Capitolo 53
«Uri!» strilla Amos, mentre io sento un vuoto nel momento stesso in cui il mio piccolo fratellino mi viene sottratto.
«Lasciatelo!» strillo contro i soldati che accompagnano Albert, mentre tengono per conto loro Amos.
«Friedrich, portalo in auto» fa segno Albert al collega, indicando una Aston Martin curata con un'attenzione maniacale.
«Non ve lo permetto! Datemi mio fratello!» continuo ad appormi, tentando di raggiungerlo.
I loro magheggi mi stanno snervando: stanno cercando di farci giocare ad un gioco infantile, in cui le loro mosse astute ci rendono pedine irrisorie.
«Tu stai fermo» mi fa segno Albert.
Vedo Amos che viene portato con forza nell'auto, e quasi sento sulle mie mani la morbidezza delle sue guance irrigate dalle lacrime che sanno di paura e solitudine.
Cerco di liberarmi dalla presa di Albert, ma basta una frazione di secondo prima che la Aston Martin parta in tutta velocità.
Vedo Amos da dietro il finestrino: la sua piccola mano lascia un'impronta sul finestrino, da cui si nota un sottile alone di condensa.
Insisto, spingendo questo bastardo con tutte le mie forze, ma lui mi tiene a bada, portando la mano sul mio collo.
Nel giro di pochi secondi di sicuro divento cianotico, mentre continua a scuotermi.
Guardo il suo volto imberbe, che sorride soddisfatto della sua caccia, come un animale sazio del suo pasto dopo essersi rifocillato a dovere con la carcassa di un animale indifeso.
Cerca di rafforzare la presa, ma basta un pugno nello stomaco perché io cada a terra, privo di sensi.
***
«Ciao Uri, vedo che non sei messo molto bene» mi dice qualcuno.
Sento solo il calore prodotto dalla sua mano sulla mia schiena.
Cerco di ragionare, non riuscendo ad aprire gli occhi.
«Chi sei?» chiedo, ma le corde vocali producono un suono che assomiglia vagamente alla mia voce: è flebile, fin troppo insicura, quasi balbetta.
Mantengo la calma, e inizio a ragionare: apparentemente sono fermo, e a giudicare dalla morbidezza al tatto dovrei essere sdraiato sull'erba.
«Ora non riconosci più un vecchio amico?» insiste la voce, e mi basta sforzarmi un poco per capire che un uomo mi sta parlando.
Apro definitivamente gli occhi: è sera, il sole tramonta tra gli alberi del bosco, e davanti a me Alexander mi guarda con curiosità.
«Tutto bene, campione?» mi chiede, ed io annuisco, mentre con difficoltà mi metto a sedere.
«Cosa succede?» chiedo, avendo perso la cognizione del tempo e dello spazio.
«Succede che sei così ingenuo da credere di poter fare l'eroe anche in situazioni di difficoltà, ecco cosa succede» risponde Alexander, mentre la vista del "rifugio" nello sfondo mi infonde un'insolita sicurezza.
«Uri, devi capire che non sarò sempre con te. Non sono io il tuo angelo custode, e hai abbastanza intelligenza da poter capire che sei una misera mollica nella profondità del mondo. Devi imparare ad affrontare situazioni di difficoltà in maniera autonoma» mi spiega.
In questo momento, mio malgrado, non presto la dovuta attenzione alle sue parole: sono troppo concentrato ad osservare il luogo che mi circonda.
«Dove sono i ragazzi?» chiedo, iniziando a camminare freneticamente.
Questo è sicuramente un luogo ideale, pieno di pace e collaborazione, ma nonostante la sua indubbia accoglienza l'assenza degli "orfanelli" mi getta in uno stato di terrore ingestibile.
«Uri, non possiamo più vederci» dice Alexander.
Mi volto con sorpresa, osservandolo.
«Cosa dici, Alexander? Io ho bisogno di te. Ho bisogno di confrontarmi, di ricevere qualche consiglio, di sentirmi spalleggiato!» lo imploro.
Vista l'assenza di mio padre, Alexander è l'unica figura in cui posso riporre la mia più completa fiducia.
«Io non ti sto dando proprio nessun consiglio, Uri: stai facendo tutto tu. Sei un ragazzo straordinario, dall'indubbia intelligenza. Sei troppo spontaneo e istintivo, questo sì, ma non posso biasimarti per questo. Vivi nell'illusione che ci sia una forza soprannaturale a regolare le tue azioni, ma ricorda che tu sei l'unico artefice della tua vita, e in quanto tale hai la capacità di fare tutto ciò che vuoi» mi spiega Alexander.
Sento un sapore amaro nel palato: è la consapevolezza che oggi ho dato il mio secondo addio non solo ad Amos, ma anche alla mia ultima ancora di salvezza.
***
«Si sta muovendo!» dice qualcuno, apparentemente un uomo.
«Grazie al Cielo! Sia benedetto Dio per la sua bontà!» risponde una donna.
«Allontanatevi, fatelo respirare! Ha bisogno di aria in questo ambiente malsano!» rimprovera un altro uomo.
Mi muovo appena, e le palpebre si alzano automaticamente.
Impiego un po' ad abituarmi al buio, dato che qui penetra un solo, misero raggio di luce.
Non riesco a muovermi, ma noto appena le sagome di alcune persone che mi fissano.
«Amos, dove sei?» chiedo, muovendo appena la mano per tastare lo spazio affianco a me.
«Tesoro, qui non c'è nessuno con questo nome. Chi cerchi?» chiede la signora che si era preoccupata per il mio stato di salute: è una donna attempata, che tiene tra le sue dita un maglioncino fatto a mano.
«Mio fratello. Dov'è Amos? È qui, vero? È un bambino piccolo, di otto anni, con i capelli e gli occhi scuri. Oggi aveva un cappotto. Come fate a non vederlo?» chiedo, in uno stato di delirio.
So benissimo cosa è successo: mi sono bastati due minuti per capire cosa sia successo, ma mi rifiuto di ammettere che Amos mi è stato portato via.
Loro non rispondono, evidentemente a disagio.
Cerco di mettermi a sedere, ma una fitta lancinante all'altezza dello stomaco e dei reni mi costringe a tornare supino.
«Calmo, ragazzo. Non tortutarti ulteriormente. Come ti chiami?» mi chiede un signore nuovo, che fino ad ora non si è pronunciato.
Parlare nella mia lingua madre mi infonde coraggio, così come la kippah e la lunga barba bianca.
"Un rabbino? Caspita, non ne vedevo da un po'" mi dico, facendogli un debole sorriso.
Un dosso mi fa gridare dal dolore.
«Calmo ragazzo, rimani sveglio! Come ti chiami?» insiste il rabbino, toccandomi i capelli.
«Sono Uri» dico, continuando a strillare per il dolore ai reni.
«Ottimo, ragazzo! Io sono Samuel, ma tutti mi chiamano Sami. Cosa ti fa male?» mi chiede, continuando ad accarezzarmi i capelli: la sua voce è calda e sincera, rassicurante direi.
«Ho male alla schiena e alla pancia» dico con il respiro pesante, seguito da un altro strillo per via del mezzo di trasporto che continua a sussultare per la strada.
Rimango sdraiato, realizzando che finalmente il gioco di Uri e Saul è terminato, e gli orfanelli del rifugio possono riposare in pace.
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