Capitolo 48

La gioia di Malka davanti alla vista di mio fratello è stata indescrivibile: lo ha tirato a sé, lo ha riempito di baci, lo ha tenuto stretto fino a quando non gli è quasi mancato il fiato e lo ha riempito di complimenti.

Sono convinto che Amos nei giorni a venire proverà un ingestibile senso di nostalgia, ma la presenza di una figura materna come Malka gli tirerà su il morale.

Lei lo ha aiutato a darsi una sciacquata, ma lui le ha detto espressamente che il suo aiuto non era necessario: è un ragazzo grande ormai, talmente grande da riuscire a lavarsi di dosso tutta quella sporcizia che si è attaccata magneticamente a lui.

Quanto a Sarah, la sua reazione non è stata da meno: lo ha baciato con affetto, lo ha stretto e gli ha accarezzato il viso emaciato.

Ho notato una certa commozione da parte di Sarah: aveva gli occhi lucidi, ma non sono riuscito a capire se fosse gioia o tristezza.

Anja è ancora qui, nella nostra stupenda e vivace casa, e confabula con Sarah nel corridoio: mi stupisce vederle conversare così amabilmente, ma sono contento che stia nascendo una pseudoamicizia.

Malka siede in cucina come sempre, mentre Amos disegna sui fogli che gli ho prestato, quelli dove tutt'oggi scrivo le mie lettere senza destinatario. Ho una scatola piena di fogli su cui ho impresso i miei pensieri più reconditi, dall'astio alla gioia, dall'amore alla tristezza.

«Guarda, Uri! Questo è il gatto a cui davamo da mangiare nella vecchia casa!» mi dice, mostrandomi con orgoglio il suo disegno.

«È bellissimo piccolo, però non devi strillare!» lo ammonisco, facendogli segno di tacere.

«Perché no?» mi chiede, tenendo la testa china su un altro foglio dove si accinge a disegnare altre immagini.

«È un gioco, Amos, solo un gioco. Chi parla con il tono di voce più basso vince» gli dico.

Non può vedermi, tanto è concentrato, ma non posso fare nient'altro che guardarlo con apprensione e portarmi una mano sugli occhi stanchi.

Guardo Malka, anche lei evidentemente spossata e provata dalle emozioni degli ultimi giorni: mi sorride tristemente, alza il pollice per mostrarmi la sua approvazione, e torna a concentrarsi su Amos.

«Forte! Così?» mi chiede, esercitandosi a parlare a bassa voce.

«Esatto! Ho sempre detto che sei un campione eccezionale» mi complimento.

Ora che Malka intrattiene Amos, finalmente posso prendermi del tempo libero: è stata una giornata impegnativa, e l'ansia che potesse succedere qualcosa di brutto a mio fratello, o che non si presentasse, continua a divorarmi lo stomaco.

Sento che è arrivato il momento di sfogarmi con la mia più grande amica: la carta.
D'altro canto, di disturbare Anja o Sarah non se ne parla proprio, e il silenzio è una costante in questa casa.

Mi dirigo verso il corridoio, ma prima di attraversarlo mi fermo ad origliare, volendo sapere cosa si stiano dicendo quelle due.

«E lui cosa ha detto?» chiede Sarah, tenendo le braccia conserte.

«Cosa vuole aver detto? È prostrato e amareggiato. Al pensiero per la chiusura dell'ospedale si è aggiunto anche questo!» risponde Anja.

L'ospedale ha veramente chiuso! Accidenti, non lo sapevo! Tutto mi sarei aspettato tranne una chiusura così repentina! Quelle marionette hanno come sempre ubbidito agli ordini del loro burattinaio.

«Capisco che sia difficile. È un momento particolare per tutti, ma non può colpevolizzarsi. È stato suo padre, lui cosa avrebbe potuto dire? Avrebbe forse potuto trattenerlo?» insiste Sarah, e io capisco sempre meno cosa stiano dicendo.

«Non è tanto il senso di colpa che lo travolge quanto il ribrezzo. Io, si intende, non la penso diversamente: è sempre stato un bastardo, ma mai mi sarei immaginata una caduta di stile come questa! E il peggio è che lui non sa niente!» si altera Anja.

Mi distrugge vederla così preoccupata, ma voglio capire di cosa stiano parlando.

«Devi dirglielo, ha il diritto di saperlo! Capisco la vergogna e il timore di perderlo, ma questo è un affare serio! Stiamo pur sempre parlando della sua famiglia» le spiega Sarah.

«Cosa dovrei dirgli? "Sai caro, non ti ho detto la verità su mio padre". Oppure "mia madre vorrebbe vedere la tua morire perché le ha rubato il marito". Ah, no, ci sono! Magari posso partire con il dirgli che mio fratello sa tutto su di noi!» insiste Anja con sarcasmo.

Riesco a cogliere solo pochi frammenti, ma spero vivamente che io non sia direttamente coinvolto nella questione.

La mia amica d'infanzia sta per ribattere quando, avendo notato la mia ombra dal soggiorno, si blocca con terrore.

Fa segno alla Tedesca, e lei si gira.

«No, Uri, no, no! Ti prego, dimmi che non ce l'hai con me!» mi dice, tentando di abbracciarmi.

«Di cosa stai parlando, Anja? Perché dovrei avercela con te?» le chiedo.

Tento di contenermi, ma Sarah ormai è abituata alle nostre effusioni: rimugina solo sul passato, su quanto Shimon sarebbe potuto essere un compagno simpatico e amorevole, e continua a chiedermi dei dettagli.

Nella mia ingenuità sorrido ad Anja, accarezzandole il volto con una mano.

«Uri, ci sono delle cose che devi sapere. Non posso guardarti negli occhi senza averti detto la verità» mi dice.

Io la osservo pieno di amore, ma a mano a mano che prosegue il suo racconto il mio sorriso svanisce. Chiudo gli occhi, annuendo: sento solo poche parole, ho già ascoltato abbastanza.

Lei cerca di prendermi la mano, di provocare in me una qualche reazione, ma la mia espressione non lascia trapelare nessuna emozione.

Rifletto su ciò che la sua bocca dice con tanto rammarico.

«Non lo sapevo, Uri. Te lo giuro!» si giustifica, iniziando a piangere.

Dal soggiorno sento Amos che, preoccupato, chiede cosa stia succedendo a Malka, continuando il suo curioso gioco del silenzio.

Qui, invece, sento solo i battiti irregolari del mio cuore.

«Ti prego, dimmi qualcosa! Qualsiasi cosa, amore mio, qualsiasi! Non lasciarmi questo senso di colpa!» insiste.

Sarah non interviene, ma non serve aprire gli occhi per capire che ci osserva con apprensione, sopraffatta dal desiderio di intervenire.

«Va bene. Va benissimo. Le chiavi di casa sono lì: o esci te, o me ne vado io. Io e te non abbiamo più niente da dirci» le dico senza guardarla.

Lei continua a implorarmi, ma io la ignoro beatamente.

Chiudo la porta, rimanendo solo nell'abitacolo.

Maledetta la mia vita. Maledetta mia madre e la sua debolezza. Maledetta Anja, e anche il padre Albert!

Mi butto sul letto, e dopo mesi strillo la mia prima frase in ebraico: «היטלר הארור והמירוץ שלו! (Maledetto Hitler e la sua razza!).»

Mi accorgo dopo aver pronunciato queste parole di essermi comportato di nuovo da egoista irresponsabile, ma in questo momento nulla è più impetuoso della mia parte irascibile.

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