Sul bus 110 (Cavetown-Green)


"I hope you're well".

Quelle cinque parole continuavano a sovrastare tutto il resto della canzone. L'avevo scoperta per caso proprio quella sera. Non sarei mai dovuta uscire. Perché deve essere tutto così?

Non riuscivo a far combaciare tra di loro i miei pensieri, che si perdevano in frasi disordinate ed eteree mentre guardavo fuori dal finestrino del bus. Lo odiavo, quel bus numero 110, ma in fondo non aveva nessuna colpa. Non era stato lui a decidere di farmi vivere così lontano da tutto e da tutti, non era stato lui a donarmi l'indifferenza degli altri, ma mai quanto in quel momento avrei voluto che bruciasse, lui e quella maledetta città.

Sarebbe dovuta essere una serata piacevole. La mia scuola aveva organizzato uno spettacolo, una piccola recita, inizialmente ero felice di andarci. Presi il bus tranquillamente fino alla scuola ed entrai nell'aula magna a spettacolo già iniziato, ritagliandomi un piccolo spazio fra i tavoli e le sedie. Notai T. e M. sul palco, capii che erano in imbarazzo a recitare, ma mi fecero sorridere anche se non capivo che cosa dicessero. Sembravano naturali come se recitassero anche nella realtà, o come se la loro vita non differisse dall'allegria che mostravano davanti al pubblico.

Poi arrivò U., così bella, con un costume che faceva risaltare le sue gambe pallide e slanciate, che si muovevano insieme a tutte le altre in sincronia con la musica. Speravo di poter essere come lei, ma mi accorsi presto che la realtà era un'altra, come sempre, che io l'accettassi o no. Era una persona speciale per me, in fondo, una delle tre con cui riuscivo a parlare senza sentirmi a disagio, con cui i silenzi non mi pesavano. Forse stavo davvero provando dei sentimenti per lei.

Quando la recita finì, la lasciai andare e mi riunii ai miei compagni. Come sempre, non riuscivo a capire nulla di quello che si dicevano, e ogni volta che provai a chiedere loro qualcosa mi sentii freddare dai soliti monosillabi stentorei. Forse stavano pianificando di farmi una sorpresa, o forse parlavano di quanto mi odiassero. Non potevo saperlo.

Cominciavo però a sentire qualcosa che germogliava nelle mie viscere, facendosi spazio fra la mia carne, qualcosa che avevo imparato a conoscere, che credevo mi avesse abbandonato dal giorno della mia partenza fino a quel momento. Era l'angoscia di essere io e io sola l'oggetto del disprezzo degli altri, l'idiota che non faceva nulla, la scansafatiche, la nullità e chissà quanto altro ancora.

Mi ritrovai in fretta così sul bus numero 110, senza guardare l'autista in viso, seduta allo stesso posto di sempre nonostante intorno a me quasi tutti i sedili fossero vuoti. Avevo paura che gli altri mi avrebbero guardata male se fossi andata da qualche altra parte. Non sarebbe mai successo e maledizione, lo sapevo, ma mi sentivo come se dovessi costantemente dare forza al mantice che soffiava su di me riempiendomi di fumo gli occhi e i polmoni.

Mentre le luci dei lampioni si diradavano, facendo spazio alla campagna nordeuropea, vedevo la mia faccia riflessa di fronte a me nel vetro, illuminata dalle luci bluastre del bus. Era disgustosa, mi chiesi perché la gente non scappasse quando mi vedeva, è quello che avrei fatto anche io se avessi visto qualcuno del genere. Potei notare una lacrima che scendeva lungo le guance del riflesso, ma non sentivo nulla sulla mia pelle. Mi ero girata completamente verso il finestrino per non farmi notare da quell'uomo che sedeva poco più avanti di me, come se gli potesse importare qualcosa, come se esistesse qualcuno su quella terra che mi avrebbe mai aiutato.

C'era anche una donna lì dentro, mi si era avvicinata prima di salire a bordo. Nemmeno lei era del posto, forse le avrei rivolto la parola se avessimo parlato le stesse lingue. A dire il vero era lei che aveva rotto il ghiaccio, chiedendomi qualcosa che non riuscii ad afferrare. Provai stentatamente a farmi capire, ma ero sicura di aver solo fatto una pessima figura, ovviamente. Mi sarei voluta seppellire, e forse l'avrei fatto, ma non quel giorno. Ero troppo stanca, l'avrei fatto il giorno dopo. Anche il giorno prima avevo deciso lo stesso, per poi rimandare. Anche quello prima ancora.

Mi continuavo a ripetere che era colpa mia, non so nemmeno per cosa, e dopo un po' la ragazzina che abitava dentro la mia testa uscì fuori, timidamente. Mi sembrava che dicesse, balbettando e arrossendo: "Non puoi continuare a farti questo, ti farai solo del male allontanandoti dagli altri. Credi che non ti vogliano bene? Nemmeno tu ti ami, come dovrebbero loro?"

Non le risposi, non lo facevo mai. Forse ero io quella ragazzina, o forse io neanche esistevo. L'avrei gradito di gran lunga, ma purtroppo ero costretta a continuare così. Ero troppo pigra persino per uccidermi. Ne avrei riso, se avessi potuto ridere in quel momento. O ero troppo spaventata, troppo debole. Ero solo una debole idiota. Idiota, idiota, idiota, idiota... ogni volta, immaginata con quell'accento che sentivo ogni giorno che deformava la O in una smorfia di disprezzo, quella parola suonava come uno schiaffo, uno schiaffo che meritavo tutto.

Il bus era arrivato e tutti erano scesi, tranne me. Raccolsi le mie gambe e mi diressi verso l'uscita, senza alzare lo sguardo, con il groppo tipico del pianto in gola. Riuscii a malapena a mormorare un "tak" ridicolo come tutti gli altri che avessi mai pronunciato all'autista, prima di camminare verso casa, o meglio, l'edificio dove tornavo normalmente dopo la scuola.

Aprii la porta senza curarmi del rumore che facevo e non ricordo nemmeno se la chiusi a chiave. Mi distesi sul letto, dove terminai le mie ultime lacrime prima di dormire.

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