Capitolo 6
La luce del sole si insinua prepotentemente tra le mie palpebre mentre, dopo giorni di reclusione, cammino finalmente per il ciottolato davanti la casa di Alexander che, pur nella sua fragilità, sta diventando anche mia.
Tutti i ragazzi corrono inseguendo un pallone sgonfio e ammaccato, mentre le ragazze leggono sotto l'ombra del grande albero che funge da riparo dal sole cocente nei mesi più caldi.
Olly, che in questo periodo ha imparato a far da conto e a svolgere le mansioni domestiche basilari, si fa qualche treccina, sfruttando la lunghezza dei suoi capelli setosi, mentre Alexander, che nella sua severità rimane pur sempre un solido punto di riferimento, assiste alla scena con un sorriso sghembo, soddisfatto di ciò che è riuscito a mettere su.
Lo guardo dalla sedia in fibre vegetali.
Si volta verso di me, con quello sguardo che dice "scusa, ma ho dovuto".
Scuoto la testa, facendogli capire che ho condiviso la sua decisione di "segregarmi" in una stanzetta per giorni, e torno ai testi che tengo gelosamente tra le mani.
Tra la copertina e le pagine ruvide di un libro tengo nascosta la mappa della città.
Ho già messo una X bella grande sul ghetto, su Alexander Platz e su tanti altri quartieri in cui ho cercato mio padre, i cui esiti non sono stati di certo soddisfacenti.
Rivolgo nuovamente lo sguardo verso Alexander, che ora è preso da Zehava che, maldestro come è, è caduto a terra, procurandosi una bella storta alla caviglia.
Continuo a guardare l'anziano, questa volta con uno sguardo pieno di scuse.
Se fossi costretto a parlare di tutti i motivi per cui mi sento in dovere di porgergli le mie più sincere scuse, l'elenco sarebbe sicuramente molto ampio.
Scusa se sono scappato più volte.
Scusa se ho rubato uno dei tuoi libri.
Scusa se non sono stato sincero riguardo la mia identità.
Scusa se non ti ho parlato della mia famiglia.
Scusa se non mi sono aperto nonostante la tua onestà.
Scusa se non sono stato in grado di proteggere Bar.
Scusa se ho questa maledetta vocina in testa che mi dice di essere previdente.
Scusa se non ti ho mai ringraziato direttamente per il tuo sacrificio.
Scusa se non ti ho rivelato di provare ammirazione nei tuoi confronti.
Scusa se ti ho messo in pericolo facendomi scovare da un nazista.
Scusa se ho intenzione di continuare a scappare per trovare mio padre.
No, sarebbe un discorso decisamente troppo lungo, così mi limito a tenere i miei pensieri e la mia ingratitudine per me mentre ripercorro mentalmente le strade per le quali mio padre era solito passare.
Muovo il mio indice sulla carta fino a quando non mi concentro sulla zona meridionale della città, vicino questo fitto bosco.
Bingo! La tipografia!
Mio padre era solito andarci per stampare e mettere in commercio le sue perle, e quale luogo può essere più sicuro di un vecchio locale abbandonato?
Mi alzo frettolosamente, nascondendo la mappa nella mia giacca, e invento un escamotage per sfuggire all'interrogatorio di Alexander e passare inosservato.
«Potrei andare per qualche minuto nel bosco? Sai, ho voglia di prendere un altro po' d'aria e di riflettere.»
Mi osserva pensieroso, pesando le mie parole.
«Se questo Saul riflessivo vuole ritirarsi nel bosco, che bosco sia. Ma bada bene: ti terrò d'occhio a distanza, e ti voglio qui tra massimo un'ora.»
Lo ringrazio e, facendo attenzione a nascondere la stella, cammino verso Niederkirchnerstrasse.
Percorro un breve sentiero tra gli alberi e, quando sono sicuro di non essere stato seguito da nessuno, esco dalla strada.
Sto per attraversare un masso quando vengo distratto da un rumore, una sorta di calpestìo che viene nella mia direzione.
Mi giro terrorizzato quando il soggetto cade in un cespuglio e sussurra "diamine".
«Cosa diamine ci fai qui?» chiedo a Zen, aiutandolo a togliersi le foglie dai vestiti puliti.
«Volevo capire le tue intenzioni, piccolo combinaguai» mi apostrofa, puntandomi un dito contro.
Sto per ribattere, quando mi blocca con la sua mano ossuta.
«... e non inventarti scuse» sottolinea.
Sbuffo rassegnato e gli racconto per sommi capi la mia storia, l'apparente scomparsa di mio padre e il mio desiderio di ritrovarlo.
Nel frattempo, siamo arrivati nella strada della tipografia.
Ci guardiamo intorno, insospettiti da questa insolita calma.
Zehava mi rivela di non aver messo piede nella città per mesi, e più precisamente da quando ha assistito alla cruenta fucilazione di sua sorella, la cui vita ribelle è stata stroncata dalla macchina da guerra nazista.
Gli poggio la mia mano sulla spalla per dargli conforto, notando un certo terrore nei suoi occhi.
«Andrà bene, vedrai» lo incito, mentre continuo a guardare con attenzione ogni edificio.
Sono tutti anneriti, instabili, pieni di storie da raccontare, ma con poche bocche che possano condividerle.
Assorto nei miei pensieri mi accorgo di avere appena superato una porta dorata, con quell'insolito campanellino che accoglie ogni cliente.
Oggi, però, quel campanellino non suona; è mosso solo dal vento e da un'aria ricca di presagi sinistri.
Appoggio la mia mano sul vetro appannato, guardando dentro con attenzione.
«Forse dovremmo andarcene» suggerisce Zen, con un insolito panico.
«Un attimo...» gli rispondo, guardando con cura nell'abitacolo.
Sobbalzo quando un signore anziano si mostra a me dall'altro capo della porta, con un'aria sommessa e il viso scarno.
Zen si porta la mano davanti la bocca quando nota il suo corpo esile, ma d'altronde non ero poi tanto diverso quando sono entrato nel rifugio degli orfanelli.
Mi guarda con terrore mentre apro con forza la porta per raggiungerlo.
Prima che però io possa spalancarla del tutto, l'uomo la richiude, facendomi cenno di rimanere in silenzio.
Tuttavia, la mia curiosità prevale su qualsiasi preghiera, così inizio a parlargli.
«Cosa ci fai qui?» gli chiedo. Solo il vetro mi divide da quel triste spettacolo.
«Mi sto nascondendo, non voglio salire sul treno» mi spiega, con gli occhi gonfi di lacrime.
«Quale treno?» gli chiedo, confuso.
Tuttavia non arriva nessuna risposta.
L'uomo si limita semplicemente a pregare.
Lo affianco, con un sorriso sghembo.
«A... allora anche tu sei ebreo» balbetta.
«Sì. E sto cercando mio padre. Almeda» gli spiego, sperando che il cognome gli sia familiare.
Ha però una reazione inaspettata: spalanca gli occhi, e quasi sobbalza.
«Scappa dal treno» mi strilla, per poi abbassare le serrande.
Tiro pugni alla porta, ma il signore non si fa vivo.
Posso solo prendere il campanellino, come ricordo di un'altra tappa deludente, e riprendo con Zen la strada del ritorno.
Cantiamo con una nostalgica rassegnazione, mentre suono il campanellino a tempo.
Cantiamo perché vogliamo sostituire all'amarezza qualcosa per cui essere felici.
Cantiamo perché vogliamo scappare dai pericoli e dalla conseguente angoscia.
Cantiamo per allietare la mia giornata pesante, la sua giornata pesante e quella del mondo che ci ascolta e soffre con noi.
Cantiamo per commemorare i nostri cari, per riportarli in vita e allietare anche la loro giornata pesante.
Cantiamo perché i burattini potranno toglierci tutto, ma non la voglia di cantare a seguito di una giornata pesante.
O forse sì.
Qualcuno inizia a seguirci.
Non so da quanto lo stia facendo, non so dove sia o chi sia, so solo che, dopo aver sentito le sue scarpe che calpestano le foglie secche, abbiamo smesso di cantare.
Conduco Zen verso quella cava che mi è stata tanto d'aiuto, e vediamo passare un terribile soldato con un fucile e la sua capigliatura a spazzola, impeccabile.
Tappo la bocca di Zen per evitare che il tedesco ci senta con i suoi respiri profondi e sconnessi, e, dopo che sono sicuro di averlo seminato, lo guardo con tristezza.
Ho trovato un'altra persona a cui è necessario porgere le mie scuse.
Mi prende le guance mentre inspira ed espira con stanchezza.
«Ora basta. Smettila. Non prenderti compiti che non si addicono ad un ragazzo della tua età, Saul.»
«Uri» lo correggo.
Scusa se non ti ho rivelato il mio vero nome.
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