Capitolo 3
«Cerca di comportarti bene, stasera. Ti conosco troppo bene e so che dirai o farai qualcosa di inappropriato». Sbuffai.
Mia madre si stava sistemando davanti allo specchio di camera mia le ciocche che spuntavano dal suo chignon perfetto. Io, ero ancora sdraiata nel letto. Non ero dell'umore di conoscere nuove persone, soprattutto se si trattava dei vicini di casa. In realtà, non ero mai dell'umore di fare nuove conoscenze.
«Ma non posso far finta di star male? Tanto lo sanno che ho il cancro!». Sbuffai nuovamente rotolandomi fra le soffici coperte.
«Diana, per favore. Potresti anche fare amicizia. I Collins hanno tre figli, due dei quali hanno praticamente la tua età». Mia madre si sedette sul bordo del mio letto. Sbuffai ancora.
«Non voglio fare amicizia».
Mi iniziò ad accarezzare la fronte.
«E... hanno una bimba di cinque anni». Mi alzai di scatto.
«Mi stai manipolando! Tu sai quanto amo i bambini! Non puoi manipolarmi in questo modo!», le urlai dietro. Stava già scendendo le scale per andare al piano di sotto.
«Lo so! Ed è per questo che fra un quarto d'ora devi essere qui sotto pronta ad accoglierli!».
L'unica nota positiva è che avrei potuto passare la serata a giocare con quella bambina.
Decisi con malavoglia di alzarmi dal letto e prendere le prime cose che trovai nell'armadio. Una semplice maglietta bianca con dei fiorellini rosa e un paio di jeans blu andavano più che bene. Mi guardai allo specchio e cercai di sistemare l'ammasso di capelli che mi ritrovavo. Non mi reputavo una ragazza dalla bellezza divina, anche se nella vita ho avuto parecchi ragazzi che mi facevano la corte. Ovviamente, ho sempre tenuto tutti lontani da me. Non volevo essere un peso per nessuno, perché alla fine, è questo che sono: un peso.
Infilai le prime scarpe che trovai e scesi con fatica le scale per arrivare fino in salotto. Diciamo che i miei genitori non hanno avuto una bellissima idea a mettere la mia camera al piano superiore, ma tanto, passo più tempo a letto che nelle altri parti della casa. Se ho bisogno di qualcosa, c'è sempre Mary.
«Eccoti qui, ciao Bambi». Mio padre mi diede un bacio sulla fronte.
«Se osate chiamarmi con quel soprannome orribile anche stasera, davanti a loro, giuro su Dio che non vi rivolgerò la parola almeno per un mese».
«Va bene, Bambi!», disse mia madre mentre metteva qualche stuzzichino sul tavolo di vetro davanti al divano.
«Mamma! Ti prego!».
Mi diedi l'ultima occhiata allo specchio e sentimmo il campanello di casa suonare.
«Sono arrivati. Mi raccomando Diana, cerca di non dire cazzate, grazie». Mia madre mi fece un sorriso falso. Molto probabilmente lo avrei usato anche io per il resto della serata.
Mio padre aveva aperto la porta di casa dicendo:«prego, entrate pure». Era una famiglia composta da cinque persone. La madre si presentò per prima.
«Ciao, tu devi essere Diana vero? Io sono Anna», mi disse con un sorriso a trentadue denti. La sua voce, però, era molto dolce. «Io sono Rick, il boss di questa famiglia», mi disse il padre cercando di farmi ridere. Ovviamente rimasi impassibile.
«Loro sono Logan, Will e la piccola è Isabella, ma tutti la chiamiamo Bella», li presentò Anna. Non diedi neanche uno sguardo agli altri due ragazzi che mi fiondai sulla bambina. «Ciao Bella, io sono Diana. È un piacere conoscerti». La sua mano era così piccolina che a malapena riuscivo a stringerla. «Che cos'è quello?», mi chiese.
«È una bombola dell'ossigeno che devo sempre portarmi dietro. L'ossigeno passa da questo tubicino che si ferma sul mio naso e mi fa respirare meglio». Amavo la sua curiosità. Era diversa dal resto della famiglia. Lei era bionda con dei piccoli boccoli, mentre tutti gli altri avevano i capelli castani.
«Hai il raffreddore?», mi chiese la piccola bambolina.
«Più o meno sì». Continuai a sorriderle. Un raffreddore che durava da quindici anni.
«Venite, sediamoci pure sul divano. Ho preparato qualche spuntino», disse mia madre mentre accompagnava l'intera ciurma in salotto. Mi sedetti sulla poltrona bianca che mio padre aveva deciso di spostare vicino al camino. A mia madre, prima di andare a dormire, piaceva leggere davanti ad un fuoco acceso.
«Logan, Will, vostra madre mi ha detto che avete più o meno la stessa età di Diana».
Logan parlò per primo. «Io vado ancora al liceo, sono all'ultimo anno». «Io, invece, mi sono diplomato l'anno scorso». Will era proprio di una bellezza rara. Sembrava più grande di me e invece avevamo la stessa età. Rimasi imbambolata per qualche secondo ma poi sentì una piccola manina toccarmi la gamba.
«Posso sedermi sopra di te?». Presi Bella in braccio e la posai sopra le mie gambe. «La vuoi una pizzetta?», le chiesi.
«Si!». Era di una dolcezza fuori dall'ordinario.
«Tieni. Mi raccomando, devi mangiarla tutta così puoi diventare grande», le dissi sorridendo.
Vidi mio padre cominciare a parlare del suo lavoro da architetto con Rick. Faceva così con tutti. Mia madre invece, era concentrata a spiegare ad Anna la ricetta di alcuni spuntini che aveva preparato.
«Tu quindi sei Diana», mi disse Logan, palesemente in imbarazzo. Will, invece, rimase in silenzio, anche se mi sentivo i suoi occhi addosso.
«Già», risposi semplicemente.
«Come si sta qui in California?», continuò Logan.
«Bene, credo. Fa caldo».
«Che cosa fai di solito?». Odiavo parlare con persone sconosciute e soprattutto odiavo rispondere a questa domanda.
«Vuoi sapere la verità? Nulla. Non faccio assolutamente niente per tutto il giorno».
«E perché?». Sta volta era la dolce Bella a parlare. Il mio umore cambiò nel giro di pochi secondi.
«Perché questo brutto raffreddore non mi permette di fare tante cose», cercai di spiegarle.
«Non hai qualche amico con cui uscire?». Logan stava iniziando a starmi antipatico.
«No. Non ho nessuno e non ho intenzione di avere amicizie se è questo quello che vuoi sapere».
«Bambi!». Mia madre mi aveva sentita.
«Mamma, ti prego». Le lanciai un occhiataccia.
«Perché ti chiama Bambi?», mi chiese Bella.
«Perché quando ero piccola, tutti mi dicevano che avevo gli occhi da cerbiatto. Da lì è nato questo soprannome». Che è orribile, aggiungerei.
«È vero, però, sembri un cerbiatto!». Bella si mise a ridere.
«Un cerbiatto che può farti tanto solletico però». Iniziai a farla ridere ancora di più. Amavo la sua risata. Era come una musica per le mie orecchie.
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