In coda
"La tua cura per le mattinate tristi!" leggo distrattamente su un pacco di caffè aromatico. Le lettere sono sbiadite dopo l'uso prolungato dell'involucro di plastica. Non le avevo notate prima, a dire la verità. Nascoste per bene fra i caratteri minuscoli di numerosissime altre scritte, erano rimaste celate ai miei occhi. Eppure quelle sette parole mi fanno riflettere, le sento pronunciate da una di quelle voci perfette delle pubblicità. Uno slogan che, invece di infondere sicurezza, non fa altro che turbarmi.
Al giorno d'oggi sembra che tutti siano alla ricerca di una cura a qualcosa. "L'antidoto per l'infelicità", "La panacea per le tristezze amorose", "La cura contro l'indifferenza". Sono tutti lì a darci un consiglio su come alleviare e curare i nostri dolori, i nostri rimpianti. Perfino per la malinconia che assale di prima mattina. Per la dannatissima tristezza malinconica che effimera si culla in grembo mentre si rimane in tavola a fissare il vuoto. Cura, antidoto, che parole forti quando si tratta di queste cose scialbe.
Rimesto il caffè nella tazza arancione che uso per la colazione. L'odore intenso, ricolmo di note basse, non aiuta per niente contro la malinconia. Neanche quella stupida tazza con scritto "Buongiornissimo!" a caratteri cubitali.
Dovrebbero essere questi gli antidoti per un morale a terra? Un caffè miracoloso e una tazza sovraeccitata? Sapete che significato assume "cura" nel mio dialetto? Significa "coda". Già, coda. Oltre quello ovvio di antidoto, panacea, eccetera eccetera. Coda. Come quella delle lucertole o come quella alla cassa di un supermercato o alla posta. Soffermatevi su questa "coda".
Immaginate, solo per un istante, se tutto si potesse guarire come una bolletta da pagare. Una misera commissione, niente di più. Una semplice bolletta. Sarebbe maledettamente strano eppure me lo immagino già. Un edifico basso e grigio con una ventina di sportelli e una grossa macchinetta che sputa biglietti numerati.
Soffri di depressione? Bene, prendi il biglietto con la lettera D e mettiti in coda. Soffri di bulimia? Prendi la B e mettiti in coda. Soffri di ansia? Prendi la A e mettiti in coda. Riesco a figurare già le file chilometriche dietro ogni sportello, dove vecchie signore dai capelli grigi masticano gomme alla menta per tutto il giorno consumando le proprie mandibole stanche. Immagino la gente taciturna, le facce scure e i musi lunghi, che si mette in coda al freddo. Ogni tanto si chinano sul fogliettino per ricontrollarne il numero mentre dei sonori scampanellii annunciano che un turno è finito e che un altra persona sta per liberarsi da ciò che tanto lo angustia.
Stanno tutti lì ad aspettare, riempiendo il loro tempo guardandosi intorno o battendo i piedi per il freddo. Già, il tempo. Che parolone. E' solo una lunga sfilza di giorni, ore, minuti, secondi che si susseguono di anno in anno. Eppure non è forse quella la panacea per tutti mali? Fin da piccoli le nostre madri, quando ci facevamo del male, non ci dicevano: "aspettiamo due giorni e vediamo come va". Casomai, e dico casomai, il dolore non passava, si andava dal dottore. Eppure si doveva aspettare due giorni, sempre e comunque quei due giorni erano fondamentali.
Mai detto fu più veritiero però. Si aspetta, in ogni caso. Due giorni, due settimane, che differenza fa? Si aspetta. Immaginatevi ora di aspettare in coda e spendendo lì quel tempo, attendendo di ricevere questa fantomatica cura da uno degli sportelli a cui vi state rivolgendo. Mi vedo già lì, in fila, il biglietto in mano. Allungo il collo per controllare la coda di fronte a me. Diavoli se è lunga. Mi chino di nuovo sui numerini scritti in nero sul biglietto. Sono leggermente sbiaditi ma si legge abbastanza bene un 609. Ci sarà una vita da aspettare qua dietro. In più si gela e l'aria è umida. Il cielo grigio contorna un'aria pungente e asettica. La fila di fronte a me continua a rimanere ordinata, scampanellio dopo scampanellio. La gente non si volta, guardano tutti di fronte a sé, le facce sprofondate nelle sciarpe e nei baveri dei cappotti.
Ho una sorda paura che la coda dietro di me sia finita ma non voglio voltarmi per controllare. Ho timore di essere l'ultimo. Spero che l'ufficio non chiuda, non voglio rimanere qui per un altro giorno. Non ci tengo proprio. Ma che mi rimane da fare? Aspetto.
E aspetto.
Mi riprendo e la scritta sbiadita sul pacco di caffè si ricompone sotto i miei occhi mentre la rimetto a fuoco. Stacco le labbra dalla tazza arancione e faccio una smorfia. "La tua cura per le mattinate tristi!". Al diavolo, penso, e verso il resto del caffè nel lavandino.
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