𝟐𝟏. Scuse che non meritavo
«T-Ti va di farmi da accompagnatore per il ballo?»
SOOYUN
Venerdì 19 Marzo 2021
Io che tentavo di riallacciare i rapporti con mio fratello, la stessa persona che fino ad un giorno fa ignoravo con tutta me stessa. La stessa persona che mi donava un impressionante affetto non ricambiato. La stessa che facevo soffrire senza una valida ragione, mentre questa cercava con ogni possibile modo di rendermi felice, di avvicinarsi; eppure, io non facevo altro se non respingerlo e allontanarlo da me.
Era surreale vedermi nell'impresa disperata di ricreare un legame con lui? Un filo conduttore che mi avrebbe permesso di comunicare come facevamo un tempo? Può darsi.
Potevo sembrare patetica a chiedergli di accompagnarmi al ballo per passare del tempo con lui? Sicuro.
Ti prego. Ti prego. Ti prego. Ti preg-
«Pensavo non ti interessasse partecipare a simili stupidaggini.»
Colpita e affondata. Si, perchè aveva ragione; aveva così dannatamente ragione. Ero sempre stata io la prima a dire quanto fossero inutili certe festività e occasioni organizzate con il solo scopo di festeggiare tutti insieme, uno a fianco all'altro, qualcosa che per me non aveva alcun significato. È risaputo che nella mia scuola si festeggia l'apertura della primavera attraverso questo famoso ballo di coppia. Generalmente si vedono ragazze giungere al ballo con accanto un ragazzo, un accompagnatore, un partner; ma era consueto notare anche quei tipici gruppi di amiche che non avevano nessun compagno con cui andarci, optando perciò per riunirsi e andare a ballare tutte insieme, in modo da non rimanere sole. Ma, ovviamente, io non ero neanche quel tipo di persona.
Da quanto ricordo, non avevo mai partecipato a nessun ballo primaverile dall'inizio del liceo, tantomeno a cerimonie, festicciole e assemblee. Che fossi sola o meno, il pensiero di prenderne parte non aveva mai minimamente sfiorato la mia mente.
Per questo non ero poi tanto sorpresa da quella sua affermazione; era come diceva lui, a me non interessava partecipare.
A me, infatti, interessava solo stare con lui, passare un po' di tempo insieme, proprio come aveva suggerito Minjee, tutto qui. Sembrava davvero così stupido da parte mia avere questi pensieri?
«Infatti è così.» mi difesi subito, confermando le sue parole allo stesso tempo. «Però ho pensato che non ci sarebbe niente di male se per una volta decidessi di andarci anche io come fanno le mie amiche.» parlai facendo spallucce, come per cercare di evidenziare quanta poca importanza avesse per me quel ballo.
«Ah ora hai anche delle amiche?»
Strabuzzai gli occhi e giurai di poter sentire il gelo di quella voce pervadermi in tutto il corpo e insinuarsi tra le mie fragili ossa. Perché si comportava così?
«Compagne di classe.» Tenni a correggermi, indurendo la mascella. «Come fanno le mie compagne di classe.»
«E da quando ti interessa ciò che fanno gli altri?»
Corrucciai le sopracciglia alquanto confusa, completamente persa. Taehyung non aveva mai usato questo tono con me, perché ora mi rispondeva in questo modo? Perché sembrava arrabbiato con me?
«Io volevo solo-»
«Non mi interessa di te e dei tuoi stupidi sorrisi.» Mi pietrificai. «Sei stata tu a dirlo, ricordi?»
Era passato parecchio tempo da allora e, nonostante ciò, me lo ricordavo come se fosse successo soltanto ieri; come potevo dimenticare? Per quanto potesse essere vero tutto ciò, non aveva senso tirare fuori dal nulla questo discorso. Per quale motivo parlarne proprio ora? Cosa gli stava succedendo?
I-Io pensavo che... credevo che sarebbe stato più facile. Pensavo che una volta dimostrato il mio impegno, il mio interesse nel voler riavvicinarmi, di voler rilegare quel legame ferito, spezzato, lui mi sarebbe venuto incontro. Perché niente di tutto ciò stava succedendo? Perché mi stava rinnegando la sua mano?
E-Era arrabbiato con me?
Beh, non che non ne avesse tutte le ragioni per esserlo, però non riuscivo a rimanerne indifferente. La sua rabbia, anche se causata da me, mi feriva. Mi faceva stare male il solo pensiero di essere odiata da mio fratello. Ridicola, vero? Era colpa mia, ne ero consapevole, ma sembravo comunque voler essere nella parte della ragione. Ero tanto, tanto ridicola. Ma, soprattutto, ero ipocrita.
«S-Si ma-» e tremai così tanto che preferii bloccarmi sul nascere della frase, troppo spaventata da un' imminente e irreversibile crisi di pianto.
Ero terribilmente scossa da questa sua improvvisa e inaspettata reazione. Non riuscivo davvero ad immaginare mio fratello usare questo tono così cattivo nei miei confronti, e sentirlo realmente parlarmi in quel modo mi faceva terribilmente male. Era un dolore strano, diverso da quello che avevo provato in passato. Era un dolore ingiustificato, illecito.
Almeno questo era ciò che pensavo a primo impatto ma, pensandoci bene, era veramente così tanto ingiusto? Davvero non mi meritavo il suo rifiuto? Anzi, mi correggo: davvero mi meritavo la sua gentilezza?
Una gentilezza storpiata da tutte quelle persone che gli hanno fatto del male, me più di tutti. Una gentilezza limpida e pura come le piume di una colomba che spicca il volo; l'unica differenza è che a mio fratello sono state strappate le ali fin dalla nascita.
Rispetto a tutte le volte in cui ero stata io quella a rinnegare il suo aiuto, a rinnegare la sua stessa presenza, questo non era niente.
«Quindi non capisco come mai fai così proprio ora-»
«Io-»
«-Non puoi uscirtene con questa richiesta dopo il comportamento scorbutico e irrispettoso che hai sempre avuto con me. Non vuoi dirmi niente di te? Va bene. Non vuoi saperne più nulla di me? Vuoi tenermi fuori dalla tua vita? Okay, va benissimo, basta che poi non torni da me per-»
«Bastava dire di no.» Lo interruppi disperatamente con tono risoluto, ma lasciando comunque trasparire del lieve tremolio nella voce, e non provai nemmeno a trattenere quelle lacrime che andarono ben presto a lucidarmi gli occhi, alla cui vista Taehyung non riuscì a mantenere un'espressione indifferente. Si era già pentito di ciò che mi aveva detto, ormai lo conoscevo bene, ma avrei ugualmente fatto finta di non averlo notato.
Mi alzai velocemente dalla sedia per uscire dalla cucina senza degnarlo di un solo sguardo in più. Salii le scale che mi avrebbero condotto alla mia tana, all'interno della quale ben presto mi richiusi, senza però chiudere a chiave. Mi raggomitolai sopra le morbide coperte del letto, chiudendomi a riccio come se questo mio scudo immaginario avrebbe potuto difendermi. Ma, precisamente, difendermi da cosa?
Non dovetti aspettare molto prima di sentire bussare alla porta. Ovviamente non risposi, ignorando anche le successive implicite richieste per entrare.
«Sooyun?» la voce di mio fratello giunse alle mie orecchie ovattata, attraverso la superficie legnosa che riusciva in un qualche modo a separarci, anche se di poco. Del resto, non era quella dannata porta a tenerci divisi, ma il muro che io stessa avevo innalzato tra noi due. «Sooyun, posso entrare?»
Non risposi e feci ben intendere cosa non volessi. Volevo fargli capire che no, non volevo che entrasse, ma la verità era tutto l'opposto. Volevo che entrasse, ma non volevo che lo capisse. Era un ragionamento assurdo, contorto, deviato? Può darsi, ma non aveva importanza. Ero abituata a vivere nell'assurdo, lo eravamo tutti. Il mondo intero era assurdo e deviato, quindi perché mi sarei dovuta comportare diversamente? Chi mi diceva che sarei dovuta essere l'eccezione? Essere diversi non è per niente qualcosa di straordinario, come invece vogliono far credere le favole per bambini; la diversità porta soltanto ad essere isolati, esclusi dagli altri, a restare soli. E la solitudine, in un mondo come questo, equivale alla morte.
Tirai su con il naso, mentre sentivo Taehyung sospirare dall'altra parte della porta. Stavo già piangendo? Da quando ero diventata così debole? No, io ero debole da sempre, solo che ero stata brava a nasconderlo. Ora, però, nemmeno più questo riuscivo a fare; anche celare i miei sentimenti era diventato troppo difficile per me, troppo doloroso.
Non mi sorpresi più di tanto quando sentii la porta venire aperta e poi dei passi avvicinarsi lentamente verso la sottoscritta. Tipico di mio fratello. Alla fine, non era poi cambiato tanto da quando ogni cosa è andata in frantumi davanti i nostri stessi occhi. Il suo cuore era rimasto docile, il suo animo buono e i suoi sentimenti puri proprio come lo erano allora. Loro non erano riusciti a macchiare anche lui, come era successo con me. Lo avevano ferito, gli avevano strappato le ali, ma avevano fallito miseramente nel vederlo rimanere sempre lo stesso ragazzo di sempre.
Taehyung, a differenza mia, non aveva mai smesso di lottare.
Il silenzio divenne padrone di quella stanza, di quella casa; era ormai consuetudine udire nient'altro se non il silenzio all'interno di queste mura, le uniche testimone della tragedia che avevamo causato tutti noi.
Continuai a dare le spalle al resto della camera, fissando insistentemente il muro di fronte a me. Non potevo quindi vedere se e come mi stesse guardando Taehyung, ma riuscii perfettamente ad immaginarmi il suo sguardo rammaricato, colmo di dolore puntato sulla mia figura rannicchiata come se volessi respingere ogni cosa estranea a me. Percepivo i suoi occhi bruciare sulla mia schiena e chiedermi silenziosamente scusa. Delle scuse che non meritavo, sarei dovuta essere io quella a scusarmi per tutto il male causatogli, non lui. Perché non lo capiva? O, forse, lo capiva ma cercava di non farmelo pesare. Si, conoscendolo era più verosimile la seconda opzione.
D'un tratto sentii il bordo del letto abbassarsi sotto al peso di qualcosa, o meglio, qualcuno.
«Scusami.» Ecco, appunto. «Non volevo rivolgermi a te in quel modo.» Silenzio.
Mi rigirai su me stessa con la stessa velocità di un bradipo, incontrando subito i suoi occhi sinceramente pentiti. Lo guardai minuziosamente, mentre lui faceva lo stesso con me, e mi chiesi, per l'ennesima volta, come potessi avere un fratello come lui. Come era possibile che avessi al mio fianco una persona tanto preziosa come Taehyung, quando nel mondo c'erano ragazze e ragazzi che se lo sarebbero meritato molto più di quanto potessi meritarmelo io. Il fato era davvero strano, ribelle, un vero bastardo; sembrava prendersi sempre gioco di me. Prima mi distruggeva la vita, facendomi sentire la vittima in mezzo a tutto quello schifo, in mezzo a gente che mi sputava addosso anche solo con lo sguardo, poi però mi schiaffava in faccia quanto in realtà fossi anche io una persona altrettanto orribile, immeritevole di un fratello del genere.
Ancora mi chiedevo come avessi fatto a non dare di matto, a non impazzire. Magari, in realtà, ero già diventata pazza, solo che non potevo rendermene conto.
Entrambi avevamo le labbra di nostro padre, carnose al punto giusto, sigillate tra loro, deformate da una smorfia di dolore che caratterizzava oramai entrambi da anni. Era proprio lì, celata sotto i nostri falsi sorrisi, nessuno probabilmente riusciva a notarla. Solo noi due la vedevamo, noi che sapevamo quanto avessimo sofferto. I nostri occhi forse erano una delle poche caratteristiche che ci rendevano diversi. Taehyung aveva preso quelli di mamma, dolci e rassicuranti. I miei, invece, erano tali e quali a quelli di mio padre e, infatti, era soprattutto grazie a loro se riuscivo a spaventare le persone attorno a me. Bastava uno sguardo, uno solo, per farli scappare. Eppure, non facevo a meno di chiedermi se quella che vedevo nei loro di occhi, ogni qualvolta incontravano i miei, fosse terrore o semplice avversione. E mi sentivo stupida quando mi rendevo conto di quanta paura io avessi nello scoprire che, in realtà, si trattasse della seconda.
Le mie pupille e quelle di Taehyung non smettevano di puntarsi le une nelle altre, entrambe dilatate e colme di sentimenti intrecciati, rimescolati tra loro ed ignoti a tutti coloro che non potevano comprenderli: tristezza, amore, paura, rabbia, risentimento, frustazione, angoscia, pentimento, odio, invidia. La nostra posizione in quella società a dir poco abominevole, in cui eravamo costretti a vivere, non era nella norma; era strana e diversa dalle altre. Invidiavamo, anche se non lo avremmo mai ammesso, tutti coloro che, a differenza nostra, avevano una famiglia che li amava, che si trattasse anche solo di un genitore o un tutore. Ma, allo stesso tempo, eravamo noi quelli invidiati dagli altri. Invidiati perché vedevano in noi quel legame che, in realtà, non c'era più da molto tempo. Un legame rotto, distrutto, per colpa dei nostri stessi genitori, ma che tutti gli altri riuscivano ancora a scorgere e, forse, ne capivo anche il motivo. Del resto, tranne quando ci trovavamo uno di fronte all'altro, fuori dalla nostra casa non avevamo mai smesso di difenderci a vicenda e coprirci le spalle. Io non avevo mai smesso di volergli bene e di proteggerlo dalle cattiverie altrui, proprio come lui non aveva smesso di proteggere me dalle persone che tentavano di farmi del male.
Non avevamo mai smesso di lottare per l'altro, io avevo solo ceduto per me stessa, ma mai per mio fratello.
Una carezza. Bastò una carezza sulla guancia e un semplice scambio di sguardi per parlarci, per trasmetterci tutte quelle emozioni e quelle paure condivise che le parole non sarebbero mai riuscite a spiegare.
Una lacrima solitaria riuscì irreparabilmente a sfuggire al mio controllo, cadendo dalle mie ciglia inferiori, per andare poi a percorrere la mia guancia pallida. Una sola lacrima, racchiudente tutto il dolore che avevo dentro. Una lacrima in grado di bruciare, corrodere la mia pelle, ma sconfitta dal pollice di Taehyung, che non esitò un attimo a cacciarla via e cercare di cancellare quel mio dolore indomabile.
Dillo. Diglielo, Sooyun.
Continuavo a ripetermi all'infinito di sputare fuori quelle parole che tanto desideravo sentisse essere pronunciate dalle mie labbra, ma non ci riuscivo. Qualsiasi cosa impartissi alla mia mente non veniva minimamente ascoltata. Era come se il mio cuore non riuscisse in alcun modo a prevalere sul potere immenso che il mio cervello esercitava sulle mie azioni. D'altronde, come poteva un cuore debole, ferito, cicatrizzato e sofferto come il mio schiacciare quel fottutissimo ego di cui la mia testa non voleva liberarsi?
Quelle tre semplici paroline rimanevano bloccate lì, tatuate sulla mia lingua senza essere liberate nell'aria e giungere alla persona che non desiderava altro se non essere ascoltato, proprio come me. Nessuno era disposto a farlo, nessuno era disposto a comprenderci, a parlarci, quindi, se non lo facevamo noi stessi, chi altro avrebbe potuto farlo?
Ancora una volta, per l'ultima volta, decisi di non parlare, ma di agire. Sollevai la schiena dal materasso e, prima ancora che potessi rendermi conto di cosa stessi facendo, le mie braccia circondarono il busto del ragazzo seduto sul mio letto, stringendo con quella poca forza che avevo la presa attorno al suo corpo. La mia testa si appoggiò in automatico sul suo petto, il mio orecchio assorbì subito i battiti del suo cuore e le mie labbra si schiusero nel disperato intento di comunicare esattamente ciò che cercavo di trasmettergli in quel momento con il solo gesto.
Di lì a poco anche le braccia di Taehyung andarono a circondarmi il corpo, stringendomi ancora più stretta a lui. E rimanemmo così, in silenzio e con i soli nostri respiri flebili a infrangere l'aria che da gelida cominciava piano piano a riscaldarsi attorno a noi. Nessuna parola, nessun insulto, nessun'altra lacrima. Bastò un abbraccio.
Scusami. Ti voglio bene.
Ma questo, ovviamente, lo tenni dentro di me.
Circa tre anni prima
Primo squillo. Secondo squillo. Terzo squillo. Quarto squillo.
Continuai a udire quegli squilli propagarsi nell'aria, accompagnata dalla continua speranza che da un momento all'altro potesse rispondermi. Speranza che andò a scemare sempre più fino a scomparire nell'istante in cui un segnale acustico colpì fastidiosamente il mio timpano, seguito dalla medesima voce metallica della segreteria telefonica. Lasciai cadere la linea cliccando sul simbolo rosso proiettato al centro dello schermo, in modo da terminare l'ennesima chiamata andata a vuoto.
«Stai ancora cercando di chiamarlo?»
Scattai con la testa in direzione della porta, notando subito mio fratello affacciato sulla soglia, mentre mi guardava con uno sguardo dispiaciuto.
«E-Emh si- cioè- questa in realtà era l'ultimo tentativo, dato che non mi risponde e sarà almeno la quinta volta oggi che provo a chiamarlo.»
Taehyung si limitò ad annuire per poi sorpassare l'entrata di camera mia e avvicinarsi al mio corpo appoggiato al bordo della scrivania. Abbassai la testa e puntai lo sguardo afflitto sul pavimento, consapevole di come non dovrei poi essere tanto sorpresa di questo suo comportamento. Erano state tante le volte in cui avevo cercato di raggiungerlo, senza però alcun risultato.
«Forse si è già dimenticato di me.» mormorai cominciando già a sentire un nodo attorcigliarsi all'altezza della gola.
«Non dire così. Non potrebbe mai dimenticarsi di te.» tentò di rassicurarmi Taehyung.
«Allora perché non mi ha ancora richiamata? Mi aveva promesso che lo avrebbe fatto, ma è da una settimana che aspetto.» sentii il ragazzo accanto a me, appoggiato anche lui alla scrivania, sospirare pesantemente.
«Forse avrà da fare, il lavoro lo tiene parecchio impegnato.»
«Così tanto impegnato da non permettergli di sentire sua figlia per cinque minuti?» ribattei usando un tono forse troppo aggressivo. «Da quando lui e la mamma sono andati via mi sembra di non averli mai avuti davvero dei genitori-»
«Lo sai che non è così.»
«Del resto ci hanno abbandonati, non dovrei essere tanto sorpresa di sapere che di noi non gliene frega nulla-»
«Sooyun!»
«Cosa c'è?!» Mi staccai dalla scrivania, allontanandomi di alcuni passi per fronteggiare l'espressione arrabbiata di mio fratello. Peccato per lui che io lo fossi ancora di più. «Non è forse così?! Non è quello che hanno fatto?!» gridai presa improvvisamente da un'attacco d'ira. Ero furiosa, amareggiata, ma più di tutto ero triste e frustata. «È da ormai quasi un anno che ci hanno lasciato da soli-» la voce mi si incrinò. «Quindi mi sembra abbastanza chiaro ciò che è successo. Mamma è sparita nel nulla e papà aveva promesso sarebbe sempre tornato, ma non l'ha più fatto. Si è vero, all'inizio ci chiamava ma è durato poco, ora anche lui è scomparso-» mi bloccai per prendere fiato e mi velocizzai ad interrompere qualsiasi cosa stesse per dire mio fratello, vedendolo aprire bocca per parlare, ma già conscia di ciò che volesse dirmi. «E smettila di dire che andrà tutto bene perché sai anche tu che non è così. Me lo ripeti da mesi, ma l'unica cosa che per ora è andata bene è il pagamento delle bollette a cui, inoltre, hanno pure smesso di pensare.» Capii di averlo spiazzato quando vidi le sue labbra serrarsi e il suo pomo d'Adamo muoversi in seguito alla deglutizione della sua stessa saliva, ingoiando quella che percepii come consapevolezza. «Penso che sia ormai ora di aprire gli occhi, Taehyung. In fondo, sapevamo entrambi che sarebbe andata a finire così.» presi per andarmene fuori dalla stanza, ma fu di nuovo la voce di Taehyung ad impedirmelo.
«Perché non vai da lui?»
I miei piedi si impuntarono sul pavimento e, bloccando qualsiasi mio intento di proseguire, mi voltai con le sopracciglia incurvate verso il basso e le labbra schiuse in un'espressione sorpresa. «Cosa?»
«Abita a circa dieci chilometri da qui. Io devo andare a lavoro adesso, ho delle faccende urgenti da sbrigare e il capo si arrabbierebbe molto se ritardassi, quindi non credo di poterti accompagnare, ma potresti prendere l'autobus. Ti do i soldi per comprare il biglietto.»
«Dici che non gli darà fastidio?» domandai con la stessa voce insicura di una bambina.
«Perché dovrebbe? Sei sua figlia e, come hai detto tu, può sempre trovare del tempo da dedicarti.» Fece spallucce, incurvando appena gli angoli della bocca verso l'alto.
Così, sotto consiglio di mio fratello, mi incamminai verso quella che doveva essere la nuova abitazione di mio padre. Presi l'autobus che mi avrebbe lasciata alla fermata più vicina a casa sua e mi sorpresi di come il tempo cominciò a rallentarsi man mano che mi avvicinavo a destinazione. Il mio cuore batteva irregolarmente contro la mia cassa toracica ed era possibile sentirne le pulsazioni rimbombare all'interno del mio corpo grazie all'incredibile silenzio che gravava sulle mie spalle, appoggiate allo schienale del sedile su cui avevo preso posto, in attesa che il mezzo a quattro ruote raggiungesse la prossima ed ultima fermata.
Le mie gambe tremarono appena toccai l'asfalto una volta scesa dall'autobus; il sole batteva ancora sopra la mia testa, anche se per poco, poiché sarebbe tramontato da un momento all'altro. Cercai di rimembrare il percorso che avevo visto in anticipo sul navigatore prima di uscire da casa, quello che avrei dovuto seguire per arrivare da mio padre. Casa sua non era molto distante da dove ero stata lasciata, infatti ci vollero meno di dieci minuti per trovarla.
Mentre i miei piedi proseguivano di un passo dopo l'altro, la mia mente era occupata a trovare le giuste parole da dire una volta che mi sarei ritrovata di fronte a lui. Formulai vari discorsi, tutti diversi tra loro, all'interno della mia testa, sinceramente indecisa su come poter iniziare una conversazione.
Come lo dovrei salutare? Gli devo parlare formalmente o va bene anche un parlato informale?
Gli posso dare un bacio sulla guancia o potrebbe infastidirlo?
Lo posso abbracciare?
Era da così tanto tempo che non lo vedevo, che non ci interagivo, da non essermi resa conto di quanta difficoltà provassi anche solo nel salutarlo. Solo in quel momento constatai della tragica situazione in cui mi trovavo: non sapevo più come relazionarsi con un genitore, non ricordavo più come avrei potuto approcciarmi. Il legame tra un genitore e un figlio non dovrebbe poi essere così complicato ed intricato, non dovrebbero esistere ostacoli tra di noi, eppure, non mi sembrava di avere un solo e misero ostacolo da superare davanti a me, ma un intero muro; un muro di cemento interposto tra i nostri corpi, tra le nostre anime, che aveva cominciato a formarsi da quando mio padre aveva cominciato a porre delle distanze da me, a smettere di abbracciarmi e di parlarmi affettuosamente come faceva una volta.
Un muro invalicabile che non fece altro se non ispessirsi nell'esatto istante in cui mi ritrovai pietrificata davanti ad una scena che mai mi sarei aspettata di vedere. Non dovetti nemmeno più pormi il problema di come cominciare un discorso da intraprendere con l'uomo che osava chiamarsi padre. Lo stesso uomo che in quel preciso momento, al posto di preoccuparsi come stessero i suoi due unici figli, stava giocando spensieratamente insieme ad un bambino che non doveva avere più di sette anni. Quella persona che ora si divertiva felicemente con quel bambino, il quale non smetteva di ridere divertito mentre cercava di sfuggire dalla presa di mio padre, era la stessa che fino a venti minuti fa non rispondeva alle mie chiamate. La stessa persona che mi aveva promesso di farsi sentire, senza però mai mantenere per davvero la sua parola.
Le mie labbra erano schiuse, secche e bisognose di una secchiata d'acqua gelida da ingerire e poi rivomitare. I miei occhi rimasero fissi sulle due figure sorridenti che si rincorrevano a vicenda per minuti che parvero non finire più. Tutto sembrava andare a rallentatore, come se il tempo si stesse lentamente fermando, mentre il mio cuore smetteva di battere e il mio cervello di funzionare. La mia attenzione venne poi attirata dalla porta di casa sua che venne aperta da una donna giovane, dai lunghi capelli mossi e biondi. Fu lì che ogni cosa mi fu più chiara; tutti i pezzi tornarono al loro posto, collegandosi uno dietro l'altro e mostrandomi cristallina la situazione in cui ero stata rigettata senza pietà.
Mia madre non aveva cominciato ad assumere sostanze stupefacenti perché era una tossica buona a nulla come diceva mio padre, raccomandandomi inoltre di non diventare mai come lei, ma perché lui la tradiva; e questo mia mamma lo aveva capito. Lo aveva capito prima di tutti noi, troppo accecati dalla falsa luce che il nostro nucleo familiare sembrava emanare. No, anzi, lo avevano capito tutti prima di me. Ero stata io accecata dall'illusione di quell'amore che provavo per la mia famiglia, un amore a quanto pare non ricambiato. Lo aveva capito mia madre, lo aveva capito mio padre e lo aveva capito anche Taehyung.
Qui, l'unica a non averlo capito ero solo ed unicamente io.
Strinsi le mani così forte che potei percepire le mie unghie affilate entrare nella carne dei palmi e quel poco di sangue, che il mio cuore riusciva ancora a pompare, fuoriuscire dalla ferita che io stessa mi stavo infliggendo. Volevo farmi del male, volevo procurarmi dolore fisico per non sentire quello che mi stava lacerando dentro, struggendomi l'anima in una lenta e pacata agonia.
Avevo un'incredibile voglia di infilzarmi le unghie nei bulbi oculari, stapparmi gli occhi e liberarmi di quella straziante visione. Volevo fingere di non aver visto nulla di ciò che stavo guardando, dimenticarmi di mio padre e dei momenti passati insieme a lui, che non facevano altro che ripercuotermi i ricordi giorno dopo giorno, e poter finalmente dire di stare bene.
Ma non potevo farlo.
Non potevo dimenticare ogni cosa della mia vita passata con lo schioccare delle dita, non potevo strapparmi gli occhi per impedirmi di vedere e non potevo tantomeno dire di stare bene perché no, non sarei mai più stata bene.
Il dolore tramutò presto in odio, un odio che non pensavo di poter provare nei confronti della mia famiglia. Odiai mia madre, perché aveva finto che andasse tutto bene e poi mi aveva abbandonata. Odiai mio padre, perché mi aveva promesso di restare sempre con me, e insieme a lui odiai quella che era la sua nuova famiglia. Odiai quel bambino, che correva e rideva allegramente con l'uomo che non volevo nemmeno più chiamare papà; lo odiai perché si era appropriato di ciò che una volta era mio, della mia vita, della mia felicità. Odiai quella donna, che guardava la sua famiglia con un sorriso stampato sulla faccia, perché aveva preso il posto di mia madre, si era presa suo marito e mio padre.
E, infine, odiai mio fratello. Lo odiai perché mi aveva mentito; mi aveva rassicurata che tutto sarebbe tornato come una volta, che mamma stava bene e che papà era semplicemente indaffarato con il lavoro. Odiai il sorriso di mio fratello, perché mi ricordava lo stesso che mio padre aveva in quel preciso istante dipinto sul volto mentre viveva la sua nuova vita con la sua nuova famiglia. La stessa famiglia che aveva distrutto la nostra.
Cominciai ad odiare i miei professori, perché i loro occhi erano colmi di pietà ogni volta che incontravano i miei, guardandomi dalla testa ai piedi proprio come si guarda un cane abbandonato dal padrone in mezzo alla tangenziale. Odiai i miei compagni, che bisbigliavano sempre alle mie spalle nell'attimo in cui mi avvicinavo a loro.
Odiai me stessa. Odiai me stessa perché non riuscivo a placare quelle lacrime e impedire loro di scendere dai miei occhi e percorrermi le guance bagnate tanto quanto un letto di un fiume che sarebbe straripato a momenti. Odiai i miei piedi che presero a muoversi all'indietro, di un passo, poi di un altro; le mie gambe erano rigide come legno, i piedi pesanti come macigni e il cuore sprofondato come a voler scappare per nascondersi da tutto quel male che non smetteva di pressarlo come non mai.
Mi voltai di scatto dalla parte opposta e presi a correre in direzione della strada opposta a quella che mi avrebbe portata a casa.
Casa. Non ero più sicura di avere una casa, proprio come non ero più sicura di avere una famiglia.
Le mie gambe si muovevano veloci lungo l'asfalto rovinato della strada, i miei polmoni bruciavano ad ogni ispirazione e il cuore aveva ripreso a battere all'impazzata. Non riuscii a vedere dove stessi andando a causa delle lacrime che non smettevano di inondare i miei occhi, ma non aveva più importanza dove sarei finita; tanto non ci sarebbe stato nessuno a casa a preoccuparsi della mia improvvisa sparizione. Avrei fatto un piacere anche a Taehyung; liberandosi di me non avrebbe più dovuto badare a spese inutili e non sarebbe stato costretto a mantenermi.
Vidi il cielo scurirsi sempre più, il sole ritirarsi proprio come aveva fatto il mio cuore da un pezzo e il buio notturno incombere sulla città. Fermai progressivamente i miei passi quando raggiunsi un piccolo parco per bambini, sollevata dal notare come non ci fosse nessuno che avrebbe potuto invadere la mia privacy. Mi inoltrai al suo interno, percorrendo un breve tratto che mi portò ad uno dei tanti alberi che popolava lo stesso giardino immenso in cui correvo da piccola, quando i miei genitori mi portavano a giocare dopo scuola. Quello era il mio albero preferito, lo stesso sotto il quale mi sedevo insieme a mia mamma mentre cercavamo i quadrifogli; lo stesso dietro il quale mi nascondevo per non essere trovata da mio padre quando giocavamo a nascondino. Lo stesso sul quale avevo cercato di arrampicarmi e da quale ero poi scesa con l'aiuto di Taehyung.
Mi appoggiai con la schiena sul grande tronco dell'arbusto, per poi scivolare lentamente verso il basso e finire seduta sul terreno secco, coperto da tanti morbidi fili d'erba. Portai le ginocchia al petto, infossai la testa tra di esse, circondando le braccia attorno alle gambe mentre riprendevo a piangere come una forsennata.
Lasciai a quelle lacrime il permesso di bruciarmi la pelle fino a logorarmela, nello stesso modo in cui il mio stesso sangue stava logorando e soffocando le mie vene. Piansi liberando il mio lato più debole davanti alla natura che mi circondava silenziosa, sicura che nessun'altro avrebbe potuto sentire il mio dolore. E continuai così per secondi, minuti, forse ore. Persi la cognizione del tempo, non riuscii nemmeno più a ricordarmi che giorno fosse. Il mio cervello si era come resettato. Non mi preoccupai nemmeno di rispondere alla persona che non smetteva di chiamarmi al cellulare o, forse, semplicemente non ci feci caso. Probabilmente era Taehyung. Magari anche Yoongi, Jimin e tutte quelle persone che ancora avevano il coraggio di preoccuparsi per me. Ma non mi preoccupai nemmeno di loro.
Nulla aveva più importanza per me. Era come se mi fossi dimenticata persino cosa significasse essere voluta bene, come se non riuscissi più a capire cosa davvero importasse e cosa no.
«Hai deciso di far ammattire chiunque stia continuando disperatamente a chiamarti?»
Sussultai sul posto sollevando di scatto la testa verso l'alto, per posare lo sguardo sulla persona sconosciuta che aveva appena parlato. Le mie pupille non poterono fare a meno di puntarsi nei suoi occhi vitrei, gelidi come il ghiaccio, sembravano quasi essere fatti di quarzo. I capelli erano spettinati e di un colore spaventosamente contrastante a quello dei suoi occhi, neri come le piume del corvo. Le sue iridi color cristallo erano fisse nelle mie, scure come il cielo, privo di stelle ad illuminarlo. I miei occhi avevano smesso di brillare esattamente come aveva smesso il cielo quella sera.
«Sai parlare o ti hanno preso anche la lingua oltre alla voglia di vivere?» mi schernì riferendosi probabilmente al mio attuale stato di depressione. Probabilmente pensava di essere divertente, di potermi far ridere in qualche modo, ma dovette ricredersi. «Okay, ho capito-» roteò gli occhi per niente sorpreso del mio silenzio, per poi abbassarsi e sedersi al mio fianco sotto l'albero che non aveva più nulla da coprire, se non la mia immensa solitudine.
Recuperò un pacchetto dalla tasca della giacca in pelle nera, dal quale tirò fuori una sigaretta che accese poi con un accendino di metallo. Lo osservai aspirare profondamente il fumo e rigettarlo successivamente fuori dalle labbra, senza preoccuparsi minimamente di chiedermi se mi desse fastidio. Una leggera nebbiolina si propagò in aria, offuscandomi un po' la visuale.
«Come ti chiami?» mi domandò guardando davanti a sé, mentre faceva il secondo tiro.
Portai anche io lo sguardo dinanzi al mio corpo, fissando un punto imprecisato nel vuoto.
«Sooyun.» risposi senza pensarci poi chissà quanto, consapevole di star parlando con un perfetto sconosciuto comparso dal nulla, dallo sguardo criminale e lo stesso atteggiamento che assumono i cattivi ragazzi nelle serie tv. E pur sapendo di non dover mai rispondere agli sconosciuti, di non doverci parlare, in quel momento non mi importò. Non mi importava più nulla.
«E come mai stavi piangendo qui tutta sola, Sooyun?» mi chiese giustamente curioso.
«Che importanza ha?» la mia voce era bassa, rauca a causa del pianto disperato che mi aveva svigorito le corde vocali, lo sguardo perso nel vuoto assoluto, le labbra secche incapaci di rimanere chiuse e, allo stesso tempo, di formulare una frase per intero. «Anche se te lo dicessi non penso che potresti fare qualcosa a riguardo.» sputai puntigliosa come le spine di una rosa appassita e affogata nel suo lago di lacrime solitarie.
Con la coda dell'occhio potei vedere la sua testa girarsi verso di me e potei giurare di percepire quelle due sfere di cristallo analizzarmi minuziosamente da capo a piedi, facendomi sentire quasi una cavia da laboratorio. Dei brividi pervasero la mia pelle lungo la schiena, facendomi sentire un freddo improvviso nel petto, mentre il suo sguardo restava inchiodato sulla mia piccola figura ancora rannicchiata in se stessa.
«E se ti dicessi che sono proprio io la persona che può fare al caso tuo?» replicò con l'ennesima domanda, ma questa volta non me lo stava chiedendo per davvero. Era sicuro delle sue parole, talmente tanto da incuriosirmi.
Voltai anche io la testa, scontrandomi con nient'altro che gelo. La mia immagine si rifletteva sulle sue pupille, dandomi la netta sensazione di annegare nello Stige. Ci guardammo negli occhi per secondi interminabili, e mi sorpresi di me stessa per come riuscissi a sostenere lo sguardo di fronte alla morte in persona.
«E come?» domandai mostrandomi diffidente.
«Lo sai, Sooyun? Mi ricordi tanto una persona. Una persona che, proprio come te, ha sofferto tanto e che tenta disperatamente di liberarsi da quel dolore interiore che lo logora dall'interno. So bene cosa significa soffrire, Sooyun, quindi lascia che sia io ad aiutarti. Permettimi di mostrarti la luce che tanto stai cercando.» mi tese una mano e, mentre parlava, sembrava essere così sincero. Abbassai di poco gli occhi per perdermi nel guardare quelle dita lunghe e affusolate, le stesse dita che probabilmente avevano fatto del male a tante persone.
Ma, appunto, non mi interessava, anzi; mi incuriosiva. Mi incuriosiva davvero tanto, quindi ormai che importanza aveva sapere se potessi fidarmi o meno di lui? Davvero, dopo tutte le delusioni subite, doveva importarmi qualcosa di tanto futile e misero?
Sciolsi la presa che avevo sul mio braccio, per poter allungare una mano verso di lui e afferrare così la sua. La prima cosa che vidi nell'istante in cui risollevai gli occhi sul suo volto di porcellana fu un sorriso soddisfatto, maligno, estremamente curioso. Era incuriosito da me.
«È un piacere fare la tua conoscenza, dolcezza.»
Prossimo Capitolo
«Comunque, è un piacere conoscerti di persona.»
𝐀𝐧𝐠𝐨𝐥𝐨 𝐀𝐮𝐭𝐫𝐢𝐜𝐞
Sono ritornata >^> Con un capitolo ancora più lungo di quello della scorsa volta. Ben 6000 parole che mi hanno letteralmente fatto patire T^T
Innanzitutto, come state?
Ricapitolando in parole povere: siamo ripartiti dal capitolo 18, poiché il 19 racconta di ciò che è successo prima che Taehyung si svegliasse, occupato interamente dalle riflessioni di Sooyun, mentre il 20 Sooyun va a trovare Minjee per parlarci, concludendosi con quella piccola ed ennesima prolessi a fine capitolo. (devo essere sincera, non so quante altre ce ne saranno, penso che quella del prossimo capitolo sarà l'ultima, ma niente di sicuro per il momento). [La prolessi, per chi non lo sapesse, è un'anticipazione messa durante la storia di ciò che avverrà in futuro]
Okay, ritornando a noi, cosa pensate succederà nel prossimo capitolo? Dato che ci sono, ne approfitto pure per dirvi di non farvi troppe domande se in qualche capitolo precedente non avete visto alcuna frase di anticipo, semplicemente non ce n'era una adatta da mettere, quindi preferivo lasciarli così.
Questa volta, dopo il momento "soft" ( 🥺) avuto tra Sooyun e Taehyung, ci siamo imbattuti in un flashback della protagonista, nel periodo in cui le cose hanno cominciato a diventare un vero e proprio disastro. Penso sia intuibile che la persona che Sooyun incontra al parco sia Yeosang, la persona che ha trascinano ancora più a fondo la protagonista.😔 A quanto pare è soprattutto colpa di ciò che è successo quel giorno, se Sooyun ha cominciato a odiare tutti. Ha scoperto che suo padre ha una nuova famiglia, che ha letteralmente sostituito alla sua, ha capito che sua mamma non si drogava per il semplice gusto di farlo, ma solo per non "soffrire" il tradimento del marito (che in ogni caso non deve in alcun modo diventare una giustificazione per lasciarsi alla tentazione) e poi ha intuito che, in realtà, Taehyung sapeva già ogni cosa. Oppure no? Per Sooyun di sicuro lui sapeva tutto, ma forse non si aspettava neanche lui che il loro papà aveva un'altra famiglia con quale aveva già trovato sistemazione. Comunque, il tutto messo insieme ha certamente permesso di provocare il mutamento e costante declino nell'animo di Sooyun, ma il fatto che proprio suo fratello maggiore, una delle poche persone che pensava mai avrebbe potuto "tradirla", le abbia mentito (anche se consapevole fosse per il suo bene e non per farle un dispetto) l'ha portata al limite della sopportazione. Quindi, per favore, non odiatela per questo.🙏❤
Detto ciò, se il capitolo vi è piaciuto non dimenticatevi di lasciare una stellina⭐💜
Un grande abbraccio,
Carly
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