La resa dei conti - Prima parte

Un giorno portai i bambini da Alessandro al negozio, approfittando di una bel pomeriggio eravamo scesi per fare una passeggiata e sulla strada del ritorno mi chiesero di vedere il papà: quando entrammo, lo trovai che chiacchierava amabilmente con una cliente, vestita con una minigonna ascellare abbinata a una camicia che non doveva avere bottoni visto che la portava aperta fin sotto al seno, che lo ringraziava per non so cosa.

Mettendogli una mano sul braccio.
Sorridendo civettuola.
Allungandogli un bigliettino... che lui prese.

Ecco, in quell'istante, mi salì tutto il sangue alla testa e strinsi convulsamente le maniglie del passeggino, ma non potevo esplodere, eravamo in pubblico e non potevo fare scenate; così, da quella stronza che sono, mandai Davide avanti, dicendogli di correre ad abbracciare suo padre e di chiamarlo a gran voce. Il bambino, a cui non sembrava vero di poter fare un po' di confusione in pubblico, si prestò involontariamente al mio gioco, si lanciò addosso ad Ale stringendolo forte, si voltò verso la tizia, la guardò perplesso e le disse era una sconosciuta e che non doveva toccare il suo papà.

Giuro che non lo avevo imbeccato.

Io feci finta di rimproverarlo spiegandogli che la signora in questione per prendersi tutta quella confidenza doveva essere una cliente vecchia (sì proprio in quest'ordine verbale), col risultato che la tizia se ne andò tutta impettita come se le avessero ficcato un palo su per la schiena.

Alessandro mi fulminò con lo sguardo, si innervosì e fece arrabbiare anche me quando con tono alterato mi chiese cosa ci facessimo lì: gli dissi che Davide voleva vederlo, ma non gli svelai che avevo assistito al patetico siparietto di poco prima, tanto lo aveva fregato nostro figlio in un attimo. Inoltre credevo che, affinché io potessi scoprire qualcosa, lui avrebbe dovuto essere sicuro di sè, al punto da commettere qualche errore, almeno così pensavo.

A casa, quando riempii la lavatrice, cercai sui suoi vestiti un qualunque segno, uno sbaffo di rossetto, un capello estraneo, un profumo femminile non mio, ma non trovai nulla, neppure il bigliettino nella tasca dei pantaloni: non so dire cosa mi prese, avevo il panico all'idea che l' "insieme" fosse diventato un singolo pieno di acredine, mi passò davanti tutta la vita e da quel crinale riuscivo a vedere le crepe nei nostri muri. Mi maledissi per aver lasciato perdere troppe cose per troppe volte e speravo non fosse tardi per porre rimedio.

Nei giorni successivi continuai a frugare tra le sue cose, nei cassetti, nel pc, nella sua macchina, nelle tasche dei vestiti che non indossava col timore che li usasse per nascondere qualche prova; iniziai a chiedere dove andasse e con chi, a interessarmi dei suoi orari, capitavo "casualmente" al negozio facendo dei veri e propri blitz, ma non avevo il coraggio di guardare nell'unico posto che mi avrebbe dato un riscontro immediato, cioè il cellulare. Non era una cosa semplice da fare, ce l'aveva sempre addosso per lavoro ed era costretto ad usare una password di sblocco per evitare che i bambini facessero danni quando tentavano di usarlo, così diceva.

Una sera, per puro caso, mentre stava al cellulare,  Marco lo reclamò a gran voce per cui Ale posò il telefono sul tavolo senza bloccarlo: io che gli ronzavo intorno, esitai per qualche secondo prima di approfittarne perché avevo realmente paura di trovare le conferme ai miei dubbi. Alla fine mi feci coraggio, afferrai il cellulare e cercai subito nelle chat qualcosa di strano, ma avevo esitato troppo e lui rientrò in cucina trovandomi col cellulare in mano.

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