In fondo al pozzo
La testimonianza qui riportata è a uso esclusivo della giuria e dei giudici della Corte del Martello.
Ogni informazione riguardo l'oro, le sue origini e la sua posizione rimangono proprietà di mastro nano Ror erede di Cava Inferno e di quello che contiene.
Non temere che io menta su questa storia, non si diventa capo scavo tenendo le cose in bocca, non si sopravvivrebbe. Ecco: quando Furio è precipitato nel pozzo abbiamo tirato tutti un sospiro di sollievo. Sapevo solo di non avercelo spinto io. Era stato uno della squadra, forse, ma ormai era successo, non mi serviva sapere chi, finché non è arrivato quel suono.
Il filone d'oro si trova oltre il sesto salto, appena attraversato un cunicolo che termina con un volo in basso, il pozzo in cui lui è caduto. L'ordine era "trovare qualcosa", qualsiasi cosa di buono, e ci eravamo riusciti. Quando il Consiglio della Cava assegna certe spedizioni non dà per scontato che la squadra faccia ritorno, un lavoro adatto alle teste matte, pericoloso ma senza scadenze da rispettare.
Era il turno numero uno-otto-zero, la centottantesima volta che giravo la clessidra per dare il cambio alla parete di scavo. Posso dire di non essermi sbagliato sul numero fino a quel momento, anche i picconieri tenevano d'occhio la sabbia, ma una volta rinvenuto il filone il senso del tempo ci sfuggì di mano.
Furio era il più anziano tra noi, questo non sarebbe bastato a emarginarlo, lui però era anche uno speleologo atmosferico. Uno studioso dell'aria nelle grotte, sapeva dire quali cunicoli fossero ciechi e quali no, certo, questo ogni nano sa farlo ma lui lo faceva meglio, così come ogni nano sa afferrare un piccone, ma solo un picconiere sa abbattere una montagna. Là sotto eravamo tutti picconieri tranne lui.
Per un centinaio di cicli di clessidra ci aveva descritto la sua "amicizia" con Ror, il proprietario. Diceva di averci parlato più di una volta, avergli dato una consulenza e avergli pure stretto la mano. Ne parlava come se incontrarlo valesse più di un sacco pieno d'oro, nessuno si stupì quando si oppose. Al rinvenimento di un filone la regola sarebbe mandare due picconieri ad avvisare il Consiglio, quindi aspettare l'arrivo di altre squadre, mandammo i due picconieri ma iniziammo subito a scavare, a Furio non piacque. Diceva, e ovviamente lo sapevamo tutti, che se si fosse iniziato a lavorare, qualche pepita chissà come si sarebbe persa prima dell'arrivo dei supervisori. Per fedeltà a Ror, non avremmo dovuto iniziare. Gli risposi che il supervisore ero io, quindi di mettersi il cuore in pace e magari far sparire una pepita anche lui.
Non prese nulla, un errore, vista la situazione. Penso si volesse tenere le tasche pulite per accusarci una volta arrivati gli altri, ormai non si può sapere se l'avrebbe fatto. Quando cadde sentii il suo grido proseguire per tre respiri, il pozzo doveva scendere di almeno quaranta braccia. Si poteva sopravvivere? Girai la clessidra e ordinai agli altri di tornare a lavoro.
Sarebbe finita lì se non fosse arrivato quel suono, otto turni dopo, dovrebbe corrispondere a due giorni e mezzo, dal fondo del pozzo cominciò ad arrivare un ticchettio. Qualcosa di rigido battuto su una pietra, forse su un ferro. Ci guardammo negli occhi, muti e immobili, certi suoni si conoscono in miniera: quando un nano rimane sotto un crollo, la prima cosa che si sente di lui, se è vivo, è il battere di piccone. Possibile che Furio ci chiamasse da là sotto, dopo due giorni?
"Furio! Furio, mi senti?" Stetti a lungo sull'orlo della caduta a chiamarlo, ma mai senza controllarmi alle spalle. Lui non rispondeva, eppure il suono non se ne andava, tintinnava regolare, volevamo credere di immaginarlo ma no, là sotto c'era qualcosa di vivo.
In quanto capo scavo potevo decidere per tutti, di organizzare una discesa e andarlo a prendere, oppure di ignorarlo nella speranza che smettesse prima dell'arrivo delle altre squadre. Non importa cosa volessi fare davvero, quel che contava era che non sapevo se qualcuno l'avesse spinto: se avessi espresso l'intenzione di scendere sarei potuto finire nel pozzo anche io.
Optai per una votazione, così avrei individuato i picconieri più sospetti, quelli che preferivano lasciarlo per non essere riconosciuti da lui come aggressori. Uscì fuori che la maggioranza intendeva andare a prenderlo, meno che quattro nani e me. Scelsi di scendere io e loro quattro, questa decisione però non va fraintesa: quel che mi interessava era che su, a tenere d'occhio i cavi delle nostre corde, rimanesse gente a cui non interessava lasciarci in un pozzo.
Mentre ci calavamo e il tintinnio rimbombava su per la tromba di quel pozzo, sembrava che tutti e cinque cercassimo di respirare sottovoce. Ogni pietruzza che con gli stivali spiccavamo dalla parete volava per due respiri e poi ci immobilizzava col suo picchiare sul fondo. Posammo i piedi su un pavimento di pece, le torce dei nostri compagni si vedevano distanti, come uno spicchio di luna sbiadito sopra le nostre teste. Prima di accendere fuoco, saggiammo coi timpani il ticchettio, rimbombava anche lì e non muovevamo un piede per paura di calpestare Furio senza vederlo.
Uno dei miei attizzò il lumino di una lanterna a olio, orientò il suo getto di luce nel buio, sulle forme scure delle rocce. Mi si gelò lo stomaco quando riconobbi la casacca di Furio. "Va' a vedere se è lui", lo ordinai a un picconiere perché io sentivo le gambe di pietra. Quello afferrò la casacca e la sollevò, vuota, senza traccia del nano. Il ticchettio, il ticchettio invece continuava imperterrito, orientammo la luce su un cunicolo, il suono arrivava da là dentro, dalla sua oscurità senza fondo.
Uno dei quattro chiese: "Lo troviamo per farlo fuori, vero?"
Gli tremava la voce, se avessi annuito forse avrebbe aggiunto: "Allora lasciamolo lì e torniamo indietro." Tuttavia, non gli risposi, afferrai la lanterna e mi addentrai seguito da loro.
All'interno delle cavità di un monte non c'è il meteo, non c'è un sole a regolare l'umore delle creature, ci sei solo tu. Può essere che ti rilassi, al tepore delle profondità, nell'aria stantia, come fosse una sauna, oppure che ti salga una paura matta, che a quel fresco umido ti sembri di gelare, che le pareti si stringano e la roccia ti guardi con l'intenzione di soffocarti. Quest'ultimo il mio umore quando il cunicolo si strinse e per passare ci mettemmo in fila sdraiati sulla pancia, sentivo il soffitto bassissimo su di me raschiarmi l'elmo e poi spingere sulle mie natiche prima di lasciarmi andare un passo oltre.
"Io torno indietro!", sentii uno dei quattro dietro di me cominciare a gridare.
"Che stai dicendo? Resta in posizione, picconiere", ordinavo a vuoto, doveva essere il nano che strisciava giusto dietro di me. Stava scalciando alle proprie spalle, impediva agli altri di seguirmi.
"Sono stato io a cacciarcelo", disse e io non ebbi più il coraggio di insistere, "è stato un momento di confusione, ma se ora non mi fate tornare indietro ne avrò un altro."
Non rimasi a portata di mano di quel nano. Strisciai avanti, mi misi dritto appena terminata la strettoia e allungai la testa indietro per ascoltare. Dei miei quattro picconieri non arrivava nemmeno una voce, nell'aria si sentiva solo il tintinnio. Mi voltai avanti, da dove continuava ad arrivare, slacciai il piccone dal fianco e lo strinsi nella mano libera dalla lanterna.
Gli stivali battevano il terreno a ritmo con lui, col tintinnio. Un Furio morente non poteva attraversare quella strettoia, qualcosa sfuggiva alla mia comprensione, per curiosità o per inerzia avanzavo nelle ombre. Che lo speleologo atmosferico nascondesse la capacità di rallentare le cadute? Forse stava picconando una via di fuga da noi, dal nano che lo aveva spinto? Laggiù, nell'oscurità, con quel tintinnio nelle orecchie, queste ipotesi non sembravano tanto assurde, a dirla tutta nemmeno ora lo sembrano rispetto a quello che trovai.
D'un tratto il viso di Furio, cinereo e contratto in uno spasmo, gli occhi fuori dalle orbite, quell'immagine la vidi per il tempo di un lampo passare davanti alla luce per poi sparire. Caddi accovacciato e tenni la lanterna fissa in quella direzione. Ecco il tintinnare.
Il corpo di Furio attraversò di nuovo il fascio di luce rapidissimo e pallido come denudato e poi coperto di un sudario di seta. Correva? No. Rigido come un baco schizzava davanti alla luce, appariva col suo volto morto e volava via, un tintinnio e poi tornava.
Non ero in me, non ero in me mentre avvicinavo quella cosa e puntavo la lanterna nella stanza in cui terminava il cunicolo. Il corpo morto di Furio penzolava dal soffitto, oscillava da una parete all'altra e si schiantava, per ogni volta il suo elmo, il suo cranio, il suo corpo, tintinnava forte.
Vidi un ragno colossale calarsi lungo la parete, le sue ragnatele stringevano Furio e lo sbattevano sulle rocce. Il ragno, dall'addome enorme e le zampe lunghe quanto un nano, non aveva una testa ma il corpo di una donna, graziosa quanto un elfo: una sirena delle caverne.
Agitai la lanterna, scappai tanto veloce che la luce si affievolì. Correvo a tentoni, dietro di me lo scalpiccio di otto zampe. Vorticavo il piccone indietro, alla cieca, per tenerla lontana. Arrivato alla strettoia non mi ci infilai di testa: non intendevo farmi afferrare i piedi. Ci andai al contrario e mentre arretravo in tutta fretta sentii la sirena rallentare e poi la voce di Furio che diceva: "Non lasciarmi qui. Ti prego, non lasciarmi." Attizzai di nuovo la fiamma della lanterna e vidi la sirena in viso, strisciava come me, per inseguirmi, era lei a parlare con la voce dello speleologo. La tenni lontana col piccone, in quel canale angusto bastò quello, quando ne uscii corsi fino alla base del pozzo.
In alto riuscivo ancora a vedere le torce dei miei ma tutte le funi erano state ritirate. Sapevo che non sarebbe servito chiamarli e di scalare più veloce di una donna-ragno non ci avrei mai nemmeno sperato. Posai la lanterna, presi il piccone a due mani e attesi che la sirena emergesse dalle ombre del cunicolo.
Quando ne venne fuori la affrontai, io e il mio piccone contro i suoi otto arti appuntiti e il pungiglione acuminato. La sua parte di donna nemmeno provava ad apparire aggraziata, rideva malvagia, convinta di avermi in pugno. Mi trapassò col pungiglione, veloce come un colpo di serpe, ma quell'aculeo era tanto grande e lungo che il veleno uscì fuori dall'altra parte. Lo afferrai, me lo tenni in petto perché lei non sfuggisse dal mio colpo di piccone. La testa di metallo le entrò nell'addome tanto a fondo che non ne uscì e a me rimase solo il manico spaccato. Riuscì a liberarsi dalla mia presa e scappò portandosi via la ferita che le avevo inferto.
Quindi rimasi sul fondo di quel pozzo, dove mi trovarono le altre squadre di picconieri.
Firma: capo scavo Monrir Bracciopiccone
Prove ausiliari della testimonianza: un manico sporco di sangue d'origine sconosciuta e la ferita petto-spalla del nano mostrata ai giudici.
Appunti sulla sentenza: malgrado la testimonianza possa valere come prova dell'esistenza delle sirene di grotta, e perciò della loro problematica, la Corte del Martello ha riconosciuto colpevole Monrir Bracciopiccone come unico assassino di Furio Ventocaverna e condannato ad essere calato nello stesso pozzo in cui ha lanciato la sua vittima.
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