Capitolo 4
Caro diario,
ti scrivo perché gli avvenimenti di quest'ultimo periodo meritano di essere condivisi con qualcuno che possa comprendermi.
Mi do dello stupido da solo, ma ho sempre pensato che la carta, quella bella, liscia e bianca, sappia ascoltare più di un qualsiasi uomo, attento o meno che sia.
Dopo il mio soggiorno provvisorio nel "rifugio" e il mio desiderio insano e opprimente di ottenere una certa indipendenza e girare a piede libero per la mia città, ci sono state delle novità di cui non vado fiero.
Qualche mattina fa sono uscito per la seconda volta dall'edificio, e, con l'intraprendenza e la sfacciataggine che mi contraddistinguono, mi sono diretto verso Vincent Strasse, per quella stessa strada dove era esposta la bancarella di mio padre con manufatti pregiati e creazioni varie.
Sono quasi riuscito a percepire l'odore dei dolcetti di mandorla, adesso sostituito dal tanfo di fumo e polvere.
Quello stesso punto era in fiamme, e con le ceneri se ne andava un altro ricordo di una vita serena e positiva.
Sono crollato a terra, ho pianto tutte le lacrime che avevo, ho strillato in silenzio il suo nome per evitare che i nazisti mi sentissero, ho buttato fuori tutto il mio fiato, e, come se niente fosse, mi sono rialzato e sono andato via.
Sto spuntando gradualmente la lista con tutti i luoghi in cui potrebbe trovarsi mio padre, e le mie ricerche sembra si trovino in un punto morto.
Mi stavo preparando per le ore di camminata verso il rifugio quando un soldato, proprio come è accaduto l'altra volta, mi ha bloccato.
Questa volta, tuttavia, non sono stato così astuto da nascondere la stella di David, e il nazista mi ha inseguito.
Non avendo fatto colazione le mie forze mi hanno progressivamente abbandonato, ma fortunatamente una vecchia conoscenza di mio padre, riconoscendomi, mi ha attirato nella sua umile casa.
È inutile dirti che, dopo un intero pomeriggio passato a mangiare e dormire, sono tornato nel cuore della notte presso il rifugio.
Adesso sono chiuso nella mia stanza con una brocca di latte e tre biscotti, una serie indefinita di libri sulla scrivania e tanta voglia di parlare con qualcuno.
Dopo essere venuto a conoscenza della mia imperdonabile fuga, infatti, Alexander mi ha fatto la classica ramanzina, e mi ha chiuso a chiave in camera, evidentemente deluso: se sapesse che un nazista sa della mia esistenza e conosce la mia nazionalità, sarebbe ancora più amareggiato.
In realtà Zen mi aveva creato un ottimo alibi: problemi di stomaco con conseguente sonno e assenza di fame.
Ovviamente, però, quell'impiccione di Shimon è irrotto nella mia stanza, e, notando il letto vuoto, mi ha smascherato.
Stando chiusi, in solitudine, in una piccola camera si ha modo di pensare a tante cose: alla guerra, ad esempio, al cibo che scarseggia, alla morte, ai dilemmi esistenziali, al mondo in putrefazione, all'Universo che va in malora.
E intanto nelle mie orecchie riecheggia la frase di Zehava, la nostalgia verso i vecchi dischi e il disprezzo verso una catastrofe internazionale che sembra non avere fine.
Il mondo della musica, dei vecchi balli e dei valori affettivi era sicuramente migliore.
Tuo Uri (O Saul, come preferisci)
Chiudo il mio diario e mi alzo, rovistando tra le scartoffie e i testi che Alexander mi ha lasciato.
Tra questi, trovo un libro meraviglioso, perché meravigliosi sono la trama e il suo "compositore": Cento sospiri di felicità.
Sfioro con i polpastrelli la copertina, rilegata a mano, dalle pagine ruvide e il classico profumo che contraddistingue i testi nuovi.
In più di cinquecento pagine mio padre, ispirandosi alla sua vita e a quella di mia madre, ha riportato storie di coniugi che, tra i ricordi della Prima Guerra Mondiale e un bimbo scomparso, hanno proseguito la loro vita tra tante insidie.
Per l'ennesima volta la pagina si bagna, e il punto interessato assume una tonalità più scura.
Per l'ennesima volta, ai miei sospiri si alternano le lacrime.
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