2. Chiamami Alex

Non credevo che andare via di casa sarebbe stato così difficile. Avevo vissuto lì per anni senza sentirla casa mia, ma adesso, lasciando tutto lì, era come se stessi abbandonando indietro un pezzo di me, e forse era giusto così. Lasciare un pezzo indietro avrebbe significato conservare degli spazi per i pezzi che si sarebbero aggiunti in futuro.

«Come ti senti?» mi chiese Sarah, durante la sua guida spericolata verso l'aeroporto.

Lanciai un'occhiata fuori dal finestrino. Il mondo sembrava aver acquisito una luce diversa, come se mi volesse dire qualcosa del tipo: «Vai così. Stai prendendo la strada giusta.» Non ne ero sicura, in realtà, ma lo speravo con tutta me stessa.

«Strana.»

Tolse lo sguardo dalla strada e lo posò per un secondo su di me.

«Credo sia normale. È l'agitazione.»

Sí, era l'agitazione, ma non solo quella. Era nervosismo per quello che avrei dovuto affrontare, e poi era adrenalina pura. Non ero mai stata così lontano da casa e soprattutto per così tanto tempo. La UCLA per me rappresentava il sogno di una vita.

«Ti raggiungerò presto, Mel. Resisterai anche senza di me.»

Ma non era il restare senza Sarah il problema. Il problema ero io. Nessuno aveva mai gradito la mia compagnia solo per i miei capelli azzurri o per il mio modo di vestirmi perché lo ritenevano volgare. Quei pochi che desideravano conoscermi scappavano via poco dopo essersi resi conto quanto stronza io fossi. E se fosse stato così anche all'università? Era di questo che avevo più paura. Era stato il dopo di te a cambiarmi e non ero più riuscita a tornare quello che ero prima di te. Forse era questo il punto. Forse dovevo semplicemente smetterla di pensare al prima. Forse cosí le cose avrebbero preso una piega diversa.

«Un anno non è poi così tanto» continuò. «Vedrai che passerá in men che non si dica.»

Arrivammo all'aeroporto in anticipo, tanto che riuscii a sbrigare tutte le pratiche con calma e fui una delle prime persone a salire sul volo per New York. Avremmo fatto scalo lì prima di poter prendere quello successivo per Los Angeles.

Non ero mai stata in aereo prima d'ora, ma non avevo paura, anzi. Non vedevo l'ora di scoprire come ci si sentisse una volta trovati lontani dalla terraferma, con solo l'aria intorno e il cielo sopra la testa.

Ero curiosa, devo ammetterlo, un po' troppo e forse questo era uno dei miei più grandi difetti.

Era buffo, in effetti, il fatto che nonostante tutti i soldi che possedesse la mia famiglia, non avessimo mai viaggiato in giro per il mondo. A mamma piaceva, ne sono certa, ma come tu ben sai, il dopo non è mai più stato come il prima. Credo che l'ultimo viaggio tutti insieme sia stato quello a Venezia, dove quasi cadesti nel Canal Grande per sporgerti dalla gondola, ricordi? Quanto eri buffo!

«Ci stiamo preparando al decollo, pertanto vi invitiamo a controllare che la vostra cintura di sicurezza sia correttamente agganciata e che il vostro sedile sia in posizione verticale. Per ulteriori informazioni circa la sicurezza a bordo, vi invitiamo a leggere l'apposito opuscolo che trovate di fronte a voi, e vi ricordiamo di non esitare a chiedere informazioni agli assistenti di volo. Vi ringraziamo per l'attenzione e vi auguriamo un piacevole volo!»

Ricordo il vuoto provato mentre l'aereo si staccava dal suolo e cominciava a librarsi nel cielo, la sensazione di pace che era susseguita e poi, non so come, mi addormentai.

Quando ripresi conoscenza passò un hostess, dandomi del cibo e dell'acqua per riprendere le forze. La ringraziai e lei mi sorrise, per poi andar via. Avevo dormito per gran parte del viaggio, risparmiandomi quindi la noia che sarebbe giunta dopo poche ore di volo senza sapere cosa fare. Pensai che se ci fossi stato tu sarebbe stato diverso, ci saremmo divertiti insieme e poi, quando mi sarei stancata troppo, avrei appoggiato la testa sulla tua spalla e tu mi avresti accarezzato dolcemente i capelli, come facevi quando eravamo bambini.

Poco dopo passò un'altra hostess con un carrellino ricco di prelibatezze tutte da gustare.

«Desidera qualcosa, signorina?»

Guardai attentamente le pietanze poggiate su quel ripiano d'alluminio, ma niente mi soddisfò appieno. Cosí optai per la cosa più semplice.

«Un caffé, per favore.»

L'hostess annuí, afferrò la caffettiera già pronta e ancora calda e versò un po' del liquido scuro in una tazzina bianca che e viola che ricordava molto Chico, la tazzina de La bella e la bestia.

«Questi li offre la casa» annunciò, porgendomi anche un paio di biscotti infagottati in un tovagliolino di carta.

La ringraziai, poggiai tutto sul tavolino di fronte a me. Lei mi sorrise e mi augurò buon viaggio prima di sparire nell'altro scomparto.

In realtà, i biscotti erano orrendi e sono sicura che quella ragazza non volesse altro che potersene liberare al più presto, cosí li aveva offerti al primo stupido, ovvero io.

Nemmeno dieci minuti dopo ci era stato intimato di allacciare le cinture perché stavano per cominciare le manovre di atterraggio.

Scesi a New York, passai la dogana, mi controllarono i documenti e la valigia e poi mi lasciarono andare; un'ora dopo ero già sul volo per Los Angeles. 

Quando controllai l'orologio, segnava le nove di sera, significava che in California erano le dodici del mattino.

Pensai che la prima cosa che avrei dovuto fare una volta scesa da quell'aereo sarebbe stata chiamare Sarah, la quale era sicuramente in angoscia per me.

Los Angeles era sempre stato il sogno di entrambe, di tutti e tre in realtà. Non so se rammenti quelle lunghe chiacchierate che facevamo la notte nella nostra casetta sull'albero, io le ricordo tutte. E il momento più bello era quello in cui, a fine serata, decretavamo che una volta maggiorenni saremmo partiti tutti e tre alla scoperta delle Americhe. Ho tenuto fede a quel patto fatto da tre bambini ingenui, Sarah lo mantenne un anno dopo e solo Dio sa quanto avremmo voluto che tu fossi stato lì con noi.

Il volo atterrò pochi minuti dopo e solo quando riuscii a recuperare la valigia mi fiondai all'esterno. Notai che il cielo non era limpido come avrei sperato di trovarlo, anzi, prometteva pioggia, e mi chiesi come avessi fatto a non rendermene conto già mentre ero in volo.

Troppi pensieri, mi dissi. Devo svuotare la mente.

Una volta raggiunto il parcheggio dell'aeroporto mi guardai intorno. L'universitá aveva messo a disposizione delle auto per gli studenti che provenivano dall'estero. C'era chi sceglieva quell'opzione e chi invece preferiva prendere un taxi. Dopo aver fatto due conti, decisi che quello era il modo più semplice e meno costoso per raggiungere l'UCLA, cosí diedi il mio consenso. Scorsi tra la folla un uomo che stava agitando un cartello bianco in aria, assottigliai lo sguardo sporgendomi un po' in avanti con il collo.

Iris Vieira
Melissa Calligaris

Avvistato il mio nome sul cartello, afferrai la valigia alle mie spalle e la trascinai fino all'automobile.

«Sei Melissa?» mi chiese l'uomo. Io annuii. «Ottimo, lascia pure a me la valigia. L'altra ragazza è già in macchina.»

Feci come mi aveva detto, gli affidai il mio bagaglio e aprii la porta posteriore a destra per infilarmi nell'abitacolo. Accanto a me era seduta una ragazza molto carina, scura, con i capelli castani e le cuffiette nere nelle orecchie che, gettando uno sguardo al suo cellulare, vidi erano impostate su Thinking out loud di Ed Sheeran.

«Ciao» mi salutò non appena si rese conto che avessi preso posto accanto a lei. Mi ricordai che da quel momento la mia lingua principale sarebbe stata sempre e solo l'inglese e sperai di riuscire a sfoggiarla nel miglior modo possibile.

«Ciao.»

«E cosí anche tu all'UCLA, eh?»

Già. Cosí anche io all'UCLA. Non le risposi, perché era la tipica domanda da cui non ti aspetti una risposta.

«Io studierò economia.»

«Io arte e architettura.»

«Sei un'artista, quindi?»

«Non proprio» risposi, in realtá non ne ero sicura.

Sapevo bene che l'arte aveva uno spazio importante nel mio cuore, che quando disegnavo mi sentivo come se fossi libera da ogni cosa, un po' come se librassi nel cielo. Non sapevo se fossi un'artista o meno, ma amavo l'arte più di ogni altra cosa. Avevo un quaderno che portavo sempre con me e su cui disegnavo schizzi ovunque fossi, per poi completarli nella mia stanza, una volta sola, con il rumore del silenzio a fischiare nelle orecchie e la concentrazione a farmi esplodere la testa.

Il resto del tragitto scorse in silenzio. Iris infilò nuovamente le cuffiette nelle orecchie e io ammirai Los Angeles che scorreva fuori dal finestrino. Decisi che avrei chiamato Sarah una volta raggiunta la mia stanza, così da sistemarmi prima per bene.

Mezz'ora dopo l'uomo aveva parcheggiato nel campus e ci aveva lasciato le nostre valigie augurandoci buona fortuna per il primo anno accademico. La macchina ripartì e poco dopo anche Iris sparì dalla mia vista.

Mi guardai intorno con aria sognante. Il campus era gigantesco. C'erano persone sdraiate sull'erba a studiare, altre appoggiate ai muretti che circondavano l'edificio a parlottare tra loro, altre ancora semplicemente che passeggiavano intorno alla scuola. Sembrava tutto così da favola che per un attimo credetti di star immaginando tutto, ma no, era reale. La giornata prometteva pioggia, ma nonostante questo gli studenti non si perdevano d'animo e approfittavano di ogni secondo a disposizione per stare ancora un po' all'aperto. Avrebbe anche piovuto, ma faceva caldo, e qualcosa mi diceva che anche all'interno non faceva poi chissà quanto più fresco.

Presi un grande sospiro prima di varcare la soglia di quella che avrei dovuto definire casa di lì ai prossimi cinque anni. All'interno tutti sembravano indaffaratissimi, chi cercava di aprire il proprio armadietto, chi si spostava lungo il corridoio con un montone di libri tra le mani, chi si guardava intorno spaesato -come me- e che probabilmente cercava la segreteria, quello che avrei dovuto fare anche io. Camminai per un po' lungo il corridoio principale, trascinandomi dietro la mia valigia fucsia, e alla fine del corridoio trovai finalmente la segreteria. Mi infilai nella stanza e fortunatamente notai che non c'era nessuno prima di me.

«Buongiorno» esclamai avvicinandomi al bancone che faceva da scudo alle segretarie. «Sono Melissa Calligaris, sono appena arrivata.»

«Buongiorno signorina Calligaris e benvenuta in California!»

Sembrava così gentile ed entusiasta che quasi mi dispiaceva farle una delle mie battutine fuori luogo, così tacqui.

«La ringrazio.»

«È qui per ritirare l'orario accademico, immagino.»

«Esattamente.»

«Bene, aspetti un secondo solo, per favore.»

La guardai meglio. Era una donna di mezza età che sapeva il fatto suo. Il volto era rigato dalla vecchiaia e dalla stanchezza, ma a quanto sembrava l'aspetto esteriore non combaciava con quello interiore. Sembrava una donna arzilla e con molta voglia di fare.

Stampò qualche foglio e scannerizzò altri documenti prima di tornare da me e mostrarmi il tutto.

«Questo qui è il suo orario» cominciò, sventolandomi un primo foglio davanti agli occhi, per poi posarli accanto agli altri. «Questa invece è una mappa della scuola. Noi siamo qui» puntò il dito al centro della mappa. «E questi» continuò spostandolo verso la mia sinistra «sono i suoi dormitori. Per arrivarci basta che segua questa strada» la tratteggiò con un evidenziatore verde che prese da un portapenne sul bancone e poi mi fornì la mappa. «Le va di fare un giro della scuola? Le chiamo un ragazzo.»

Perché no?, pensai. Poteva essere una buona occasione per conoscere qualcuno già il primo giorno.

«Certo, mi farebbe molto piacere. Grazie mille.»

«Si figuri» mi sorrise. «Si accomodi pure lì» mi indicò una sedia. «Ora le chiamo qualcuno che la accompagni in giro.»

Annuii prima di ringraziarla ancora un'altra volta e poi seguii il suo consiglio, andandomi a sedere su una sedia in fondo alla sala, accanto alla porta.

Avevo mille cose per la testa, forse troppe. Pensavo alla nuova vita che stava per cominciare, alla fortuna che avevo avuto con i miei, perché se loro non avessero approvato la scelta di partire per la UCLA, non so dove avrei preso i soldi per finanziare il viaggio. Ma erano tutte cose secondarie. Ero lì e potevo godermela.

Andrà tutto bene, mi ripetevo. Il problema è che quando ti convinci che le cose vadano bene, poi vanno in tutt'altro modo.

Un ragazzo entrò in segreteria riscuotendomi dai miei pensieri. Si guardò intorno, sembrava cercare qualcuno e, quando mi vide, mi sorrise e si incamminò nella mia direzione. Non era male, con quei capelli a spazzola leggermente spettinati e la camicia tartan addosso.

«Sei Melissa, giusto?» esordì, porgendomi una mano. Non aspettò nemmeno la risposta. «Io sono Alexander, è un piacere conoscerti.»

«Piacere mio» risposi afferrando la sua mano e stringendola forte. Poi mi alzai in piedi e afferrai la mia valigia per portarla con noi.

«Non preoccuparti per il bagaglio. Ci penserà la segretaria a fartelo recapitare in camera.»

Annuii, felice di non dovermi portare un peso come quello per i corridoi -più che altro per evitare altre figuracce anche davanti ad Alexander- e lo seguii fuori dalla stanza.

«Cosa ti porta alla UCLA?»

«La passione per l'arte» fu l'unica risposta sensata che si formò nella mia mente e anche l'unica che riuscii a esternare.

«Quindi sei qui per studiare arte e architettura, splendido!»

Continuò a parlare per un lasso di tempo che non saprei definire, scorazzandomi di qua e di là per l'istituto, ma non lo ascoltai più di tanto. Dopo qualche svolta a sinistra e poi a destra la mia mente aveva cominciato a vagare da sola sull'immensità di quel posto e su quanto fosse magnifica anche solo l'idea di poter studiare lì. Pensai che ti sarebbe piaciuto, a te piacevano i posti grandi e allo stesso tempo antichi, dicevi che avevano un certo fascino ai tuoi occhi. Ti immaginai vagare per i corridoi con il sorriso impresso sul volto e i libri della giornata tra le mani, ti visualizzai uscire dalla tua aula dando una pacca sulla spalla ai tuoi amici prima di raggiungere la nuova classe. In fondo sarebbe stato bello se fossimo stati ancora insieme, io, tu e Sarah, a girovagare come i tre moschettieri per i corridoi della UCLA.

«E in quell'edificio laggiù ci sono una parte dei dormitori, tra cui il tuo» terminò, ancora con il sorriso sulle labbra.

Mi piaceva quel ragazzo, era gentile e sapeva il fatto suo, magari era il mio primo amico, magari no. Solo il tempo avrebbe potuto stabilirlo.

«Grazie, Alexander. Mi sei stato di grande aiuto.»

Come se avessi ascoltato anche solo una parola.

«Figurati, non c'è problema. Ci vediamo in giro allora, e... Melissa?»

Io che mi ero già incamminata verso l'edificio che Alexander mi aveva mostrato, mi voltai di nuovo verso di lui e incrociai il suo sguardo.

«Chiamami Alex.»

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