Capitolo 66
SETTIMANA DELLA MEMORIA
Frase del giorno: a noi giovani costa doppia fatica mantenere le nostre opinioni in un tempo in cui ogni idealismo è annientato e distrutto, in cui gli uomini si mostrano dal loro lato peggiore, in cui si dubita della verità, della giustizia e di Dio.
Anna Frank
«E lei come fa a conoscere mio padre?» gli chiedo, trovandomi in un momento di grande sconforto.
«E chi non lo conosce qui? È un lavoratore instancabile, e non prova vergogna di fronte a niente e nessuno!» risponde l'uomo mulatto, guardandomi con tenerezza.
«La prego! Mi dica dove si trova! Ho bisogno di vederlo» gli dico, guardandomi freneticamente intorno.
«Mi dispiace deluderti ragazzo, ma non si trova qui» mi dice, grattandosi il mento da cui sporge una barbetta incolta.
«E dove allora?» piagnucolo, fermandomi di scatto: sento il grande desiderio di prenderlo per il pigiama e scuoterlo con forza.
«È andato ad Auschwitz. Penso gli abbiano dato un incarico lì. È così diligente» osserva, ignorando la mia agitazione.
Non rispondo neanche.
Chiudo gli occhi con sgomento, cercando di tornare a respirare regolarmente, mentre sento la mano di Friedrich sulla schiena che tenta di consolarmi.
Nella mia mente, le immagini del fumo grigio che usciva dal comignolo mi gettano in uno stato di disperazione, e non posso fare altro che provare pena per la mia condizione attuale.
Mi allontano, lasciando gli altri indietro, e ripercorro con la mente tutto il viaggio che mi ha portato fin qui.
Dopo una bellissima permanenza nella nostra casa, un giorno papà è uscito per andare ad aiutare, e non è più tornato.
Un soldato ci ha attirato con false speranze nel ghetto, dove di papà non c'era neanche la traccia.
Sono fuggito dal ghetto cercandolo disperatamente, e mi sono ritrovato in un bosco dove sono stato accolto con calore da tanti ragazzi.
Ho rischiato in più di un'occasione la mia vita per tornare nel centro città, mi sono sforzato fisicamente e per un pelo non sono morto.
Ho avuto un'insolita permanenza nell'ospedale, ho viaggiato con la mente, ripensando a lui, e ho controllato ripetutamente la cartina della città per trovare una nuova strada.
Mi sono innamorato, ho raggiunto finalmente la maturità e mi sono assunto molte responsabilità, e in tutto questo arrivo ad una conclusione che mi destabilizza: il fallimento non era contemplato.
Ho cercato disperatamente papà con la consapevolezza che avrei ricostituito la mia famiglia, ma non avevo mai ipotizzato che le SS avessero potuto fargli molto male.
Me lo immaginavo prima a casa di un vicino per riparare qualche mobile, poi nascosto nel ghetto, e infine risucchiato dalla terra ariana, e tutto sembrava così verosimile che ho costruito un mondo surreale.
No, Uri.
La vita non è fatta solo dal rifugio, da Alexander, dalla cara Anja, da Malka e Sarah e dalla tua famiglia.
La vita non è un vasto mazzo di carte fortunate.
La vita, qui, è principio di morte, e la morte forse è vita.
Mi sento così distrutto che ora, dopo tanto, faccio una cosa inaspettata: prego.
Ed è in mezzo al viale che porta alla baracca di Monowitz, dando le spalle all'uomo mulatto e al controverso Friedrich, che un ragazzino quasi maggiorenne giunge le mani in preghiera, muovendo confusamente la testa.
Il ragazzino piange, crolla in ginocchio.
I due spettatori lo raggiungono, cercando di sollevarlo, ma lui continua a pregare Dio perché i suoi cari siano vivi.
Prega per i fratelli, per la mamma e per il padre.
Prega per Sarah e Malka, chiuse ad Auschwitz.
Prega per Anja, costretta a subire le violenze del padre.
Prega perché Dio abbia pietà delle anime dei poveri orfanelli, quei corpi candidi a cui non è stata data sepoltura.
Ma soprattutto prega che un kapò arrivi e lo punisca per il suo gesto.
Un colpo sulla schiena, un altro colpo basterebbe per stroncarlo, un punto bene assestato.
Se non lo farà, allora ci sarà sempre l'alternativa del filo spinato: i nazisti non avranno la soddisfazione di bruciare il suo corpo come stanno facendo con gli altri.
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