Capitolo 64
SETTIMANA DELLA MEMORIA
Frase del giorno: meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi.
(Primo Levi)
Torno dolorante nella stanza, cercando disperatamente di prendere sonno.
Il vociare degli uomini nella baracca concilia in parte il mio sonno arretrato, ma il piccolo spazio mi distrugge.
I miei compagni sono scesi per far sì che io possa mettermi più comodo, e gliene sono grato, ma, a meno che un dottore non mi visiti, suppongo che i dolori non mi daranno scampo.
A ciò si aggiunge anche il senso di ripugnanza e di preoccupazione per Malka e Sarah, che in questo momento sono tutta la mia famiglia, ma anche per Amos, Yona e sì, anche per mia madre.
Ancora vedo il mio fratellino chiuso nella macchina che veniva portato chissà dove, e io impotente venivo massacrato sotto quella che era stata una stupenda abitazione, sede di ricordi felici e ricche speranze.
«Ecco la cena» esordisce qualcuno.
Apro gli occhi, e noto che davanti la porta è stata poggiata una pentola.
Tutti prendono una piccola quantità, attingendo con una scodella. Queste non sono sufficienti per tutti, pertanto i miei compagni sono costretti a scambiarsela.
«Dai, ti fa bene» mi dice Yaacov, porgendomene un po'.
Cerco di mettermi a sedere con cautela, mentre lui pazientemente tiene tra le mani la scodella.
Lo ringrazio, e la porto alle labbra, con estrema ingordigia, tanto che delle gocce scendono sulla divisa a righe, macchiandola.
Non commento per educazione, ma il mio primo istinto è quello di emettere un verso schifato.
Evidentemente lui deve notare il mio disappunto, perché mi risponde: «puoi dirlo se fa schifo. Tutti lo pensano».
Mi porge una fetta di pane, e io lo divoro, se possibile, con ancora più gusto.
«Sembra acqua sporca. In una pentola di acqua di fiume devono aver messo succo di pomodoro» commento, suscitando una sua lieve risata.
«Questo è ciò che offre la casa» risponde, lasciandomi di nuovo da solo.
Il freddo, intanto, mi costringe a rimanere rannicchiato.
Dopo poco, prima Friedrich e poi Adam salgono sul letto a castello, e sono costretto a sdraiarmi insieme a loro, cercando di trovare una posizione più comoda.
Supino, prono, di lato: le provo tutte, ma ogni mio tentativo risulta vano.
«Ragazzo, se non ti fermi ti caccio a pedate dal letto» mi rimprovera Adam dal lato destro.
Ignoro il suo commento, ma il desiderio di poter chiudere gli occhi è tale da gettarmi in uno stato di disperazione.
Così, decido di scendere.
Indosso di nuovo gli zoccoli e inizio a passeggiare per la baracca, dove tanti letti a castello accolgono gente nelle mie stesse condizioni.
Alcuni cercano di dormire, ma altri continuano a mangiare.
C'è anche chi non lascia neanche una goccia nella pentola, e chi parla tristemente.
Considerando la quantità di baracche e di letti a castello in esse contenute, mi chiedo effettivamente quante persone siano state portate qui a Monowitz.
Cammino, fino a quando non decido che è arrivato il momento di chiudere seriamente gli occhi.
Alcuni mostrano terribili ferite, e mi chiedo se non ci sia effettivamente un'infermeria, ma soprattutto vorrei capire cosa abbia provocato tanti infortuni.
«Forza, puoi farcela» mi dico, risalendo.
«Dormi, ragazzo. Dormi, che domani la tua sveglia suonerà molto presto, ma soprattutto riposa il tuo corpo minuto, perché domani inizierà il vero inferno» mi dice Adam, per poi iniziare a dormire profondamente.
Tento di non pensarci, anzi, sfrutto le sue lamentele per concentrarmi finalmente sulle braccia di Morfeo: un piccolo passo e sarò arrivato.
Per lo meno, ora sì che posso riposarmi.
Le palpebre si fanno pesanti, e a mano a mano i rumori delle rotaie, i miei capelli a terra e il fumo grigiastro del campo di Auschwitz si fanno lontani e indistinti.
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