Capitolo 56

Uri,
cavolo, possibile che io debba scriverti su un pezzo di carta delle informazioni tanto riservate?

Perché le tue labbra non si muovono più? Voglio sentire la tua voce almeno una volta.

Ho la schiena appoggiata alla tua porta, in attesa che tu ti decida ad aprirla, e se cascherò... beh, almeno avrò modo di vederti da un'altra prospettiva!

Adesso che sono convinta che non hai voglia di parlare, io, che invece di cose ne ho da dirtene, mi sto accingendo a scriverti, che ti piaccia o no, nella speranza che la mia calligrafia sia comprensibile.

Da dove voglio partire?

Ecco, iniziamo dal fatto che, fino a poco tempo fa, non avevo avuto assolutamente la certezza che tua madre fosse stata vittima di vessazioni e abusi da parte di mio padre, sia perché tu non hai mai voluto aprirti con me su questioni famigliari, e sia perché mio padre e io passavamo tanto di quel tempo fuori casa che quasi non ci conoscevamo più.

Poi, quando l'ospedale è stato chiuso, ed io ho iniziato a fare viaggi da casa a questo appartamento, ho capito tante cose: ho capito che, anche se fossi rimasta per più tempo lì, non lo avrei visto, che mia madre non era più lucida come un tempo, e che mio fratello aveva deliberatamente smesso di andare a trovarli.

Ho tentato di parlare con mia madre, ma tutto quello che mi mostrava era tristezza, rabbia e gelosia.

Così, quando lei un giorno è uscita per incontrare delle amiche, io mi sono resa artefice di due crimini: ho rubato un po' dei nostri prodotti per portarveli, e ho curiosato nello studio di mio padre.

Per la fretta ho scartato molti documenti, ma ciò che mi premeva era il fatto che avesse fascicoli, articoli e appunti sul ghetto di Berlino.

Non volevo parlartene senza averne certezza, ma ho deciso di trattare l'argomento con circoscrizione con mia madre.

In conclusione, mi ha esplicitamente rivelato che usava quel posto per rimettere in piedi la sua vita coniugale.

Speravo fosse uno scherzo, e anche lei non era più di tanto convinta, ma i documenti c'erano, le loro conversazioni anche.

Poi, la conferma quando Amos ha nominato il suo nome.

Non potevo essere certa che, tra tutti gli Alfred del ghetto, lui potesse essere effettivamente mio padre, ma le sue parole pronunciate ingenuamente e il tuo sguardo turbato mi hanno dato la conferma.

Uri, tu sei tutto per me. Siamo due ragazzini alle prese con l'amore, ma tu non puoi neanche immaginare quanto il mio unico desiderio in questo momento sia catapultarmi tra le tue braccia, perché anche io sono più amareggiata di quanto pensi.

Non penso che scriverlo su un foglio di carta sia prudente, ma continuo a bussare, e tu non vuoi venire.

Uri, Yona sta bene! Hai maledettamente dimenticato l'incontro, così sono andata al posto tuo.

È un ragazzotto in gamba, tanto che non voleva fidarsi! In seguito gli ho rivelato tanti aneddoti su te e Amos, e l'ho convinto a seguirmi. È a casa di mio fratello: il poverino è rimasto sconsolato, ma a quanto pare io e te siamo stati fortunati.

Non l'ho portato da te perché temo che lo spazio non sia sufficiente, e prima o poi, se mio padre non se ne accorgerà da solo, qualcuno farà la spia.

A questo punto, Uri, io non so più cosa fare. Non so dove portarvi, ma so solo che i giorni nell'appartamento sono contati.

Comunque, appena avrai voglia di parlarmi, devo darti delle informazioni estremamente delicate: Uri, si tratta di Alexander.

Parlami quanto prima. Io, nel bene e nel male, non ti lascerò andare.

Anja

Chiudo con mani tremanti il biglietto, e lo ripongo nella giacca.

Da fuori devo sembrare un pazzo, perché guardo insistentemente nel vuoto, con gli occhi gonfi di pianto e il volto sicuramente pallido.

Penso alla sua innocenza, a come l'ho lasciata sola in una situazione tanto sconvolgente, e non posso fare altro che tirarmi i capelli e mordermi le mani.

Vorrei con tutto il mio cuore strillare, ma non posso.

Incrocio lo sguardo di Sarah, che corre da me e si abbassa alla mia altezza.

«Uri, cosa ti prende?» mi chiede.

Anche lei ha gli occhi gonfi di pianto, e non voglio neanche lontanamente immaginare di cosa abbia parlato con Malka.

Non riesco a rispondere: tutto quello che faccio è piegare le gambe, portarvi le braccia intorno e chinare il capo.

Il dolore all'addome e alla schiena, ora, è secondario.

«Voglio solo aiutarti. Sfogati con me» insiste Sarah, poggiando la sua mano sulla mia spalla.

«Ho letto la lettera di Anja» dico in un sussurro, rimanendo in questa posizione.

Il mio tono di voce è abbastanza alto perché lei possa sentirmi.

«Ho capito» risponde, sfregando energicamente la mano sul mio collo per rassicurarmi.

Decido di rimettermi a sedere.

Ci guardiamo, fino a quando lei non mi abbraccia con forza e decisione.

«Non so come potrei perdervi, siete le donne della mia vita» ammetto, e lei torna a guardarmi con un sincero sorriso.

Mi sento più sollevato, fino a quando non torno ad avere la cognizione del tempo e dello spazio, e, guardandomi intorno, vedo Malka che, tra la gente, è sinceramente provata.

«Qualcuno ha bisogno di più affetto di me» le dico, e lei, insicura, torna dalla mamma.

Non riesco a trovare Sami, ma ci sono tante storie che catturano la mia attenzione.

Esattamente davanti a me, una donna anziana sistema il suo cappotto: è una donna raffinata, di classe, ma i suoi capelli sono eccessivamente scompigliati.

Alla mia destra, invece, una mamma allatta il figlioletto. Faccio uno sguardo imbarazzato, ma lei, forse abituata, mi fa un leggero sorriso.

Il bimbo tenta di aggrapparsi al suo petto, ma, per quanto un uomo possa capirne, intendo che la mamma non può dargli latte a sufficienza.

Davanti a me, la confusione: tantissima gente parla in maniera caotica, chi discutendo, chi parlando amabilmente, chi piangendo.

Essendo l'unico ragazzo seduto, mi rimetto in piedi, e noto sin da subito che non c'è abbastanza spazio per una simile folla.

Noto gente con il volto tumefatto, uomini ebrei che portano orgogliosamente la Stella di David, amiche di lunga data e coppie innamorate.

Io, invece, questo misero ragazzino che ormai ha quasi raggiunto la maggiore età, rimango in disparte, torturato dai dolori, dai pensieri, dai ricordi e dai sensi di colpa.

Sono un mero spettatore della scena che mi si mostra davanti, desideroso di mettere fine a questo supplizio.

I nazisti possono farti questo e altro: possono farti del male fisico, prosciugare le tue forze, umiliarti, usarti a loro piacimento, torturarti, violentarti, derubarti, ma anche privarti di quel briciolo di buon senso che ti resta.

Io, in questo vagone, sono costretto ad arrendermi di fronte alla loro maestria.

Ci siete riusciti, bravi, complimenti!

Voglio spararmi un colpo qui, dritto sulla tempia, e se voi non lo farete per conto mio, allora ci penserò da solo a mettere fine a queste disgrazie.

Sono stremato, e i morsi della fame e della sete iniziano a farsi sentire.

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