Capitolo 19

«Smettila di fare il bambino, e fai silenzio, o qualche orecchio indiscreto ci sentirà» dico a Shimon, mentre lui non fa nient'altro che prendermi in giro per il mio abbigliamento pesante appartenuto in un tempo lontano ad Alexander che, a detta sua, copre la mia "possente muscolatura".

È proprio come sua sorella, schietto, indiscreto, ma a tratti fragile e vulnerabile.

Alla fine siamo riusciti a metterci d'accordo sull'itinerario da percorrere, e abbiamo trovato una strada che possa soddisfare le nostre esigenze: andremo a Deutsche Strasse, dove questo fantomatico dottore aveva una modesta abitazione; da lì poi, seguendo un piccolo viottolo, gireremo per una traversa dove mio padre aveva una serie di conoscenti, tutti ebrei come noi, che forse, se avrò quest'oggi la grazia divina dalla mia, potranno dare risposte esaustive ai dubbi che mi rendono tanto inquieto.

Mi dico che forse mio padre è stato trattenuto da loro dopo aver svolto quel lavoretto, che dopo essere venuto a conoscenza delle "visite di cortesia" delle SS nelle nostre case si è precipitato nella nostra abitazione e, non trovandoci, si era convinto del fatto che eravamo stati portati in un posto più sicuro. Forse ci sta cercando, proprio come io sto facendo con lui, e intanto è ancora nascosto dai suoi amici.

È una teoria che non regge, poco attendibile, ma d'altronde sperare non costa niente.

«Allora, Uri, qual è il tuo sogno recondito?» mi chiede Shimon indiscreto, cogliendomi di sorpresa.

«Trovare mio padre» rispondo istintivamente.

«Ma no, zuccone, sforzati. È certamente un proposito interessante, ma ci sarà di sicuro qualcosa che, prima dello scoppio della guerra, avresti voluto fare. Diventare un ballerino, suonare la cetra, sposare mia sorella...» mi rimbecca indisponente.

Io gli do una gomitata nel fianco, guardandolo storto.

«Effettivamente sì, c'è un sogno che mi assilla da anni ormai» ammetto, grattandomi la nuca, imbarazzato.

«Sentiamo.»

«Vorrei pubblicare un libro, proprio come ha fatto mio padre. Sai, è difficile per me esprimermi a parole, e rischio sempre di fare qualche stupidaggine o di omettere informazioni importanti. Su carta tutto è diverso: c'è solo un foglio pulito a giudicarti, e sei sempre in tempo per arricchire il tuo racconto. Penso che paradossalmente le mie parole potrebbero fare del bene a qualcuno e sollevare il morale a qualcun altro» gli spiego, con un sottile disagio.

«Anche questo è un proposito interessante, ma concedimi questa mia indisponenza: la tua vita ruota attorno a tuo padre. I tuoi spostamenti, i tuoi sogni, i tuoi progetti, le tue ambizioni, il tuo stato d'animo: tutto è legato a lui.
Per favore, non interrompermi mentre parlo, sto solo cercando di evitare che tu diventi l'immagine sbiadita di un uomo che ha una sua età, una sua indipendenza e una sua mentalità.
Diamine Uri, tu sei coraggioso, colto. Certo, non mi vai più di tanto a genio, ma ti ammiro e ti rispetto, per quanto la mia testardaggine possa permetterlo.
Puoi essere tutto quello che vuoi: un insegnante, un soldato, una spia.
Hai tutte le carte in regola.
Non sto dicendo certamente che quello dello scrittore è un lavoro scontato o superato, ma per essere all'altezza di un impiego simile devi avere motivazione, storie da raccontare, e non la semplice volontà di eguagliare un tuo mito. Sei modellabile, troppo per i miei gusti.»

Va bene, ammetto che questo suo sproloquio mi ha del tutto sopraffatto, e che le sue parole mi sono arrivate dritte al cuore, ma io, almeno ora, su questo sono irremovibile.

Voglio eguagliare mio padre? Voglio trasmettere qualcosa ai miei lettori? Voglio mettermi alla prova?
Qualunque sia la motivazione di questa mia decisione, per me è sacra, e in quanto tale, se non condivisa, deve per lo meno essere rispettata dagli altri.

Perciò non gli rispondo, e accelero il passo, superandolo di tre metri abbondanti.

***

È da una mezz'oretta scarsa che camminiamo, e dell'uscita dal bosco non c'è ancora nessuna traccia.

Ho calciato pigne, calpestato foglie e ammirato la fitta vegetazione, eppure nulla è bastato a distrarmi.

«Pensi di risolvere qualcosa allontanandoti da me come un bimbo capriccioso? Cosa c'è, le tue certezze stanno vacillando?» mi chiede provocandomi.

Mi giro arrabbiato, insicuro e frustrato e, in un impeto di rabbia, mi avvicino a lui e lo prendo per il cappotto.

«Non devi azzardarti a giudicare me e la mia vita, siamo intesi?» gli chiedo categoricamente.

Sta per ribattere quando un rumore improvviso ci fa accapponare la pelle.

«Cos'è stato?» mi chiede in un sussurro.

«Non lo so, sembra venire da uno di quegli alberi» gli dico di rimando, trascinandolo dietro ad un albero secolare.

«Non dobbiamo farci sentire. Fai il minor rumore possibile» lo ammonisco, sporgendomi appena dal tronco dietro il quale ci siamo seduti.

Shimon cinge le sue ginocchia con le braccia, e si guarda attorno con un terrore che non ho mai visto sul suo volto.

«Ascolta. Devi calmarti. Più silenzio fai, più è alta la possibilità per noi di salvarci la pelle.»

Cerco di tranquillizzarlo, ma il suo annuire poco convinto mi dà ben poche speranze.

Mi sporgo di nuovo, e vedo due soldati nelle loro uniformi impeccabili che fumano una sigaretta parlando nel loro tedesco stretto che anche per un esperto quale sono io risulta impronunciabile.

Riesco a cogliere frasi sconnesse in questo silenzio gelido ornato da fruscii di rami e sospiri ventosi.

«Ne ho presi quattro di quegli schifosi. Un'intera famiglia si è nascosta da amici. Patetici, non hanno neanche il coraggio di guardarci in faccia» dice uno, quello che sembra leggermente più muscoloso.

«Eppure a me non dispiacciono, o per lo meno le donne. Ne ho trovata una decisamente, come dire, graziosa. Non è accondiscendente, ma quando alzo la mano per darle uno schiaffo, improvvisamente si mette al suo posto» risponde il più basso, con un ghigno reso ancor più rivoltante dai denti gialli.

Aspira la nicotina con una sorta di necessità irrefrenabile, e i suoi nervi sembrano distendersi completamente quando espira.

Poso nuovamente lo sguardo su Shimon, e lo vedo con una mano davanti la bocca e gli occhi che faticano a trattenere le lacrime.

Mi abbasso ancora di più, e noto che ai soldati, della perlustrazione, non importa assolutamente niente: la loro è solo una passeggiata amichevole in un bosco lontano qualche miglio dal centro.

Cerco di trasmettere la mia positività a Shimon che al momento ne ha più bisogno di me, ma evidentemente non è un asso della telecinesi.

Torno con lo sguardo sulle due SS quando un suono ovattato arriva alle mie orecchie: lo riconosco come allarme.

«Cristo! Sapevo che non era una buona idea allontanarci! Quegli inglesi ce la stanno facendo sotto il naso!» esclama uno dei due, guardandosi intorno.

«Ma... ho le allucinazioni o c'è qualcosa dietro quel cespuglio?» risponde l'altro, avendo individuato presumibilmente una figura nella sua disperata ricerca di un riparo sicuro.

Mi guardo intorno quando mi accordo di un piccolo dettaglio: quella figura sono io.

Mi nascondo alla bene e meglio dietro il tronco, e a quanto pare il soldato più alto è più interessato ai bombardamenti che alle fantasie del collega.

Shimon è se possibile ancora più sconvolto, e sta quasi andando in apnea.

"Dio, proteggici per una volta", penso, ma le mie paure si concretizzano quando lo scoppio violento di una mina distrugge la nostra dimensione apparentemente sicura.

Adesso il vento non sospira più.

Adesso il silenzio è diventato boato.

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