamente. Persino l'arrivo di una gravidanza non destò in me alcuna emozione. Sarei dovuta sentirmi felice, arrabbiata, impaurita. E invece mi ritrovavo a guardare quelle doppie linee sul test indifferente. Non ero pronta ad avere un figlio e forse non sarei mai stata capace di accudirlo. Ma non volevo uccidere qualcun altro, non potevo e non era giusto. Per questo decisi di tenerlo, non perché lo volevo e non perché ero felice sarebbe stato proprio Tristan il padre, ma perché non volevo portare addosso l'ennesimo peso.

Lui era felicissimo, mi amava troppo e si vedeva. Acconsentiva a tutte le mie richieste e i miei capricci, passava sopra ai miei comportamenti strani, mi tranquillizzava durante le mie crisi. Eppure per me non era mai abbastanza, non lo sarebbe mai stato perché non era Roy. Non mi avrebbe mai fatta sentire come lui, mai avrei provato quelle emozioni mentre mi sfiorava. Quella porta era chiusa, ma non a chiave e una parte di me sperava disperatamente che l'uomo che amavo la spalancasse e mi portasse via da quella commedia.

Ero parte della sua famiglia, della sua vita. Conoscevo i suoi amici, i suoi genitori mi volevano bene e anche sua sorella. Mangiavamo spesso da loro e avevamo sempre qualcosa da fare la sera. Una persona normale non si sarebbe annoiata ma a me sembrava di vivere in modo passivo qualsiasi cosa, come se mi osservassi da fuori mentre parlavo con gente che reputavo estranea, che voleva sentire la mia pancia, che si congratulava. Mi guardavo mentre facevo la spesa, mentre cucinavo per due, andavo a lavoro e mi presentavo a tutti come Camilla. Non Grace. Grace non c'era più, era morta in quell'incendio.

Eppure io mi sentivo terribilmente infelice e nessun farmaco poteva più aiutarmi. Ma quando vidi per la prima volta quel bambino, quell'essere che avevo creato io, noi, così indifeso e piccolo e di uno strano colorito, capii che per la prima volta avevo una responsabilità.

Provai una nuova emozione, forte, intensa. Non potevo più pensare alla mia felicità mettendo in secondo piano tutti gli altri. E quell'uomo che ci guardava con gli occhi lucidi, che mi aveva baciata ogni giorno rientrando da lavoro, con cui avevo fatto l'amore ogni notte cercando di dimenticare il resto, quell'uomo che ora avrebbe amato entrambi, era la mia famiglia. E quel bambino che tenevo stretto al petto adesso ne faceva parte.

Forse, pensai, sarebbe riuscito a salvarmi. Avrebbe cancellato ogni istinto che si celava dentro la mia anima, ogni impulso, ogni speranza di essere amata da qualcun altro. Il suo amore avrebbe compensato ogni dolore e ogni mancanza.

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