3. Pianto


Luna e Rosi sono ora lì accanto, che danzano e cantano litanie antiche e magiche.

Le luci si sono offuscate senza che nessuno abbia toccato gli interruttori; le tastiere continuano il loro ticchettio senza che nessun dito si muova su di esse. Io e le mie colleghe siamo impegnate in altro.

È solo il mio pensiero che si muove, di me.

Loro agiscono secondo i miei comandi, che sono i suoi; le vedo oltre il velo appannato dei miei occhi eccitati per quello che avverrà.

E non avverrà certamente troppo presto.
Perché ho calcolato tutto: ogni intervallo, ogni mossa, ogni parola, ogni emozione.

Perché il piacere va assaporato un po' alla volta, prima di giungere al culmine.

Mentre Mira continua le sue carezze, i suoi baci e massaggi su di lui, egli ride, facendosi parrucca dei capelli di lei, divenuti serpenti striscianti, su quel viso tanto amato e desiderato.

In adorazione, resto, a comandare l'intercedere dei canti e delle danze e lo zampillare di fuochi fatui improvvisamente apparsi ai quattro angoli della stanza.

A grandi grappoli, Luna mangia uva rossa e bianca; il succo le cola dalla bocca al mento; si pulisce le mani sui pantaloni di lui, guardandolo fisso, sfidandolo, mentre egli ancora ride, soffocato dalle lingue dei serpenti. Rosi prende a mordergli le braccia, e questo lo fa ridere ancor più forte. È nostro, non ci scapperà.

È nostro, lui, e tutto, di lui, lo è.

Ed ecco che arriva, forse troppo rapido, non ho resistito questa volta, il momento migliore, l'apice degli apici, la vetta delle vette, la cresta dell'onda, la cima del baobab.

Mira, senza preavviso alcuno, affonda la mano nella sua carne, all'altezza dell'intestino: questo si deforma, non si produce ferita, non ne esce sangue, eppure ella trae fuori ciò che io volevo; sarà alleviato allora il suo dolore e mangerò io quanto di più desiderabile possiede.

Vedo la mia mano allungata a prendere ciò che mi spetta per portarlo alla bocca.

L'amore... l'amore è una goduria.

Tutto ciò che è suo, lo è.

Niente di più sublime...


«Appena può, per cortesia, mi stampi questa lettera.»


Non doveva, non ora, non doveva farlo!

Ritiro la mano di scatto.

Tutto svanisce d'incanto.

Mira è alla sua scrivania, e lo sono Luna e Rosi.

Non sento più il gusto della sua merda nella bocca.

Non ne sono più colorate le mie mani.

Niente odore.

Niente sapore.

Niente amore.

Niente godimento.

Ecco l'inferno!

L'inferno è lui, che non è altri che il mio capoufficio; che mi chiama "signorina" e mi impartisce ordini senza guardarmi negli occhi, ché per lui non ci sono nemmeno.

L'inferno è nelle sue viscere, che non posso possedere.

E nelle mie, che si sciolgono in un pianto di diarrea.

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