Capitolo 1

L'estate era la stagione che preferivo, il cielo era così azzurro che si fondeva con il celeste dell'oceano. Il sole splendeva e riscaldava la pelle di chiunque volesse abbronzarsi. Non potevo crederci, la scuola era finita e finalmente ero riuscita a diplomarmi. Dopo tutti gli sforzi che avevo fatto ci tenevo molto ad avere una vacanza con i fiocchi. Io e la mia migliore amica ci eravamo promesse di rilassarci e di non pensare a niente.
Eravamo distese sugli sdrai di Long beach e nel mentre, fissavamo di tanto in tanto qualche bel ragazzo che ci passava accanto, abbassando gli occhiali da sole.

Faceva veramente caldo, forse troppo, ma era piacevole... in questo modo sarei riuscita a prendere un po' di colore dato che ero bianca come la panna. Invidiavo la carnagione della mia amica. Jasmine era per metà polinesiana e per l'altra metà statunitense, perciò aveva quel colore caffellatte che a lei stava veramente bene. I miei genitori dicevano che era strano essere nata in California ed avere una pelle così chiara, ma cosa potevo farci? Ero nata così.
Non avevano poi così torto, dopotutto a Los Angeles chi non è abbronzato?

Mio padre e mia madre si erano trasferiti in Georgia ormai da qualche mese e spesso li andavo a trovare. Ero riuscita a trovare un appartamento nel centro della città, i miei lo mantenevano dato che non avevo un lavoro; l'avrei trovato al più presto, ma preferivo prima godermi l'estate e poi trovarmi un occupazione.

«Ho voglia di un gelato!» esclamò rizzando la schiena e alzando gli occhiali da sole sulla testa, spostando i capelli indietro.

«Anche io... vado a prenderne due al bar qui vicino» dissi afferrando il portafogli. Annuí contenta per poi ributtarsi a prendere il sole, che secondo me non le sarebbe servito molto.

Un gelato in quel momento era l'ideale: freddo e buono. Non serviva che chiedessi a Jasmine il gusto del gelato che voleva, ormai sceglieva sempre lo stesso da quasi due anni. Mi misi le infradito e avanzai in direzione della musica.

Odiavo la sabbia bollente, mi irritava e non riuscivo ad evitarlo. Quando ero piccola mia madre mi prendeva in braccio, dato che quando mettevo un piede sulla sabbia che scottava cominciavo a urlare come una pazza, attirando l'attenzione di tutte le persone sulla spiaggia.

Una volta giunta di fronte al freezer dei gelati poggiai una mano per aprire lo sportellino, ma una seconda mano si accostò sopra la mia. Una mano che non si poteva sicuramente paragonare a quella fragile e delicata di un bambino. Rimasi interdetta a fissare le nostre mani sovrapposte. Mi sentii agitata poiché non riuscii a capire il motivo di quel gesto. Mi decisi finalmente ad alzare lo sguardo quando incontrai due occhi verdi che mi scrutavano attentamente, il mio sguardo vacillo sul suo sorriso, perfettamente perfetto.

«Quando hai finito di scannerizzarmi posso prendere il mio gelato?» tuonò scocciato; scossi la testa inarcando una sopracciglio, al mondo chi poteva essere così irritante e maleducato?

Scostai la mano dalla sua con una velocità impressionante ed incrociai le braccia al petto. Voleva il suo gelato? Bene! Io avevo tolto la mano, ma lui non si era ancora deciso a prendere ciò che voleva e sparire.

«Si può sapere cosa diavolo vuoi? Prendi il tuo gelato e sublimati» sbottai incenerendolo con lo sguardo. A quel punto gli angoli delle sue labbra si alzarono di più, fino a formare un sorriso sghembo. Si passò una mano tra i capelli castani, per poi porgerla verso di me. Erano così belli, non avevano un taglio ben preciso, ma erano ugualmente carini e a lui, devo ammettere, stavano bene. La mascella era ben scolpita e i lineamenti del suo viso erano delineati alla perfezione.

«Dawson Hale» ha detto tenendo ancora la mano a mezz'aria rivolta verso di me.

«Non ricordo di averti chiesto come ti chiami» ammisi con una punta di sarcasmo. La sua sfacciataggine si percepiva tanto la sua bellezza era evidente. Decisi di ignorarlo e mi voltai per prendere i due gelati, dato che ero venuta proprio per questo. Presi quello di Jasmine e quando cercai di afferrare anche il mio che era l'ultimo Ben&Gerry's rimasto, la sua voce mi interruppe.

«Dolcezza quello è mio.» Risi forzatamente.

«Divertente!» esclamai. «Sono arrivata prima io, perciò ne sceglierai un altro» spifferai sorridendo falsamente.

«Stai scherzando? Ho attraversato tutta la spiaggia sotto il sole per questo gelato ed ora tu vuoi fare la stronza-» l'ho interrotto alzando una mano in aria.

«Non sto facendo la stronza, sto solo prendendo un gelato» dissi con aria innocente.

Mi guardò fulminandomi con gli occhi, ma io rimasi impassibile. I gelati erano nelle mie mani e se li avesse voluti avrebbe dovuto passare sul mio corpo. Avevo anch'io attraversato una spiaggia intera sotto il sole, non era di certo l'unico.

«Senti non fare la bambina e dammi il gelato. Quanti anni hai? Undici o dodici?» incrociò le braccia al petto beffandosi di me. La rabbia mi stava consumando e le mani prudevano dalla voglia di schiaffeggiare quella faccia da idiota.
La mia altezza non giovava a mio favore dato che era molto più alto di me e il mio viso era al livello dei suoi pettorali. Il suo fisico era ben scolpito, indossava un costume a pantaloncino che metteva in mostra il suo corpo nel migliore dei modi. Era bello ma dannatamente antipatico.

«Per la cronaca ho quasi vent'anni.» Insieme ai due gelati mi allontanai per andare a pagare, lasciandolo immobile accanto al congelatore.
Salutai la barista e le dissi il nome dei gelati, in risposta mi annunciò i soldi da darle ed aprii il portafogli, ma venni preceduta.

«Ecco a lei.» Mi voltai verso quella voce che mi stava in qualche modo rovinando la giornata. Poggiò una banconota di venti dollari sul bancone dicendole successivamente di tenere il resto.

«Non prenda quei soldi» sibilai. Lei ci guardò confusa alternando lo sguardo da me a lui.

«Prenda i miei!» urlammo all'unisono. Mi voltai per dirgliene quattro, quando notai che anche lui mi stava fissando. A quel punto la signorina prese i soldi di Dawson e lui sorrise compiaciuto. Questa è la prova che le donne non sanno resistere al fascino degli uomini. Sbuffai e mi incamminai nervosa verso l'ombrellone. I gelati si erano sicuramente sciolti, ma cosa potevo farci, non avevo programmato un possibile incontro con un idiota simile.

Mi sedetti sul mio sdraio e porsi il gelato alla mia amica. La mia giornata era già partita con il piede sbagliato. Ero infuriata per come mi aveva trattata, non mi conosceva nemmeno e già si era preso gioco di me! Lo odiavo già ancora prima di sapere chi era, ma sapevo il suo nome e mi sarebbe bastato quello.

Aprii il contenitore e con un cucchiaino di plastifica cominciai a mangiare il mio gelato. L'unica cosa che mi fece felice era che avevo il mio gelato e lui no. Ero riuscita ad ottenere ciò che volevo e mi sentivo così fiera di me.

«Ehi, che ti prende? Perché ci hai messo così tanto?» mi domandò Jasmine.

«C'era una fila lunghissima...» mentii non avevo voglia di parlare di quello che era successo.

«Ma se ho visto tutti scendere per andare in acqua...» La guardai sorridendo forzatamente.

Ero stata messa con le mani nel sacco, ma non potevo di certo ammettere di aver mentito. Capiva benissimo quando quello che dicevo non era vero. Così alzai le spalle e continuai a mangiare il gelato, guardandomi intorno continuamente. Il colmo era di ritrovarmelo affianco con l'ombrellone vicino al nostro. Odiavo dover andare in luoghi dove c'era troppa gente, le cose affollate mi mettevano confusione.

Mise una ciocca di capelli scuri dietro l'orecchio. «Non è che hai fatto nuove conoscenze?»

«Jas, erano tutti bambini» tagliai corto.

***

«Buonasera tesoro, come stai?» si rivolse a me con dolcezza.

«Ciao mamma tutto bene» le dissi mentre si facevo zapping sul divano, «Tu e papà invece?» le chiesi.

«Tuo padre sta benone, io ho sempre qualche dolorino qua e là ma niente di rilevante» mi rispose e potei immaginare che mentre mi parlava dei suoi dolori si teneva la mano alla schiena, come se tutto il suo malessere provenisse da quel punto.

«Salutamelo e fatti vedere da un medico» incalzai.

«Mia cara Shelley io sono sana come un pesce, non andrò di certo a farmi controllare da quella gente» replicò lei.

«Quella gente, come la chiami tu, è pagata per farti stare bene» le ricordai sorridendo. Mia madre era sempre stata guardinga sul farsi delle visite periodiche, aveva paura dei medici come i gatti hanno paura dell'acqua. Dopo aver saputo quante morti c'erano state a causa di dottori poco competenti, aveva smesso di andare all'ospedale.

«Va bene amore, vado a prepararmi perché stasera tuo padre mi porta fuori a cena» dalla sua voce si percepiva l'eccitazione e l'emozione. Ero così felice per lei. Mi mancavano veramente tanto i miei genitori, li sentivo così vicini, ma allo stesso tempo troppo lontani, quasi irraggiungibili. C'era un vuoto che era impossibile colmare, perché solo le persone che mi avevano dato alla luce l'avrebbero potuto fare. Sentivo il bisogno di vederli, non su Skype, dal vivo, in modo da poterli percepire, abbracciare e stringere a me. Mia madre era una casalinga e mio padre un amministratore. Lei si occupava della casa e si prendeva cura del giardino, mio padre invece era un uomo d'affari. Stava sempre al telefono, per questo ogni volta che provavo a chiamarlo mi dava occupato; ma il tempo per me lo trovava lo stesso, spesso mi mandava dei fiori o mi spediva qualche libro che sapeva mi sarebbe piaciuto. Mia madre non era mai stata molto affettiva nei miei confronti, mi voleva bene, ma non mi prestava molte attenzioni.

«Divertitevi» esclamai stiracchiando braccia e gambe.

«Sarà fatto» rispose lei.

Attaccai la chiamata, spensi la televisione e mi alzai dal divano. Mi ero stancata di cambiare continuamente canale dato che non c'era niente di interessante da guardare. Decisi di andare a farmi un bagno, ma il mio telefono riprese a squillare. Sbuffai e strisciai il dito sullo schermo per rispondere.

«Che cosa vuoi?» le chiesi sbadigliando senza però portarmi la mano alla bocca. Ero a casa mia e potevo sentirmi libera di fare quello che volevo, la mia libertà non aveva limiti ed era questa la cosa che mi piaceva di più nello stare sola in quelle quattro mura.

«Sono Jasmine» mi disse parlando a bassa voce come se qualcuno potesse sentirla. Come se fosse in missione segreta.

«So chi sei» la rimbeccai.

«Per quale motivo stai sussurrando?» domanda poi.

«Sono in bagno e non voglio che mi sentano parlare al telefono, comunque questa sera ritarderò»

«Perché?» accesi la luce in bagno.

«Il mio capo vuole che faccia un'ora di straordinari, il locale è pieno e ci sono troppe ordinazioni» stava ancora parlando in quel modo.

«Okay, allora ordino due pizze per quando torni. Così ceniamo insieme» spostai il telefono all'orecchio sinistro e aprii il rubinetto della vasca per riempirla. Un bagno era l'ideale per potermi rilassare.

«C'è solo un piccolo problema» borbottò.

«Quale sarebbe?»

«Avevo invitato una persona, ho provato a chiamarla per dirle di venire più tardi, ma non risponde. Perciò potresti tenerla impegnata finché non arrivo?» mi chiese con tono di supplica.

«Una persona...» ripetei appoggiandomi con la schiena al lavandino.

«Sì, dovrebbe arrivare fra dieci minuti. Grazie, ti voglio bene El» parlò a raffica, non avevo fatto in tempo a ribattere perché aveva interrotto la chiamata e l'unica cosa che mi teneva compagnia era il solito 'tu, tu,tu'

Allontanai il cellulare dalla testa e lo posai sul ripiano in marmo. Pensai che in dieci minuti sarei riuscita a lavarmi, così mi spogliai e infilai prima un piede e poi l'altro nell'acqua tiepida. Allungai un braccio a bordo vasca e afferrai un tubetto. Versai nell'acqua circa otto gocce d'olio essenziale alla lavanda: il mio preferito. Era conosciuto perché favoriva il sonno e permetteva il relax alla decima potenza. Chiusi gli occhi, respirai lentamente e mi lasciai travolgere dal piacere in quel rumoroso silenzio. Poco dopo riaprii gli occhi, presi la spugna e la strofinai su tutto il corpo. Il campanello suonò e il mio primo pensiero andò alla persona che la mia coinquilina aveva invitato. Alzai gli occhi al cielo e uscii dalla vasca. Mi venne la pelle d'oca. Afferrai un asciugamano e tamponai i capelli quando il campanello suonò nuovamente più volte. Imprecai sottovoce e indossai l'accappatoio. Ero abbastanza innervosita e irritata, quell'essere umano era così insistente che dovetti correre per andare ad aprire. Come si poteva essere così irrispettosi e maleducati...

Feci le scale come un capriolo e mi fiondai all'ingresso.

Spalancai la porta. La bocca mi si seccò all'istante e i muscoli della mia mano erano tesi mentre stringevano la maniglia. Credevo che la persona che intendeva Jas fosse una sua amica, non credevo si trattasse invece di un amico.

«Ehm» mormorai prima di chiudergli la porta in faccia.

Appoggiai la schiena al legno e cercai di respirare lentamente. Ero sotto shock, non riuscivo a capacitarmene. Strinsi le labbra in un'unica linea e dopo aver preso un respiro profondo mi voltai e abbassai la maniglia. Aprii la porta lentamente, a scatti. Quello che provavo era imbarazzo, il mio corpo era avvolto in un semplice accappatoio che mi lasciava metà gambe scoperte e mi sentivo tremendamente a disagio a dover aprire la porta sapendo che non indossavo la biancheria intima. Non mi era mai capitato di dovermi preoccupare di quel genere di cose, e in quell'istante in cui sentivo le guance andare a fuoco capii che quello che mi stava accadendo non mi piaceva e che mi sarei dovuta ricomporre. Shelley Mitchell non si imbarazzava mai, lei aveva il pieno controllo delle sue emozioni.

«Ciao» sorrise.

«Ci conosciamo già?» mi chiese scrutando attentamente il mio viso.

«Non credo» mentii tentando di guardare ovunque ma non i suoi occhi verdi. Mi concentrai sulla sua camicia bianca trasparente che faceva intravedere il torace e i pettorali leggermente scolpiti. Sentivo il suo sguardo su di me. I suoi occhi erano dappertutto. Li sentivo in ogni centimetro del mio corpo.

«Aspetta un attimo, tu sei la ragazza che si è presa il mio gelato» infilò la mano destra nella tasca dei calzoni osservandomi dall'alto in basso, come se fossi un giocattolo.

«Non era il tuo gelato» sputai acida e senza farlo apposta con quelle cinque parole gli avevo fatto capire che mi ricordavo di lui e del nostro incontro di qualche settimana prima. Lo fissai con i pugni chiusi lungo i fianchi e la bocca arricciata. La rabbia che nutrivo nei suoi confronti era aumentata a dismisura da quando aveva interrotto il mio momento di relax e dopo aver ricordato quanto fosse stato maleducato nei miei confronti iniziai ad odiarlo nel profondo.

«Quindi ammetti che ci conosciamo già?» insistette sorridendo ancora.

«Se per "conosciamo" -feci il gesto delle virgolette con le dita- intendi averti incontrato in precedenza e aver compreso quanto sei insopportabile, allora sì, ci conosciamo già» incrociai le braccia al petto e mi appoggiai allo stipite della porta lanciandogli uno sguardo di sfida. Rise alla mia battuta. Non era poi un granché come battuta, ma lo fece ridere.

«Ora se non ti dispiace, posso sapere che diavolo ci fai qui?» continuai.

«Qui: davanti alla tua porta o qui: in questo palazzo?» si prese gioco di me. Lo guardai dall'alto in basso, come aveva fatto lui prima, per poi soffermarmi sui suoi occhi verdi fulminandolo con gli occhi. Si era preso la libertà di fare lo spiritoso e ciò stava iniziando a seccarmi. Sperai con tutta me stessa che nessuno stesse origliando la nostra conversazione, poiché sarebbe stato scomodo. In questo palazzo di solito tutti si fanno i fatti degli altri e le voci girano come un boomerang.

«O la smetti di fare l'idiota, o ti prendo a calci nel culo» sibilai liberando un po' della mia rabbia.

«Va bene, ma calmati» diventò improvvisamente serio.

Quel ragazzo era riuscito ad alterare la mia pazienza nel lasso di tempo di cinque minuti. Non sopportavo quando mi veniva detto di calmarmi e lui l'aveva fatto, dopotutto lui non poteva sapere cosa mi desse fastidio ma non riuscii a placarmi in ogni caso.

«La mia ragazza mi ha detto di venire a questo indirizzo» mi spiegò. Inarcai un sopracciglio confusa.

La sua ragazza?

«Come si chiama?» lo sollecitai a darmi qualche informazioni per capire chi fosse.

«Jasmine.» Mi agitai seduta stante. Rizzai la schiena e rimasi in guardia. Non c'era niente di certo, nel palazzo ci potevano essere altre Jasmine, non doveva essere per forza la mia migliore amica. Mi si strinse lo stomaco per via dell'ansia. Non volevo sapere di quale Jasmine si trattasse, avrei preferito di gran lunga rimanere con il beneficio del dubbio, ma la curiosità mi stava divorando perciò continuai con le mie domande.

«Potresti dirmi il suo cognome?»

Ti prego, non dire Evans.

Non dire Evans.

«Evans» rivelò passandosi una mano fra i capelli.

Non ci potevo credere, avevo provato a convincermi che avesse sbagliato appartamento e che la persona che aveva invitato la mia amica non era lui, ma fallii totalmente. Rimasi immobile sulla soglia della porta e l'unica cosa a cui riuscii a pensare fu che io e questo ragazzo avevamo in comune una cosa: Jasmine.

Il tizio del gelato, lo stronzo che mi aveva dato della bambina, il figo che aveva incantato la cassiera in modo che accettasse i suoi soldi; era il ragazzo della mia migliore amica. Dire che ero sorpresa era un eufemismo. Ero esterrefatta. Non ci potevo credere. Come diavolo era possibile? Da quanto tempo andava avanti? Da prima che io lo incontrassi? Avevo un'infinità di domande e una valanga di risposte che mi mancavano, ma che sentivo avrei avuto al più presto. Perciò lo feci entrare come mi aveva chiesto Jas.

«Entra» affermai spostandomi permettendogli di entrare.

Chiusi la porta alle mie spalle e lo feci accomodare sul divano. Inizia a respirare regolarmente, con il tentativo di rallentare i battiti del mio cuore. Era come se stesse per uscirmi dal petto. Avevo pregato di non doverlo rincontrare e invece me l'ero ritrovata fuori casa poche settimane dopo.

«Vado a vestirmi, torno tra un attimo» lo informai stringendo i lembi dell'accappatoio al mio busto.

«Ok» disse semplicemente.

Feci le scale e mi fiondai nella mia camera. Aprii il cassetto, presi delle mutandine e un reggiseno non abbinati, mi infilai le prime e mi allaccia l'ultimo. Abbandonai l'accappatoio sul letto. Spalancai le ante dell'armadio, afferrai un paio di calzoni e una canottiera celeste. Legai i capelli ancora umidi in uno chignon disordinato e infine indossai un paio di calzini Scesi al piano di sotto e tornai dal mio ospite.

«Eccomi!» Alzò la testa e mi osservò scendere le scale. Mi sentii finalmente a mio agio una volta vestita. Feci attenzione a non scivolare, non era il caso rompermi una gamba. Feci il giro del divano e mi posizionai di fronte a lui. Misi le mani sui fianchi.

«Vuoi qualcosa da bere?»

«Hai del succo di frutta?» mi chiese.

«Sì» risposi.

«Quello va benissimo»

Andai in cucina riempii un bicchiere di ACE e tornai da lui. Era seduto con i gomiti appoggiati sulle cosce e con le mani sosteneva la testa, dei ciuffi di capelli gli ricadevano sulla fronte e sul suo viso vi era un'espressione concentrata, quasi come se fosse imbronciato. Non mi accorsi nemmeno di essermi fermata ad osservarlo, quando lui alzò lo sguardo da terra e puntò i suoi occhi verdi nei miei mi sentii mancare la terra sotto ai piedi. Feci qualche passo in avanti e gli porsi il succo:«Ecco a te» gli dissi con una notevole sicurezza nella mia voce.

«Grazie» abbozzò un sorriso lieve, quasi impercettibile. Per un attimo iniziai a ricredermi su di lui, forse non era solo uno stronzo prepotente, ma era anche gentile. Sembrava così difficile inquadrarlo, ma lui era entrambe le cose: passava dalla gentilezza alla coglionaggine in un battibaleno. E forse quello che mi fece, fu il primo sorriso sincero che mi riservò in tutta la serata. Mi sedetti al suo fianco lasciando una ventina di centimetri di distanza fra ma e lui. Non volevo contatti di nessun genere.

«Jasmine tornerà fra un'ora, perciò se non ti rompe puoi aspettarla insieme a me» gli ho proposto. Ero in conflitto con me stessa, perché nonostante non volessi averlo attorno la mia amica mi aveva chiesto il contrario e considerando che al telefono le dissi che lei avrei fatto quel favore volli mantenere la mia parola. In risposa annuì con la testa.

«Non è un problema per me» asserì.

«Ottimo» proferii non sapendo cos'altro dire.

Restammo in silenzio per qualche minuto, mi fermai per qualche secondo a fissare le sue mani che circondavano il bicchiere in vetro. Aveva delle mani ben curate, forti, da uomo. Chissà come sarebbe stato averle addosso... Mi sentii in colpa per aver pensato una cosa simile del ragazzo della mia migliore amica, mi morsi il labbro inferiore e sperai che quest'ultima facesse presto ritorno. La sua presenza avrebbe evitato ogni sorta di disagio, perché mi sarei chiusa nella mia stanza e li avrei lasciati fare le loro cose.

«Shelley, posso avere dell'altro succo?»

La sua voce mi distolse dai miei pensieri. Restai sbalordita nel sapere che conosceva il mio nome, io di certo non glielo avevo detto, probabilmente Jasmine gli aveva parlato di me e forse gli aveva detto con chi condivideva l'appartamento. D'altronde era il suo ragazzo e queste informazioni gli erano concesse. Non ebbi il coraggio di chiedergli come facesse a conoscerlo, così feci finta di niente e feci ciò che mi aveva chiesto.

«Certo» mi alzai. Andai in cucina. Appoggiai il bicchiere sul ripiano in marmo, aprii il frigorifero e presi il contenitore del succo in cartone, successivamente svitai il tappo e versai il liquido arancione. Gli riempii nuovamente il bicchiere e tornai in salotto.

Mi misi nello stesso punto di prima e gli porsi il succo.

«Ecco, tieni» allungai il braccio alla mia sinistra. Senza ringraziare e senza sfiorarmi con un dito prese il suo succo e riportò lo sguardo davanti a se.

«Ne vuoi un po'?» spostò il bicchiere verso di me, dopo averne bevuto un grande sorso. Scossi la testa in risposta.

«Grazie lo stesso, Dawson.» Non lo feci apposta, ma mi venne spontaneo pronunciare il suo nome a fine frase, come se fosse una cosa così naturale, come se fossimo amici da chissà quanto tempo. Forse l'unica spiegazione era che l'aver sentito il mio nome uscire dalle sue labbra aveva creato scompiglio nella mia mente e il mio subconscio contorto volle che ricambiassi il gesto.

«Non ringraziarmi» disse più serio di prima.

«Come vuoi» alzai le spalle colpita dal suo cambiamento d'umore, «Bipolare» borbottai tra me e me.

Si voltò a guardarmi trucidandomi con gli occhi. Erano di un verde intenso che visto da lontano poteva sembrare addirittura marrone. Passarono due secondi in cui ci scambiammo una serie di occhiate malevoli.

«Ti ho sentito» dichiarò impassibile rompendo il silenzio. Aveva smesso di sorridere e la questione mi metteva una leggera agonia. «Perché doveva essere così scontroso?» chiesi alla mia coscienza. Non sopportavo la sua sfacciataggine, in più tutti gli sguardi in cui sembrava volesse sciogliermi e rendermi cenere non erano richiesti, ma lui me li donava come fossero biglietti omaggio per il lunapark.

«Non mi importa, dico solo la verità» accavallai le gambe.

«La smetti di rispondere?» disse brusco. Allontanai la testa indietro, spalancai la bocca e lo guardai offesa. Non aveva il diritto di parlarmi in quel modo. Mi pentii subito di aver acconsentito a Jas di occuparmi del suo invitato. Non mi piaceva affatto il suo modo di darmi retta.

«Io parlo quanto voglio» replicai facendomi valere.

«Bambina viziata» mi ammonì spregevole. Scosse la testa e adagiò la schiena sulla spalliera del sofà. Portò la caviglia della gamba destra sul ginocchio di quella sinistra e tenne la fronte corrucciata. Mi dava l'impressione stesse pensando a qualcosa.

«Casa tua questa?» chiesi retorica dopo aver visto in che posizione si era messo, con tanto di noncuranza.

Sarebbe stato impossibile ricevere delle risposte alle mie domande da lui. Non mi avrebbe mai detto quello che volevo sapere sulla loro relazione, in ogni caso mi promisi di chiedere tutto alla mia amica quando sarebbe tornata. Dovevo e volevo sapere da quanto tempo andava avanti la loro storia.

«No, della mia ragazza, ma indirettamente è anche mia» spifferò spavaldo. Restai zitta per un attimo. Avvicinò il bicchiere alla bocca e bevve il restante succo.

«Spero ti vada di traverso» sorrisi falsamente alzandomi dal divano. Mi aveva straziata a starlo a sentire, era stato gentile per un momento che a fatica riuscivo a ricordare considerando come era mutato il suo atteggiamento nei minuti seguenti. Non vedevo l'ora che il capo della mia coinquilina la lasciasse andare, non riuscivo più a mandare giù la presenza di Dawson. Mi stava opprimendo.

Volevo solo riavere la mia privacy e poter passare il mio sabato sera con tanto di tranquillità. Chiedevo forse troppo? Dio forse non era dalla mia parte e probabilmente voleva che scontassi la mia pena per aver compiuto un'azione non corretta, o magari per aver peccato in qualche strano modo. Non mi venne in mente niente di male che avessi fatto in quei giorni.

Raccattai il mio telefono e chiamai la pizzeria, ordinai due pizze famiglia margherita. Mi dissero che sarebbero arrivate entro venti minuti. Non avevo la minima idea di come tenere occupato Dawson, considerando il nostro tentativo fallito di fare conversazione. Tornai il salotto e mi sedetti alla sua destra. Nessuno dei due spiccò parola, c'era un silenzio assordante, mi stava facendo andare di matto. L'unica cosa che sentiva era il suono del mio respiro accompagnato da quello del ragazzo al mio fianco. Giocherellai con le dita torturandole, poi passai ad attorcigliare una ciocca di capelli. Ad un tratto sentimmo la serratura scattare ed esalai un:«Finalmente» beccandomi un'occhiata torva da Dawson, poi mi alzai e andai ad aprire lasciandolo solo.

«Ho fatto il prima possibile» si giustificò cogliendo perfettamente ciò che volevano dire i miei occhi. La stavo guardando con rabbia e delusione. Mi aveva mentito e non mi aveva detto chi fosse la persona che avrebbe invaso il mio territorio.

«Una persona eh...» incarnai la dose, volevo che capisse quanto mi fosse costato intrattenere il suo ragazzo.

«Mi dispiace El, non volevo che lo scoprissi così»

«Dispiace anche a me, comunque sia quando se ne sarà andato parleremo» l'avvisai.

«Dov'è?» mi chiese.

«In salotto»

Mi sbagliavo, non era più sul divano, era davanti a me e Jas. Mi innervosì al solo vederlo, senza che nemmeno aprisse bocca. Il su talento era impressionante. Senza dire una parola riusciva ad alterare ogni mio nervo. Piantò i piedi sul pavimento e restò a fissarci.

«Possiamo andare a casa mia?» domandò alla ragazza al mio fianco senza degnarmi di uno sguardo.

«Ok, ma è successo qualcosa?» alternò lo sguardo da me a lui preoccupata.

«No, semplicemente la tua coinquilina è una rompi palle» sentenziò infilandosi le mani in tasca.

Detto questo, Dawson mi superò coprendomi con la sua altezza. Quando mi passò vicino mi diede una spallata, urtandomi e poco dopo si affrettò ad aprire la porta.

«Ti aspetto giù» le comunicò prima di uscire e sparire

«Stronzo» sibilai alle sue spalle.

«Devo andare, voglio sapere cos è successo in mia assenza» mi avvisò seria guardandomi dritta negli occhi. Annuii con la testa. Sparì dalla mia vista e raggiunse Dawson.

«Fanculo!» sbottai una volta rimasta sola.

Il campanello suonò per la ennesima volta in tutta la giornata. Pensai fosse Jasmine, magari aveva dimenticato qualcosa a forza di uscire di fretta per seguire quell'idiota del suo ragazzo. Spalancai la porta e rimasi interdetta, nel notare che mi era tornato il sorriso. Bastava così poco per rendermi felice.

Lanciai uno sguardo al fattorino delle pizze, il profumo di quest'ultime si insinuò nelle mie narici inebriandomi. Non c'era cosa più buona della pizza.

«Sono trenta dollari, prego» annunciò porgendomi i cartoni. Rientrai in casa, presi i soldi e tornai dal ragazzo fuori dalla porta.

«Ecco a lei» gli porsi le banconote. Mi diede le pizze e controllò che i soldi fossero giusti.

«Può tenere il resto.»

Il fattorino annuì  con il capo e sparì dalla mia vista. Rientrai in casa con le pizze calde nelle mie mani. Fui felice che Jasmine se ne era andata con Dawson così mi sarei mangiata la mia e la sua pizza, dopotutto lei si stava divertendo con Dawson, di certo non pensava alla pizza. Chiusi la porta con il piede sinistro e mi fiondai in sala da pranzo. Appoggiai le due pizze sul tavolo e mi sedetti su una sedia. Il tavolo era rettangolare ed era sufficiente per far accomodare sei persone. Aprii una confezione e ringraziai mentalmente la pizzeria per averla già tagliata a fette.

«Fanculo» bofonchiai con la bocca pienaa.

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