Capitolo 20 - Davis

Non è la prima volta che faccio questa strada, eppure stavolta mi sento più ansioso del solito. E se ci fosse qualcuno, se non fosse sola? Se non volesse parlarmi? Dovrei essere io quello arrabbiato, dopo quello che è successo. Ha davvero esagerato.

Busso con foga alla porta e aspetto impaziente che venga ad aprire. Niente. Busso ancora.

«Un attimo!» Sento in lontananza.

Mi dondolo sui talloni e mi guardo intorno. Spero che nessuno mi veda, chissà cosa penserebbero. Perché mi importa del giudizio degli altri? Sono tornato solo per mettere le cose in chiaro.

La serratura scatta e i suoi occhi si spalancano dalla sorpresa. Forse il suo cuore ha sussultato nel vedermi perché non se lo aspettava ma riesce a dissimulare perfettamente la situazione. «A cosa devo l'onore?» mostra un gran sorriso.

«Ciao Grace.»

«Camilla.» puntualizza facendosi da parte per farmi entrare.

Non posso fare a meno di osservare l'appartamento e metterlo a paragone con il mio. Forse non più così mio. Scaccio via questo pensiero e mi concentro sull'arredo tutto colorato con mobili contrastanti tra loro, giocattoli sparsi ovunque, disegni appiccicati sulle pareti, calamite sul frigo. Il classico ambiente di una famiglia che non sembra distrutta. Dovrei rattristarmi a questo pensiero invece sono felice che sia sola, e non perché io sia gelosa ma perché se lo merita.

«Scusa, stavo facendo il bagno a Leo. Ci vorranno solo dieci minuti, tu mettiti comodo.»

Annuisco. «Fa con calma, non c'è fretta.»

«Dico davvero, siediti, accendi la tv, mangia...»

«Ho detto va bene.» rispondo seccato. Grace fa un sorriso tirato e si allontana verso il bagno. La guardo da dietro mentre scompare, il suo modo di camminare non è cambiato, e sono sicuro che non sia l'unica cosa, ma devo ancora scoprirlo. Di sicuro mi ama ancora, altrimenti non sarebbe rimasta a ficcanasare e intromettersi nelle nostre vite con così poca disinvoltura.

La televisione è posta su un mobile che funge anche da libreria ma vari ripiani contengono cornici con foto di lei e suo figlio, e persino di Tristan. Altra gente che presumo siano i parenti di lui, amici di lui, perché chi sarebbe capace di socializzare con lei? Forse è cambiata, forse aveva solo bisogno di crescere.

Scuoto la testa, un vecchio detto recita che chi nasce tondo non può morire quadrato. Questi proverbi sono stati creati da gente con più esperienza di noi, perciò bisogna sempre prenderli per buoni.

Mi siedo sul divano rosso tulipano e cerco di rilassarmi. Mi sento così in colpa ad essere qui, non ho nemmeno preparato un discorso. Poche ore fa ero davanti alla caserma pronto a vuotare il sacco, e ora sono qui in casa sua. Chiudo gli occhi e penso a Nora, il suo ricordo forse mi guiderà. Ma come può, ora che l'ho rovinato?

Sento le loro voci nell'altra stanza, la familiarità, l'amore e il calore che c'è tra loro e che mi esclude. Chi sono io per rovinarlo? Quel bambino non ha nessuna colpa ma Grace non merita una seconda possibilità, non dopo aver ucciso i miei genitori, che per molto sono stati anche i suoi. L'hanno cresciuta, le hanno dato lo stesso affetto che lei ora sta dando a suo figlio mentre giocano con la schiuma, mentre gli insapona la testa. Vorrei urlare, era meglio non ricordare mai più. Ma la sindrome post-commozione probabilmente non può durare in eterno.

«Eccoci.» Grace è di nuovo in salotto e stavolta con Leo. Non mi saluta e va in cucina ad aprire uno stipite, forse cerca qualcosa da mangiare.

Lei si siede accanto a me. «Allora, dov'è Nora?»

Stringo i pugni, è così palese che ci siamo lasciati e lei ne sta approfittando provocandomi.

«Perché l'hai assecondata l'altra volta?» vado al sodo.

«Sai che mi piacciono queste cose. E poi ha così insistito. Tra l'altro non aveva specificato nulla, l'ho capito dopo quando c'eravamo tutti che cosa avesse in mente.»

«Potevi tirarti indietro.» rispondo freddo.

«Io, tirarmi indietro?» fa un sorriso ammiccante e capisco cosa intende. La osservo bene, i capelli sono lunghi fino alla spalla, il colore nero appena fatto, il viso senza un filo di trucco da cui vedo delle occhiaie. Chissà come passa le sue giornate quando non progetta omicidi.

Si è creato un silenzio imbarazzante, nessuno sa più cosa dire. Ma Grace è sempre stata sicura di sé e mi guarda seria e senza esitazione facendomi distogliere lo sguardo.

Nemmeno Leo dice niente e per essere un bambino dovrebbe fare molte domande stupide che in questo momento sarebbero gradite.

«La verità è che mi piace vedere come le cose a poco a poco si distruggono da sole, o forse sono già distrutte altrimenti non saresti qui. Dico bene?»

Essere così sfacciata è un'altra cosa che non cambierà mai in lei. Mi sento ribollire, riesce a tirare fuori un istinto rabbioso che preferirei restasse celato.

«La verità invece è che dovresti finalmente rassegnarti.» la provoco dandole il colpo finale. «Non capisci che il mio passato non mi appartiene più? Tu non mi appartieni più perché non ti voglio più.»

Grace scoppia a ridere. «Hai dimenticato quando l'acqua del pozzo ti sembrava champagne?»

Strabuzzo gli occhi. Si paragona a dello champagne? Io direi piuttosto un amaro, che gradisci quando hai bisogno di digerire ma sdegni al momento del dolce.

«Basta con queste stupidaggini.» mi alzo con furia e lei d'istinto mi blocca il polso. Guardo la sua mano in silenzio e anche lei, senza mollare la presa. Sento il calore della sua pelle, sento i nostri ricordi e la rabbia farsi da parte.

Lei non voleva ucciderli davvero, sento dentro di me. Ma lo ha fatto. Niente e nessuno li riporterà indietro o la assolverà dall'aver ucciso.

«E' stato un incidente.» Sussurra con le lacrime agli occhi.

Mi fa rabbrividire il fatto che stessimo pensando entrambi alla stessa cosa. Forse aspettava il momento in cui avessi ricordato per potersi scusare, ma definire la loro morte un semplice sbaglio non la rende meno tragica. Non è possibile accettare una cosa simile, n'è amare una persona con un passato simile di cui io sono vittima.

Con uno strattone mi libero dalla sua presa ma non mi muovo. Lei rimane a guardare un punto indefinito sul divano e cerca di non singhiozzare, probabilmente per non richiamare l'attenzione del figlio. Se non fosse qui mi sarei già messo a urlare.

Faccio un respiro profondo. Dovrei dirle quanto sono arrabbiato per avermi tenuto nascosto la sua identità e tutto il resto, avrei dovuto sapere prima di tutti questi mesi. Adesso capisco Nora, so come ci si sente.

«Perché fin ora sei rimasta dietro le quinte?»

E' sorpresa dalla mia domanda.

«Avevo paura di come avresti reagito... e non volevo ammettere a voce alta quello che avevo...» la voce le muore in gola.

«Mamma, vado di là a guardare la tv.» dice Leo annoiato.

«Si.» risponde cambiando voce.

Lo guardo correre nella sua stanza e mi rendo conto che sono davvero felice e sollevato che non sia mio figlio, questa situazione è già abbastanza assurda così.

«Non l'ho fatto a posta Roy, ti prego...» inizia a singhiozzare. Sentirle pronunciare quel nome mi infastidisce.

«Non chiamarmi così. Dico sul serio.»

Alza lo sguardo con occhi e naso arrossati e mi guarda disperata. «Ma perché cambiare? Perché farlo se sei sempre tu.»

Faccio una risatina. «E' qui che sbagli, Camilla. Devi uscire quel mondo perché sei rimasta solo tu. Io me ne sono andato tempo prima, e non con l'incidente, come lo chiami tu. Svegliati, guardati intorno. Non c'è niente da ripescare.»

Spalanca gli occhi e cade in ginocchio aggrappandosi ai miei pantaloni. Mi sembra sempre la solita bambina capricciosa. «No, no, no, no, no. Non è vero...» piange a dirotto ma non provoca in me la minima compassione.

«Si, è vero.»

«Oh, Dio... ti prego aiutami.» blatera tra sé, ancora aggrappata ai miei jeans. D'un tratto il suo pianto si interrompe, tira su con il naso, si asciuga gli occhi e si alza.

Si decide a guardarmi. «Perché non esci tu da questa finta vita che ti sei creato?»

Sento una fitta allo stomaco. Ho lottato per arrivare dove sono oggi, ho perso la donna che amavo, ho sofferto. Non abbandonerò tutto ciò in cui credo. Anche se per lei non è reale, per me è più vero di ciò che c'è stato tra di noi.

Improvvisamente mi abbraccia, così forte che non ho il tempo né di liberarmi né di agire. Sento il suo profumo e ricordo che è lo stesso. Sento la sua stretta salda, la forma del suo corpo, sento che mi sciolgo.

«Lo sai anche tu...» sussurra sul mio petto.

Resto immobile, in una posizione da soldato, avrebbe detto Nora. Il suo ricordo si fa spazio dentro me continuamente come per avvertirmi, e io puntualmente lo scaccio via. Mi sento raggelare al pensiero di cosa penserebbe nel vedermi qui, così.

Allora Grace mi bacia, e in un attimo non capisco più nulla. Vorrei respingerla ma sento le sue labbra così morbide che vorrei assaporarle ancora per un po'. Sono così diverse da quelle che nell'ultimo periodo ho toccato, il suo modo di fare è così diverso. Così diretto, così seducente.

«Dimmi che c'è ancora spazio per me lì dentro.» mette la sua piccola mano sotto la mia maglia, proprio sul mio cuore. Sento che batte dalla paura e dall'eccitazione.

Per risposta ricambio il suo bacio, vorrei dirle che c'è spazio solo per un ultimo addio ma lascio che siano i fatti a parlare e lentamente la spingo sul divano finchè non si lascia cadere.

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