Il rituale

Prima parte

Sta lì fermo a osservarsi le mani.

Mentre dal rubinetto in acciaio l'acqua continua a scorrere, una falena danza per l'ultima volta, piroetta e in fine incontra la luce blu ultravioletta della lampada a mercurio posta proprio sopra la sua testa.
Solo quando rimane impigliata e l'odore acre della sua carne bruciata inizia a diffondersi per la stanza, si desta da quel torpore e dà inizio al rituale.

Comincia con lo sfregare per dieci volte i palmi delle mani, dunque il dorso della mano sinistra scivola sul palmo destro e dà due energiche strofinate prima di ripetere lo stesso movimento con il dorso della mano destra sul palmo di quella sinistra. Allora chiude le mani e spinge i due pugni l'uno contro l'altro, all'altezza del petto, cercando l'attrito fino a che la pelle non arrossisce. In fine apre le dita e congiunge le mani fra loro, come se stesse per pregare, poi le strizza con un vigore tale da rendere quasi superfluo asciugarle.

Forse è un semplice cerimoniale o forse una forma di rispetto, probabilmente avrebbe senso farlo dopo e non prima di toccarmi, ma io l'apprezzo e sono sicura che l'abbia apprezzato anche quella prima di me, se solo fosse ancora capace di provare qualcosa.

Lo guardo avvicinarsi, con le mani rivolte verso l'alto, come se si trattasse di un chirurgo in procinto di operare. Dottore, ti ringrazio, ma se questo è il tuo intento, sei arrivato troppo tardi.

Con quelle mani avrebbe potuto fare il pianista, guardatele: dita lunghe e sinuose che sembrano modellate nella cera. La pelle pallida, sottile e tesa sulle nocchie appena in rilievo, lascia intuire la delicatezza di cui sono capaci mentre dai tendini, agili e nervosi, se ne può presagire il vigore.
Chissà qual è stato il preciso momento della vita in cui ha deciso che lo strumento su cui avrebbe fatto scivolare quelle dita, non sarebbe stato un pianoforte, un flauto traverso o un violoncello.

No, nulla di così convenzionale, lui suona i corpi.

Sta per iniziare il concerto, indossa i guanti in lattice e il sipario si alza sul mio bel viso, via quel lenzuolo.

Oddio, bello.

Lo è stato, certo, ma devo dire che la morte non mi dona. Aveva ragione mamma, "sorridi che sennò non vieni bene".

La morte è questo, un ultimo scatto impresso sulla pellicola della nostra esistenza. Nel mio caso si è trattato piuttosto di un selfie, ma il concetto è lo stesso.
Ecco, spero solo che non scosti il lenzuolo ulteriormente, Dio che imbarazzo sarebbe... troppo tardi, vabbè pensavo peggio. Lo ha ripiegato con delicatezza lasciandomi scoperta la parte alta del ventre.
Ne intravedo le forme, un po' acerbe forse, ma che volete, avevo solo sedici anni e un giorno. I seni non erano ancora del tutto formati, o almeno è questo che mi ripetevo perché una taglia in più non mi sarebbe dispiaciuta affatto. Che stupida, guardali lì, perfetti. Eppure non li vedevo così, sarà la prospettiva?

Vedersi da fuori è assurdo, ancora non mi abituo e penso in tutti i casi che non ne avrò il tempo.

Vi spiego.

Prima di me c'era quella vecchia signora, ci siamo viste, lei ha fatto il segno della croce e mi ha mandato un bacio, non so come mai ma pare che tra noi non si riesca a comunicare. Vedevo le sue labbra rinsecchite tremare e muoversi, ma non ho udito alcun suono.
Che tenera, immagino fosse triste per me, perché me ne vado così giovane.

Ma non è di me che voglio parlare, dicevo, penso che non farò in tempo ad abituarmi a vedermi da fuori perché ho visto cosa è accaduto a quella dolce vecchietta, subito dopo che lui ha finito con il suo trattamento. Le avrà dedicato tre quarti d'ora, con me impiegherà la metà del tempo! Ho la pelle vellutata e mi ero iscritta anche in palestra e... e niente, di nuovo parlo di me. Me lo diceva sempre mia madre che ho manie di protagonismo.

Scusate.

Insomma, quella dolce vecchietta all'inizio sembrava incerta sulla bontà del suo lavoro, l'ho vista un paio di volte tentare invano di togliere un po' di lucida labbra, riteneva che ne avesse messo troppo, probabilmente non era più abituata a vedersi truccata. Avrà avuto ottant'anni, dalle torto. Chi si trucca più a ottant'anni?

E così, appena ha finito, lei se n'è andata. Devo ammettere che ci sono rimasta male, per lei, ma anche per me.

Probabilmente mi aspetterebbe la stessa sorte, se lasciassi che le cose andassero come devono andare; sono le regole di un gioco che inizia solo quando hai tirato il dado, quando una partita è incominciata perché l'altra è finita e tutto quello che ti rimane da fare è aspettare.

Potevi pensarci prima, direte.

Ci ho pensato, lo giuro. Forse anche troppo e non sono mancati i ripensamenti. Se non fosse così me ne sarei andata l'anno scorso, quando mio fratello minore è sparito nel nulla, lasciando a me e ai miei genitori la briga di colmare gli spazi vuoti che ha lasciato.

In quei giorni ho capito che lasciare un vuoto non è un semplice modo di dire. I giorni successivi alla sua scomparsa, mi fermavo davanti alla sua cameretta, aprivo la porta cercando di non soffermare lo sguardo sul cartello che recitava "vietato l'ingresso", scritto con quella calligrafia incerta per la quale lo prendevo sempre in giro e che ora mi faceva venire i lacrimoni.

I luoghi che abitiamo ci accolgono e ci avvolgono, i nostri corpi riempiono spazi che col tempo diventano nostri e nostri soltanto, e io potevo vederli gli spazi vuoti lasciati dal mio fratellino, squarci nella quotidianità destinati a rimanere tali, che soffrivano per la sua mancanza e che erano incolmabili, così come lo era il vuoto nei nostri cuori.

No, scusatemi, non posso parlare del vuoto che io ho lasciato. Giudicatemi pure un'egoista, ma vi assicuro che è vero, la morte azzera tutto e io mi perdono. Spero che possano farlo anche i miei genitori.

Perdonare me stessa per quello che sto per fare, sarà un altro paio di maniche.

È il mio turno, comincia con le mie braccia. Le piega con delicatezza: prima le articolazioni delle spalle, poi i gomiti, i polsi e in fine le mie dita. Lo fa con estrema attenzione e quando ha finito appoggia di nuovo le mie mani su quel lettino freddo, lasciandole adiacenti al corpo. Passa le mani sotto a un dispenser dal quale fuoriesce una sostanza densa e trasparente. Mi massaggia le mani facendo attenzione che si assorba del tutto, poi sale fino ai gomiti. Da viva non sarei stata capace di stare così ferma, soffro, soffrivo il solletico.

Ora ha preso la valigetta. Ha scelto un fondotinta chiaro, mi dona. Con movimenti circolari sta applicando del fard sulle mie guance, ho un bel colorito rosa. Se avessi saputo che era così bravo, ci avrei fatto un salto anche prima.

Mi sta applicando un lucidalabbra rosa, menomale perché il viola di quelle labbra faceva proprio impressione.

Hai finito dottore, sei stato proprio in gamba e io non sarò mai più bella di così, non mi rendi le cose facili.

Perdonami, ma ha promesso che se lo faccio, lui lo farà tornare dai miei genitori e loro hanno più bisogno di mio fratello che di me.

Si sta togliendo i guanti, si avvicina nuovamente al lavandino, c'è un ultimo corpo e questa è la mia unica occasione... mi auguro di non fare la fine di quella falena.

Adesso ascolta.

Un rituale finisce, un altro sta per cominciare. Che cosa crudele dover farti del male.

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