Capitolo 27 - Davis
«Davis, allora? Hai preso anche lo zenzero vero?»
Salgo affannosamente le scale fino alla porta d'ingresso attento a non rovesciare la busta che ho tra le braccia.
«Yes... cioè, si.» Che strano dover parlare in italiano. Non capisco molto, eppure Nora mi aveva insegnato molte cose. Avevo anche un quaderno pieno di appunti, numeri, verbi coniugati per esercitarmi, traduzioni di modi di dire... e probabilmente è una delle poche cose che mi rimarrà di lei.
Sento la risata grassa di mio zio provenire dalla cucina. Chiudo la porta spingendola con il piede e vado vicino a lui. E' intento a impastare biscotti natalizi anche se siamo ancora a novembre. Come avrebbe fatto lei. Scuoto la testa.
«Puoi prenderlo?»
Annuisco. Strappo una bustina e gliela passo, lui la aggiunge alla pasta e continua a lavorarla energicamente. Sono contento di essere venuto qui, l'Italia è bella, calda. Inoltre lui non è per niente come lo immaginavo. E' robusto, sui cinquant'anni, simpatico, fa il cuoco. Non è burbero come lo avevo sognato mentre ero in coma. E' sposato ma in casa spesso siamo solo noi due, sua moglie lavora fino a tardi in ospedale, fa l'infermiera. Comunque compensa la sua mancanza con tutti gli amici di cui dispone, la casa è sempre piena di belle persone.
E' stato così gentile da organizzarmi una festa di benvenuto e io mi sono dilettato a preparare molti cocktail, proprio come una volta. Anche se non capivo molto di ciò che si diceva, mi sono divertito. Sto seguendo un corso in italiano e per esercitarmi guardo film sottotitolati con lui, molti dei quali avevo già visto nella mia lingua.
E poi la casa è grande, su due piani. Il quartiere tranquillo, isolato dal centro. Per andare a lavoro devo fare un po' di strada, ma poco importa. Finalmente sono libero, e ho una vita che mi piace. Forse, non molto libero. Mi sento ancora inevitabilmente legato al ricordo di Nora. Sento come se una metà del mio cuore fosse costantemente in tensione, come se un filo lo tirasse sempre più forte e mi ricordasse che siamo troppo lontani.
Sono già passati sei mesi, probabilmente lei sarà già andata oltre la nostra storia, sono io che continuo a immaginare un legame che non esiste. Eppure, mi piace credere che se tornassi lei sarebbe ancora lì ad aspettarmi. O meglio, se i nostri sguardi si incrociassero di nuovo, allora anche i nostri pensieri si sintonizzerebbero sulla stessa frequenza, e così le nostre emozioni, i nostri ricordi, e questo senso di appartenenza lo sentirebbe anche lei. Ma sono solo fantasie, queste cose succedono nei film. Come quando guardi le stelle e ti illudi che anche lei ti stia cercando da qualche parte nel mondo.
«Ti piacciono?»
«Si.» sorrido guardando le forme ad alberello e omino.
Dopo li decori tu, eh?» scoppia a ridere anche se io non ho capito.
«After, you...» prende la sac a poche con la glassa e mima il gesto.
«Ohh...» rido. «Assolutamente no.»
«Come no? E che vui, magnà e basta?» mette la prima teglia nel forno e si pulisce le mani sul grembiule. «Scherzo, scherzo...» fa un'altra grassa risata e accende la televisione. C'è il notiziario, niente di più noioso. Sono già le quattro, devo affrettarmi ad andare.
«Mangio dopo i cookies.» dico mescolando entrambe le lingue.
Prendo il cappotto ed esco nella bella Napoli. I panni appesi sui balconi come ogni giorno, le case alte e vecchie ma ancora integre, le strade piene di gente, i ragazzini in scooter, le sfogliatelle e i babà nelle vetrine delle pasticcerie. Perché ho sprecato così tanto tempo a cercare di ricostruire una vita ormai rovinata? Aspetto l'autobus alla fermata. Una donna anziana grida qualcosa dal balcone al marito per farsi sentire. Lui continua a non capire, vanno avanti così per due minuti buoni, nel loro dialetto che probabilmente non capirò mai. Avevo detto quartiere tranquillo?
Arriva il bus, saliamo e finiamo tutti pressati come sardine. Non ci sono posti per sedersi, tutti si lamentano. Probabilmente è l'unica cosa uguale in ogni città. Osservo una coppia di trentenni seduti vicini, entrambi con gli occhi puntati sul cellulare. Altra gente, bambini, anziani. Sembrano così diversi dagli americani, eppure siamo tutte persone. Forse è solo la mentalità a cambiare, fatta di tradizioni, culture, lingue diverse. Cerco di immaginare qualcosa della loro vita, cosa fanno, dove lavorano. Anche loro hanno un vissuto spiacevole come il mio, hanno voglia di ricominciare? A guardarli così non si direbbe, sembrano semplicemente annoiati di doversi spostare per chissà quale motivo, di stare in mezzo agli altri. Non vedono l'ora di scendere, si posizionano davanti alla porta automatica almeno dieci minuti prima. Io preferisco fare la corsa dell'ultimo secondo, che se va male faccio un giro diverso della città.
Premo sul tasto per chiamare la fermata e scendo. Proseguo altri dieci metri circa e finalmente arrivo davanti al Planetario.
Chi lo avrebbe mai detto. Forse non ho realizzato il mio sogno di diventare un insegnante, ma ho comunque qualcosa da offrire a tutta la gente che paga per vedere un cielo proiettato dentro una cupola, molto realistico, devo ammettere. Solitamente mi occupo dello show inglese, visto che è la mia lingua madre, Sarah della parte spagnola, e Nando di quella Italiana. Comunque, è un ottimo metodo per imparare.
Spingo la porta e saluto Christian all'ingresso. Lui è l'addetto ai pagamenti e distribuisce occhiali 3D.
«Ciao Davis!» esclama con il suo accento marcatissimo. Non dice altro perché sa che non capirei e dovrebbe mettersi a spiegare e gesticolare con molta calma, e al momento non c'è tempo. Dobbiamo preparare lo spettacolo, la sala.
Spingo la porta. «Hei, folks.» saluto.
«Davis!» Tutti sono contenti di vedermi. Mi passano la scaletta degli argomenti da trattare e le do una breve lettura, so già tutto a memoria ormai. Nessuno è sorpreso, sanno già che ho studiato astronomia per molto tempo e sono molto sicuro di ciò che dirò. Per me non si tratta di ripetere qualcosa a memoria ma di trasmettere una passione.
Le prime persone stanno già arrivando, ma ci vorrà ancora un po' prima che la stanza si riempia perché ha una capienza di 130 posti.
«Be', vado a fare i caffè.» dico allontanandomi. Percorro il lungo corridoio e giungo davanti ai distributori automatici. Sono tutti occupati perciò aspetto il mio turno. Nel frattempo penso a quanti dovrò prenderne: uno per me, Sarah, Nando, Elena, Gianni... uno spintone interrompe bruscamente il conteggio e mi accorgo che la donna che era di fronte a me non si era accorta della mia presenza, quindi facendo per andare via è finita contro la mia spalla.
«Oh Dio, mi scusi, scusi davvero. Per fortuna non l'ho macchiata!» E' visibilmente mortificata.
«Fa niente.» Sorrido rassicurandola ma lei continua a giustificarsi. Noto con piacere che ha un aspetto molto giovanile, è bella, con dei boccoli castani che le ricadono sulle spalle, delle labbra sottili... smette di parlare e i suoi occhi finalmente si puntano sui miei, in questo modo li scopro grandi e marrone scuro, quasi neri.
E' in silenzio, forse aspetta che io dica qualcosa? Mi guardo intorno, non c'è più nessuno, solo noi due in questo buffo incontro. Certo, non sarà mai come quello con Nora.
«Ehm... fa niente, davvero.» Ripeto.
«Posso offrirtelo?» mi porge il bicchiere di carta. «Non è zuccherato, però.»
Vorrei trovare le parole giuste per spiegarle che in effetti sono qui per prenderne molti di più, ma in questo momento non mi viene in mente nulla, sembra che io abbia dimenticato come si parla. Inconsciamente allungo la mano verso la sua, sfiorandola mentre accetto l'offerta. Sento una strana scarica pervadermi il braccio.
Rimaniamo a fissarci in modo strano, come nei film. Come se fosse appena successo il così detto "colpo di fulmine".
«Di solito è l'uomo che offre.»
«Oh, questi sciocchi conformismi...» sorride pigiando qualche tasto sul display per ordinare un altro caffè. Non sono sicuro di aver capito il significato di ciò che ha detto, ma rimango comunque a fissarla. Devo ammettere che è proprio bella.
«Non sei italiano, vero?»
Sorrido. «Si nota?»
«Si, non solo dall'accento.» mi guarda in modo malizioso. «Hai quel fascino americano per cui ho sempre avuto un debole.» prende il caffè e lo sorseggia.
E' molto diretta, mi piace ancora di più.
«Grazie.» Dico senza pensarci, e subito mi rendo conto di aver detto una cavolata e corrugo le sopracciglia.
Lei scoppia a ridere. «Una donna ti fa una confessione simile e tu rispondi così?»
«Be'...» faccio spallucce. Sono ipnotizzato anch'io dal suo fascino, ma non le dico nulla.
«Allora, di cosa ti occupi? Oh, aspetta. Nemmeno ci siamo presentati. Sono Cinzia.» non mi porge la mano, si limita a sorridere.
«Davis.»
E così iniziamo a parlare, forse più lei che io, dimenticandomi del caffè per i miei colleghi. Ma ascoltare è bello, la sua voce è bella, e l'entusiasmo che ci mette nel raccontare o nel farmi capire meglio cosa sta dicendo. La guardo attentamente, il suo corpo snello ma non troppo magro, il lungo cappotto nero che le arriva alle ginocchia e non mi permette di vedere altro. Vorrei poter restare a chiacchierare per ore, e lo farei, se non dovessi lavorare. Quando glielo spiego, lei rimane sorpresa.
«Ma davvero, sei tu a parlare?»
«Si, ma durante la parte in inglese.» specifico.
«Ma allora ho fatto bene a scegliere quello spettacolo. Sai, sono stata in America per due anni.» mi fa l'occhiolino, e poi mi saluta con un sorriso che credo non dimenticherò facilmente, mentre si dirige verso la sala.
«Magari ci vediamo dopo, così ti do un giudizio.»
Faccio una risatina e annuisco prima di tornare dai ragazzi. Sembra che io abbia l'aspetto di un dodicenne alle prese con la sua prima ragazza. Ma poco importa, dopo mesi avevo proprio bisogno di una voce femminile che portasse una ventata d'aria fresca. O più precisamente, di profumo al gelsomino e agrumi.
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