VIII
Aren era furibondo.
Alla fine il Conte era riuscito ad ottenere ciò che voleva, ma non l'avrebbe passata liscia. Non riusciva a sopportare l'idea che l'avesse avuta vinta.
Come una furia uscì dall'appartamento e venne inghiottito dal nero della notte. La luce dei lampioni sfarfallava e pareva affievolirsi al passaggio di Aren che si dirigeva con passo spedito verso l'opulento edificio bianco sede di "Incubi sereni".
Entrò di schianto nel bordello facendo sussultare tutti i clienti presenti e gli Incubi e le Succubi che si aggiravano tra loro. Lui non li degnò nemmeno di uno sguardo, salì a due a due i gradini che portavano al piano superiore e attraversò il corridoio come una scheggia.
Senza tanti complimenti spalancò la porta dello studio del Conte con tale violenza da farla sbattere contro la parete, rischiando di scardinarla. Le gocce di cristallo del lampadario tremarono.
Il Conte stava comodamente seduto alla scrivania, con le gambe accavallate e appoggiate sul piano di legno lucido e una sigaretta semi consunta stretta tra le labbra. Sembrava quasi che lo stesse aspettando.
Aren si gettò su di lui, rovesciò la sedia e iniziò a tempestargli la faccia di pugni. Un campo di forza invisibile gli bloccò improvvisamente la mano a mezz'aria, fermando il colpo successivo già caricato.
«Oh, Aren! Che sorpresa!» lo salutò il Conte, disteso sul pavimento «Una visita davvero inaspettata e piuttosto irruenta.»
«Io ti ammazzo!» sibilò Aren, cercando di muovere la mano, ma era inutile, quel campo era più forte di lui.
«E come pensi di fare?» domandò il Conte senza scomporsi «Non mi sembra che tu abbia sotto mano un proiettile d'argento o un paletto di frassino.»
Aren si sentì di colpo un perfetto idiota: nella furia omicida non aveva affatto pensato a procurarsi un'arma, accecato dal desiderio di vendetta.
«Potresti sempre strozzarmi», gli suggerì il Conte, per nulla intimorito, come se fosse stato del tutto normale essere distesi sul pavimento con un Vampiro, che ti voleva morto, comodamente seduto sulla propria cassa toracica «Ma non penso che otterresti qualcosa...»
Aren strinse ancora di più la mano fino a conficcarsi le unghie nel palmo, ma non riuscì a smuoverla dalla sua posizione.
La cosa peggiore era essere presi in giro da lui, dopo essere stato vilmente sfruttato. Aveva capito che lo scopo del Conte fin da principio era servirsi di lui per eliminare Cyril, ma ciò che mandava in bestia Aren era tutta la farsa inscenata permettendogli di rientrare nel Circolo e volendo apparire magnanimo e comprensivo per questo.
Un'idiota, ecco cosa era stato! Uno sciocco che non aveva saputo soppesare a dovere la questione, di nuovo.
Il Conte si schiarì la gola, richiamando l'attenzione su di sé.
«Capisco che potrei risultare piuttosto comodo, ma questa posizione mi pare un tantino sconveniente, inoltre mi stai schiacciando la gabbia toracica ed è davvero fastidioso.»
Senza che potesse opporre resistenza o fare qualsiasi altra cosa, Aren si ritrovò costretto a raddrizzarsi e ad alzarsi in piedi, tenendo sempre il pugno sospeso nell'aria. Era una sensazione avvilente venire manovrati a quel modo, senza potersi opporre; ora il Vampiro capiva come dovessero sentirsi le marionette o gli Incubi, quando erano sotto il controllo del Conte.
Quest'ultimo si rialzò in piedi e si lisciò con calma il panciotto in seta dorata, mentre Aren se ne stava immobile accanto alla scrivania, con i crampi alla mano e l'orgoglio ridotto ad un mucchio di schegge.
In quel momento entrò Valentine tutto trafelato, con i capelli spettinati e la camicia semiaperta.
«Ho sentito un rumore terribile e sono accorso qui appena ho potuto... cosa è success... Aren?!»
Valentine guardava sorpreso il Vampiro, simile ad una statua di sale; solo gli occhi si muovevano e mandavano bagliori di fuoco rabbioso.
«È venuto a farmi una visita» disse il Conte allegramente, sistemando la sedia «Hai visto che gentile?»
«Ti ha picchiato?» domandò a sua volta Valentine, vedendo che sul mento del Conte spiccava una macchia rossa e aveva il sopracciglio sinistro e il labbro superiore spaccati.
«Nulla di che» minimizzò l'altro scrollando le spalle. Subito dopo le ferite si rimarginarono da sole ad una velocità impressionante e sparirono, facendo tornare liscio e candido il suo viso avvenente.
«Allora, Aren, qual buon vento di porta da queste parti?» ridacchiò il Conte, riaccendendo la sua sigaretta e spostando il suo interlocutore davanti alla scrivania, tra le poltroncine amaranto su cui si era seduto l'ultima volta. Colto da un moto di pietà, gli permise anche di abbassare il braccio.
Aren grugnì.
«L'ho ucciso!» annunciò «Sei contento ora? Hai ottenuto ciò che volevi!» sibilò.
«Cyril è morto?» domandò Valentine.
«Mi sono sfamato di lui, fino a prosciugarlo... La Bramasangue ha fatto il suo dovere» rispose il Vampiro, straziato dal dolore e dalla disperazione. Le parole uscirono in una specie di singhiozzo strozzato, dovuto al groppo che gli era rimasto incastrato in gola. Cercava di non lasciarsi andare alle lacrime di fronte al Conte, non avrebbe sopportato di soddisfarlo mostrandogli quant'era divenuto fragile, ma il ricordo della vita che abbandonava Cyril era davvero pesante.
Eppure, un attimo dopo il suo corpo caldo, che amava stringere, era mutato in quello scuro e secco di un elfo. Quella trasformazione l'aveva sconvolto e frastornato: «Era un Drow!» sputò con disprezzo.
«Un Drow?» ripeté Valentine incredulo.
«Un Elfo Scuro! Si è trasformato sotto i miei occhi: la pelle si è scurita, i capelli sono diventati bianchi...»
«Un Mutaforma!» esclamò Valentine, sorpreso «Non credevo ne esistessero ancora...»
«Mi ha ingannato!» lo interruppe Aren «Mi ha fatto credere di essere qualcun altro!»
La consapevolezza giunse solo quando sentì quelle parole uscire dalla sua bocca. Qualcosa dentro di lui si ruppe: la persona che aveva amato profondamente e intensamente gli aveva mentito spudoratamente. Una fitta di dolore indicibile gli attraversò il petto, chiuse gli occhi, ricacciando indietro le lacrime che si erano fatte prepotentemente largo tra le ciglia. Non poteva piangere, non di nuovo e non di fronte al Conte.
«Era una spia» la sua voce giunse come una stilettata. Fino a quel momento era rimasto in silenzio a godersi lo spettacolo, appoggiato contro il bracciolo della poltrona, le braccia incrociate sul petto e un sorriso sornione a disegnarli le labbra carnose «Cyril, o, per meglio dire, Syran Malvento, era una spia mandata dalla Sacra Spina per carpire informazioni sul Circolo. La sua apparente ingenuità, la sua innocenza erano una maschera per potersi intrufolare avvicinandosi a uno di noi e sfruttarlo per avere informazioni... Tanto astuto che nemmeno la Sacra Spina deve aver sospettato della sua vera natura» sorrise.
«E voi lo sapevate?» proruppe Aren, incredulo.
«Che fosse un Elfo lo scopriamo ora, che fosse una spia lo sospettavamo...» rispose il Conte
«Anche tu lo sapevi!» gli occhi accesi di sgomento e rabbia di Aren colpirono Valentine: il suo sguardo era colpevole, nonostante il suo viso fosse rimasto impassibile.
«E non mi avete detto niente?» rincarò, sempre più perplesso.
«Se te l'avessimo detto, ci avresti creduto?» domandò a sua volta il Conte. Aren rimase interdetto: probabilmente avrebbe pensato che sarebbe stata solo un'altra scusa meschina per allontanarlo da Cyril; sconsolato, si ritrovò ad ammettere che no, non gli avrebbe creduto.
«Perché allora, se avevi dei sospetti, hai lasciato che andassi con lui? Perché non me l'hai impedito?»
«Perché avresti sicuramente fatto qualcosa di estremamente stupido e impulsivo, come tuo solito, rischiando di compromettere la sicurezza del Circolo. Il nostro compito è quello di preservare le creature della notte e proteggerle, un compito che assolviamo egregiamente da tempo, non potevo permettermi che uno sbarbatello che aveva perso la testa per un Umano mandasse a puttane tutto quanto...»
«Così hai preferito usarmi per eliminarlo?» domandò Aren, ignorando il paragone.
«È stata un'idea di Valentine, in realtà» rispose il Conte, non senza un sorriso di compiacimento.
Aren diresse lo sguardo verso l'Incubo che mantenne il volto imperturbabile, dai suoi occhi era sparita ogni traccia di colpevolezza. Non si sentiva nemmeno in colpa, il bastardo, e non si pentiva nemmeno! Quello sguardo freddo e distaccato fu per Aren come una pugnalata alla schiena: solo allora ebbe la conferma che Valentine aveva sempre fatto il gioco del Conte, mostrandosi benevolo e conciliante nei suoi confronti.
Era stato tradito e sfruttato da tutti, manipolato senza ritegno dalle persone che amava e di cui si fidava!
Il Vampiro era rimasto basito: «Sono stata solo una pedina del vostro gioco...» mormorò, una punta di aspra consapevolezza gli fece tremare la voce. La pedina di un gioco a cui non sapevo nemmeno di aver preso parte aggiunse mentalmente.
L'amara verità si fece largo dentro di lui, devastandolo.
Il Conte rilasciò finalmente l'incantesimo e Aren cadde sulle ginocchia, distrutto e impotente. Aveva sempre creduto di avere in mano lui le redini della situazione, di decidere lui per sé, ma erano state solo presunzioni, lui non era stato altro che un fantoccio nelle mani degli altri, barbaramente e meschinamente usato per i loro scopi.
E ora che non serviva più, che fine avrebbe fatto? Sarebbe stato gettato via come un utensile rotto e ormai inutilizzabile?
Aveva perso tutto: il suo amato, i suoi amici e la fiducia che aveva riposto in loro, il controllo su se stesso, sulle proprie azioni e decisioni, e persino la sua dignità, abbassandosi a strisciare e baciare i piedi di quel tiranno sadico e subdolamente malvagio che era il Conte. La rabbia aveva ceduto il posto ad un enorme disgusto e disprezzo nei propri confronti più che per quelli che l'avevano sfruttato. Non era stato capace di vedere il doppio gioco che stavano tramando alle sue spalle, aveva permesso di farsi usare senza alcun riguardo, senza che lui si accorgesse di nulla, mentre i suoi burattinai ridevano alle sue spalle tirando i fili che lo muovevano.
Aren si strinse nelle spalle, non aveva più nulla ormai.
Sentiva lo sguardo del Conte fisso su di sé, crudele e sprezzante, lo guardava come se fosse meno di uno straccione all'angolo della strada.
Il Vampiro si sentì patetico e sciocco. Non aveva senso rimanere inginocchiati sul pavimento di quello studio a commiserarsi sotto lo sguardo penetrante e insostenibile del perfido che lo dirigeva. Si alzò seguito dagli occhi algidi e crudeli del Conte e di Valentine, probabilmente si stavano chiedendo che intenzioni avesse.
Aren uscì dalla stanza, a testa bassa, con la coda tra le gambe, sconfitto e umiliato.
Il cielo stava iniziando a schiarirsi, le stelle erano già scomparse assieme alla luna, lasciando che il Vampiro vagasse per le strade immerse nella vaga luce crepuscolare, randagio, con le mani affondate nelle tasche della redingote di panno scuro. I lunghi capelli neri e lucidi erano sfuggiti alla presa del nastro, calando davanti al viso a nasconderlo dietro una cortina d'ebano, e gli occhi azzurri, screziati di violetto, erano spenti e vacui, pieni delle lacrime che si rifiutava di versare.
Si era stufato di piangere, non era riuscito a fare altro in quei giorni, solo frignare e disperarsi, patetico.
Si domandò cosa avrebbe fatto: avrebbe potuto trasferirsi, andare in un'altra città e lasciarsi tutto alle spalle, ma il peso delle azioni compiute e degli affronti ricevuti e l'odore del sangue l'avrebbero seguito anche lì, senza dargli tregua, opprimendolo e logorandolo lentamente. La consapevolezza di essere stato usato lo avrebbe tormentato impedendogli di fidarsi nuovamente di qualcuno, ma come Vampiro aveva bisogno di riparo e protezione, di un altro Circolo, che potesse assicurarglieli. Inquisitori, Cacciatori e Chierici invadevano le strade e le città, non sarebbe stato semplice vivere nascosto senza un appoggio.
Aren non si era accorto di essere arrivato fino al Parco dei Ciliegi, placidamente adagiato sulla cima delle colline a est della città, la vista da lassù spaziava su tutta la città grigia sottostante. All'orizzonte si profilava un'alba modesta e pallida, striata di larghi riflessi violetti, raccolta come una carezza su quell'ammasso di condomini grigi e ville opulente che ancora dormivano, raggomitolate ai piedi delle colline.
Aren sospirò, rassegnato. Si sentiva completamente vuoto e distrutto, lacerato e ridotto ad una miriade di strazianti e crudeli frammenti di vetro,dai bordi aguzzi e taglienti: l'unica persona che avesse mai amato profondamente e disperatamente gli aveva mentito e si era servita spudoratamente di lui, quelli che considerava amici e a cui si era totalmente affidato non si erano comportati diversamente, e lui, che si era creduto tanto forte e potente, capace di fronteggiare qualsiasi situazione, non era altro che fragile e presuntuoso, pieno di lacrime e false convinzioni.
Aren non riusciva più a trovare un senso a quella vita, era diventata un fardello troppo greve e troppo doloroso. Comprese che non sarebbe riuscito a trascinarsi ancora appresso un'esistenza appesantita e insanguinata dagli ultimi avvenimenti, ricordi indelebili che sarebbero rimasti strenuamente attaccati alla sua memoria e l'avrebbero tormentato in continuazione, imputridendosi e avvelenandolo.
Il treno delle sei meno un quarto sferragliò lontano, lasciando nell'aria chiara e limpida la nube del suo carbone, e riscuotendolo dai suoi pensieri.
Aren sollevò il viso verso est.
Era da quando era diventato un Vampiro che non vedeva il sole sorgere.
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