Capitolo 2 - Camilla

«Non ci posso credere. Come può essersi comportata così?»

«Concordo. Non è mica colpa sua se non riesce a controllare la forza. Dovrebbe fare terapia.»

«Comunque io non mi sarei permessa di dire niente.»

Continuo a osservare le due donne davanti a me. Anche loro aspettano i loro figli fuori da scuola e nel frattempo sparlano delle altre madri. Io mi sento piuttosto fuori luogo: una mamma single e giovane che non sa nemmeno come educare il proprio bambino. Si, perché quello che non riesce a controllarsi è proprio il mio. Ma loro non lo sanno, altrimenti si sarebbero ben riguardate dal dirlo. Mi avvicino lentamente e sorrido minacciosamente. Mi guardano strano e poi si lanciano un'occhiata tra di loro.

«Ma che strano, eh?» dico.

«Che cosa?» risponde una.

«Il fatto che non appena succeda qualcosa, non si perda l'occasione per spettegolare.»

«Mi scusi?»

Mostro un ghigno. «Il fatto è che la gente non può fare a meno di farsi i fatti degli altri. Secondo voi lo fa per istinto di sopravvivenza? Per imporre la propria superiorità? O per sentirsi meno insignificante?»

«Ehm...» balbettano allunisono. 

Osservo le loro borse Louis Vitton, i loro jeans Levis, i loro gioielli doro. «Oh, ma voi non ne avete bisogno. Dico bene?» Mi allontano verso il cancello senza ascoltare la loro risposta. Sento i loro occhi su di me mentre mi allontano, ma non mi importa di essere sembrata antipatica. Mi sento stranamente sollevata, una sensazione di benessere si diffonde in me. Sorrido.

Difendere mio figlio è il minimo che possa fare. E' dura da soli ma fin ora me la sono cavata, posso continuare a farlo.

La campanella suona, e tra centinaia di bambini io aspetto di scorgere il viso del mio. Poi lo vedo, con i suoi capelli castani, il suo sorriso uguale a lui. Ma poco importa, perché ha i miei occhi. Si guarda intorno e non appena mi vede mi corre incontro. Mi da la mano e ci incamminiamo verso casa mentre lui mi racconta la sua giornata mentre penso che forse anche oggi passerà in fretta.

Giro la chiave nella serratura del portone e non appena si apre Leo si fionda dentro. Lascio il suo zaino all'ingresso e poggio il cartone della pizza sul tavolo.

«Che gusto è?» mi chiede leccandosi i baffi.

«Con le patatine, come piace a te.»

Sorride e apre lo scatolo. Inizia a mangiare con le mani stando attento a non sporcarsi. Io lo guardo e basta, non ho fame. Ho tante cose a cui pensare: le bollette da pagare, lo stipendio che non arriva, a noi due che siamo soli, a lui. Non sarei dovuta restare qui dopo l'incidente. Ero convinta di volerlo dimenticare, invece fin ora ho fatto il possibile per potergli restare vicina. Ecco perché nessuna storia ha mai funzionato, perché nel profondo è rimasto questo desiderio nascosto.

Le mie giornate sono piene di cose da fare per impedirmi di restare sola con i miei pensieri, ma nonostante questo sembrano tutte uguali: portare Leo a scuola, andare all'università, fare tirocinio, andare a prendere Leo, lavorare, prendere le medicine, occuparmi della casa.

Eppure non mi sono rassegnata; adesso sembra che non ci sia più speranza perchè al contrario di me è andato avanti ma io sono qui per ricordargli cosa si prova ad amare davvero.

-

«Quando torni a prendermi?»

Gli spettino i capelli con la mano. «Non preoccuparti. Alle otto finisco di lavorare.»

Sembra essere soddisfatto della mia risposta. Leo è sempre stato tranquillo e perspicace: mi ricordo la prima volta che imparò a leggere, qualche mese fa. Eravamo nella sala d'attesa del veterinario perché il criceto stava male, a un tratto si girò verso di me e mi disse «Mamma, io so come si legge lì.» e indicò un cartello appiccicato al muro.

Pensavo scherzasse. «Come?»

«Vi-e-ta-to fu-ma-re.» e lo aveva letto davvero. A soli quattro anni.

Suono il campanello e in meno di dieci secondi la porta si apre.

«Oh, siete voi.»

«Salve signora Agnes.»

Leo corre dentro a rincorrere il gatto. Sorrido. «Torno il prima possibile.»

«Fai con calma, noi ci divertiremo. Vero Leo?» ma prima che possa sentire la sua risposta ha già chiuso la porta.

Mentre mi dirigo verso l'ospedale non posso fare a meno di fissare quella casa da lontano e di ricordare.

E' stata pitturata di un azzurro pastello e nel giardino sono stati piantati dei fiori. Mi accorgo solo ora che tutte le altre sono attaccate tra di loro mentre questa si trova per conto proprio. Ci sono le luci accese, delle sagome si intravedono dalla finestra ma so che non possono essere i miei genitori, perchè io li ho uccisi. Non sarebbe dovuta andare così, la situazione mi è sfuggita di mano. Sento il panico farsi spazio dentro di me e guardo in alto. Tutto è spento, disabitato. Dov'è Roy? Mi costringo a camminare, a guardare avanti, ma i miei piedi non ne vogliono sapere.

In un attimo sono sul retro, davanti a quella scala in legno. Salgo lentamente, spero che nessuno mi veda. Sono indecisa se bussare o no. Provo ad aprire la porta ma è chiusa. Mi avvicino alla finestra e cerco di guardare attraverso il vetro, non si vede nulla. Ci riproverò la prossima volta. Delusa mi avvio alla fermata dell'autobus. Corro veloce perchè il bus è già arrivato e non posso perderlo.

«Aspetti!» urlo per farmi sentire.

L'autista riapre le portiere e aspetta che salga. Mi guarda male ma non dice nulla. Con il fiato pesante mi siedo al primo posto libero che vedo.

Frugo nella borsa e cerco le pillole per l'ansia. In questo momento ne ho proprio bisogno, ma non mi aiuteranno per sempre. Questo è un peso che porterò per sempre dentro. Sono un'assassina. Sono pazza. Cerco di fare dei respiri profondi. Ci fermiamo a un semaforo e guardo le persone dentro le loro auto. Decido di scendere e proseguire a piedi, non posso più resistere chiusa qui dentro.

Corro veloce verso l'ospedale. Guardo l'orologio, mancano ancora dieci minuti, posso farcela.

Volevo solo addormentarli, non pensavo ci sarebbe stata un'esplosione. Sono stata così stupida.

Corro ancora mentre penso che se qualcuno mi riconoscesse capirebbero tutto perchè non hanno mai trovato il mio corpo, chiamerebbero la polizia, si accorgerebbero dei miei documenti falsi e questo sarebbe un reato in più per cui punirmi. Mi separerebbero da Leo. Ho un groppo in gola, sento le lacrime scendermi sulle guance. Questo è uno di quei periodi in cui la depressione prevale sugli altri disturbi dovuti al bipolarismo. Mi consolo sapendo che passerà, prima o poi. I dottori mi stanno aiutando molto.

Entro nella reception, saluto il personale e vado a mettere la divisa. Prendo il carrello delle pulizie; questo è l'unico lavoro che posso permettermi per ora, senza contratto. So che anche Roy sta facendo così. Una cosa che non capisco è il motivo per cui abbia cambiato identità se non è colpevole e nemmeno si ricorda cosa sia successo.

Proprio mentre sto per entrare in una stanza, dal bagno di servizio esce lui, Roy. Ci guardiamo. Lui è il primo a distogliere lo sguardo. Vorrei dire qualcosa ma non so come comportarmi. Lo seguo. «Non mi aspettavo di vederti qui.»

«Io si.» dice freddo. Che gli prende? Fin ora non è stato così distante. Ha persino accettato di vederci per un caffè. Forse voleva solo sapere, visto che non ha parlato molto. Mi ha solo aiutata a prendere i soldi e abbiamo diviso la quota. Come avremmo fatto nei vecchi tempi quando rubavamo i dolci all'autogrill. Ma lui questo non può ricordarlo.

«Cosa ti è successo?» indico la benda che ha in testa.

«Un incidente.»

«Cosa?» dico nel panico.

Si ferma di botto. «Lasciami in pace, d'accordo? Non fingere che ti importi qualcosa perchè noi due non ci conosciamo. Non comportarti come se ci fosse qualche parentela.» i suoi occhi sono pieni d'astio nonostante io non gli abbia fatto nulla per meritarmelo. Non ora, almeno.

Non ci conosciamo. Sarebbe bello nella realtà poter cancellare il ricordo di qualcuno semplicemente pronunciando questa frase. Sfortunatamente per lui è davvero così perché ha perso la memoria. Non ci ricorda più.

Faccio un respiro profondo come se quelle parole fossero rimaste incastrate nel mio setto nasale. «Lo sai anche tu, Roy.»

Spalanca gli occhi. «Sta zitta! Non chiamarmi mai più con quel nome. Anzi, non chiamarmi più e basta.»

Gira l'angolo e prima che io possa raggiungerlo lo sento parlare con una ragazza. Sembra la voce di Nora. Decido di lasciar perdere.Dopo questa brutta esperienza non voglio recargli altri problemi.

Li guardo da lontano andare via. Entrambi tengono in mano un borsone, probabilmente lo hanno dimesso oggi.

Sono l'uno accanto l'altro e lui le prende la mano. Li ho sempre visti insieme, ma adesso tra di loro sembra esserci qualcosa di più forte che non mi riguarda, che non capirò mai. Mi odio ancora di più per quello che ho fatto. Se avessi accettato la sua scelta forse oggi saremmo insieme. Com'è successo che lui abbia scelto lei, cosa mi sono persa?

Sento i battiti aumentare. Le pillole non fanno più effetto? Inizio a singhiozzare. Vorrei correre verso di loro e dividerli, baciarlo e sperare che si ricordi di me, come se il mio amore potesse spezzare un incantesimo. Ma questa non è una delle storie che leggo a Leo, io non sono una principessa in pericolo, anzi, sono la cattiva. E per me non è previsto nessun lieto fine.

Spingo il carrello nella stanza e sento le ruote cigolare. Un'infermiera mi guarda di sottecchi ma non mi chiede nulla. Mi asciugo le lacrime ma sul camice vedo le macchie nere del mascara.

Entro in un bagno privato per sciacquarmi il viso. Mi osservo allo specchio e vedo il luccichio di quella collana sul petto. Non l'ho mai tolta perchè mi ha sempre ricordato di non perdere la speranza. Era il mio portafortuna, ma adesso è inutile tenerla.

La tolgo e la fisso qualche secondo, aggrovigliata com'è nella mia mano. Senza pensarci apro la pattumiera e la butto dentro. Il rumore che fa non appena tocca il fondo sembra aver colpito il mio cuore. Mi siedo sul water e inizio a piangere a dirotto. Potrei farla finita qui e smettere di soffrire all'istante. Ma Leo, mio figlio. Rimarrebbe orfano come me. Scuoto la testa  e mi soffio il naso. Ho tutti i difetti di questo mondo: ho una malattia invalidante, l'uomo che amo non ricorda di me, ho ucciso i miei genitori, ho commesso dei reati. Tutto questo è dovuto alla mia infanzia e non rovinerò mai quella di mio figlio. E' l'unico che riesce a farmi ragionare, che frena i miei impulsi.

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