XXVI
Elsa balbettò. «Potremmo andarcene» ipotizzò. «Il mondo umano è vasto, potremmo nasconderci. Chloe, tu avevi detto che ti avevano aiutata a scappare da Ru.»
Chloe rabbrividì al pensiero di tornare da Alees. La sua non era affatto paura, bensì vergogna: aveva ammirato quell'uomo, era grata dal profondo del cuore ad Alees per averla aiutato quando nessun altro voleva farlo. Era stato un vero amico e lei era semplicemente scomparsa nel nulla, tenendolo all'oscuro persino di suo figlio.
«Non sono soldati, sono diplomatici» la corresse. «Siamo in troppi. Wolverhampton era già impazzita con me all'epoca, con un solo Licantropo. Dove le metteranno le diecimila persone delle capitali?»
Dylan si mise una mano tra i capelli, ravviandoseli. Senza notarlo, il suo odore si liberò nell'aria e fece fremere le narici dei Vampiri. Joseph era abituato, smise di respirare e si concentrò, ficcandosi le unghie nelle braccia. Lance si irrigidì e gli sfoderò uno sguardo lugubre.
«Ci troverebbero in ogni caso» spiegò Dylan. «I cristalli sono legati ad Arcadia, lasciano una scia invisibile. I maghi possono vederle. Zero non sarebbe mai al sicuro. E poi se ci sono spie tra noi Gwyn saprà sempre dove ci troviamo.»
Joseph ebbe un brutto presentimento. Si guardò intorno circospetto, poi scivolò da Lance. «Dov'è Gabriel? Ha parlato con te, no?» chiese piano.
Il Vampiro nero si guardò distrattamente alle spalle, infine le alzò. Il compare rimase sconvolto dalla reazione e Chloe lo prese per mano, sperando di rincuorarlo.
«Ha molti segugi alla sua mercé, troverebbero Zero in meno di un giorno anche da una costa all'altra, per non parlare di Cacciatori, Antimaghi e altri. Scappare è inutile» diede ragione Lance.
Ru zampettò in mezzo al gruppo, facendo un enorme sorriso che non contagiò nessuno. «Potremmo attaccare» propose e Dylan fece una smorfia. «Dico sul serio. Sarebbe l'ultima cosa che si aspettano.»
«Sì, e anche l'ultima cosa che faremo noi» sputò il fratellino. «Per le dee, sei tanto forte quanto stupido. Perché diamine la natura ti ha fatto così?»
«Non è una brutta idea» si accodò Lance meditabondo.
Dylan era allibito. «Solo perché vuoi essere in disaccordo con me non...»
«È solo questione di tempo» lo bloccò acido. «Guardaci, ex campione, e dimmi cosa vedi. Di guerrieri ce ne sono pochi e chi di loro sa ammazzare un Vampiro? In branco i Licantropi sono inarrestabili, ma anche Gwyn ne ha. Ha avuto molto tempo per pensare ad un piano e altre variabili, noi siamo in svantaggio. Numerico e tattico. Voi cosa avreste fatto?» lo interrogò deciso.
Il ragazzo strinse i pugni senza replicare. I campioni erano noti per la loro indomabile volontà e, a tratti, indole suicida. Dylan era l'unico tra gli ex campioni senza il dono del lupo, tra i cinque era quello con le probabilità più scarse di sopravvivenza, tuttavia Joseph riconosceva la sua forza. Si erano allenati insieme ed era capitato che il ragazzo mettesse alle strette il Vampiro. Joseph era fermamente convinto che avere degli istinti suicidi fosse un passpartout per il titolo di campione.
«L'attacco, ma... Lance, qui è diverso, non è un gioco! È guerra! Se sposti in avanti la torre poi la regina rimane scoperta» gli fece notare. «Vuoi portare Zero su un campo di battaglia, oppure lo lascerai qui allo scoperto? In entrambi i casi è un'idea di merda.»
I bambini tra le gambe di Bjørn risero forte, cantando: «Merda! Merda!»
«Bravissimo, e il cattivo esempio sarei io» si compiacque Bjørn, prendendo in braccio un bambino e facendolo penzolare a testa in giù.
Lance fischiettò e i Vampiri tesero le orecchie, correndo al suo cospetto. Joseph vide i suoi compagni scattare senza la minima traccia di indecisione e non riuscì a rimanere sereno. Si domandò chi tra quella gente li avrebbe traditi e quando. I Licantropi si alzarono da terra e si sedettero nei pochi spiragli di sole, godendoseli.
«Gwyn ci ha dato due giorni di tempo. Si aspetta una strategia difensiva da parte nostra, forse anche una fuga. È distratto e concentrato su questa opzione. Scappare adesso non aiuterà nessuno di noi, ma non biasimerò chi deciderà di farlo» iniziò austero. «Tra due giorni il castello sarà sguarnito.»
La gente borbottò, capendo al volo la sua idea.
«Vuoi attaccarli prima che loro attacchino noi» tradusse Jake, annuendo. «Sfruttando il momento in cui si sposteranno.»
Zero si agitò scontento. «È una follia, li avete letti dei libri? Il castello non è mai stato conquistato durante una battaglia. Ci sono stati tanti giochi di ruolo e nessuno ci è riuscito, nemmeno per finta» protestò.
Una Vampira lo zittì, ficcandogli dell'uva in bocca.
«C'è sempre una prima volta» disse un Licantropo convinto.
Alba si tolse una scheggia dal dito. «Conosco il Gran palazzo meglio dei miei pantaloni. So alcuni passaggi segreti che persino Gwyn ignora. Da piccolo li cercavo tutti, altrimenti come facevo a scappare in continuazione?»
Una delle poche guardie reali rimase lo fissò con disapprovazione, ancora con gli incubi riguardo le indimenticabili fughe notturne.
«Abbiamo l'elemento sorpresa» si accodò Joseph.
Dylan scosse il capo. «Siamo più al sicuro qui. Ben equipaggiati potremmo resistere a lungo.»
«A lungo quanto?» espirò Lance. «Due giorni? Una settimana? Un mese? Questa foresta non è una roccaforte, siamo in mezzo ad una pianura. È una tomba.»
«Abbiamo solo due giorni» fece notare Chloe nervosa. «Poi si muoveranno per uccidere Alba. Gwyn spezzerà gli animi della gente, il popolo non si è ancora arreso perché il principe è vivo. Arcadia ha bisogno di lui.»
Molti lupi annuirono. «E anche se dovessimo fallire ci lascerebbero morire di fame. Be', alcuni di noi, per lo meno.»
I Vampiri si mossero a disagio, temendo il momento in cui la fame avrebbe preso il sopravvento.
«Potremmo raccogliervi delle noci e...» optò un Vampiro in imbarazzo.
«Sì!» esclamò sarcastico l'amico accanto. «E poi gliele tireremo in testa. Coglione!»
«Io sono con voi» parlò un lupo.
«Io anche. Preferisco morire in battaglia anziché aspettare la morte qui.»
Vampiri e lupi annuirono all'unisono. Entrambe le specie erano nate dalla guerra, pronte a combattere fino all'ultimo respiro.
Lance si inclinò verso Joseph. «Gwyn ha diciotto segugi dalla sua. Credi di farcela?» Joe lo fissò scontroso. «Domanda stupida.»
«Vi faremo entrare» garantì Chloe. «Io e i campioni andremo in prima linea. Dovete togliere di mezzo i segugi come prima cosa, altrimenti avrà sempre un vantaggio su di noi.»
Zero si liberò dall'agguanto delle Vampire e tossì forte. «È una bruttissima idea» ribadì. «Così state riducendo le opzioni a due: morire qui o laggiù. Credete che Gwyn non abbia già pensato a questa eventualità? Ci serve altro aiuto, dovremmo andare nelle capitali, cercare altri soldati che...»
«Apri le orecchie e chiudi la bocca» gli ordinò Joseph.
«Sei una...» Stava per dire "testa di cazzo" e si trattenne solo grazie agli occhi scintillanti di suo padre. Aveva i nervi a fiori di pelle, una parola fuori posto e avrebbe visto il cielo dopo mille anni. «Siamo in svantaggio e lo saremo sempre. Ci serve supporto.»
Alba si strinse nelle spalle. «Gran Palazzo ha una posizione ottimale. Chi vi è dentro riesce ad osservare l'intera isola. Ci penseremo una volta insediati» negò. «Il castello ha dei sistemi di sicurezza, porte di ferro battuto che possono essere calate. Nei sotterranei si trovano moltissime ale d'armi, se le riuscissimo a prendere potremmo essere alla pari.»
Zero scosse il capo. Era tutto sbagliato a detta sua.
«Volevi essere un generale, cucciolo» lo spronò Lance. «Vuoi dire la tua? Accomodati.»
«La mia l'ho detta! È una brutta idea, punto. Tu hai sempre detto che il mondo si basa sull'equilibrio, be', qui è lo stesso. Non c'è solo attaccare o difendere, c'è anche il "fare la scelta migliore e fare come dico io". Andiamo a Stìgarde.»
«Puoi essere più specifico?» lo interruppe.
Zero si scomodò. «Puoi zittirti per due secondi?» Chloe si mise le mani sulle tempie e si allontanò con il mal di testa, mentre le guance del compagno si tinsero di rosso. Lance gli fece cenno che fosse tutto a posto. «Gwyn è un mago, credi che non sappia rintracciare te e la tua nebbia? Puzza, se non l'avessi notato e, se la sento io, immagina cosa possono fare diciotto segugi incazzati neri. Lasciamo delle tracce fasulle e copriamo le nostre con il fiume. Hai dimenticato com'era Arcadia prima del tuo arrivo?»
Il Vampiro incrociò le braccia. «Ricordo. Temo che tu non lo sappia, dato che sono più vecchio di te. La vera Arcadia non l'hai mai vista e, se tuo nonno fosse stato vivo, non avresti mai avuto modo di farlo.» Ru si impettì e gli diede un colpetto sul braccio per dargli capire di darci un taglio. «Qui non ci servono dèi o mostri, è la vita vera e tu sei un cucciolo, quindi mi ascolterai. Joseph.»
Il Vampiro si sciolse dal suo abbraccio e marciò verso il figlio, afferrandolo per un braccio e spostandolo dal gruppo che stava discutendo sui dettagli dell'agguato. Il cucciolo incespicò e inciampò su alcune radici, volendo rimanere e sentire. L'ultima cosa che udì fu Lance che vietò a tutti di allontanarsi, sia per trovare cibo sia per lavarsi. La faccenda delle spie lo turbava parecchio.
«Ora basta» ingiunse Joe, puntandogli il dito in mezzo alla faccia. «Sta' buono qui.»
«Pa', per favore» lo implorò. «È una cattiva idea. Io conosco molto bene Gwyn, se lo aspetta. Di sicuro non può aver conquistato tutta l'isola in meno di una notte, le città sono fortificate. Cerchiamo aiuto là.»
L'unico motivo per cui Joseph era favorevole all'attacco era perché aveva paura dell'idea di Zero. O meglio, temeva che le persone in città lo avessero già etichettato come nemico pubblico. Era troppo agitato per calmarsi e ragionare.
«No» sentenziò. «Faremo come hanno detto Lance e Alba, fine della storia. Se te lo sei scordato, il prossimo sulla lista di Gwyn sei tu. Starai dove ti posso vedere, punto. E guai a te...»
«Ah, lo so, accidenti» sputò seccato.
«Ce la caveremo» tenne a dirgli e Zero lo guardò inespressivo.
Il cucciolo si sedette sotto un albero e guardò il nulla, un metodo creativo affinché sapessero che si fosse offeso a morte. A Joseph finché fosse stato fermo e in silenzio stava bene. Tornò dagli altri, mettendo insieme un piano con cui muoversi. Disegnarono a terra una specie di mappa e usarono dei legnetti per gli schemi.
Zero restò in disparte. Qualcuno gli portò da mangiare e lui rifiutò. Aveva lo stomaco chiuso ed era in costante stato di ipervigilanza, i suoi piedi tamburellavano il terreno e fissava il vuoto. Pensava a centinaia di cose contemporaneamente, al fatto che le maggiori probabilità erano quelle di perdere l'assedio e morire nel tentativo. Per quanto cercasse una soluzione ogni cosa era lontana. Da soli avevano perso, pensò questo.
Appena il sole tramontò, Zero stava già dormendo sotto l'albero su cui aveva deciso di rimanere. Aveva gli occhi chiusi e le braccia strette al petto, la mente pronta a reagire in caso di attacco. Dormiva, eppure era cosciente dei rumori e delle voci attorno a sé, dei Licantropi che russavano o dei Vampiri che sussurravano per non turbare la pace della notte. Il fuoco scoppiettava in lontananza.
Poi sentì un gran freddo. Aprì gli occhi e rabbrividì. Si ritrovò su un'altura ghiacciata, la neve gli arrivava fino alle caviglie e gli era penetrata nelle scarpe, bagnandogli i calzini. Ad ogni passo emettevano un suono disgustoso. Il vento era alto e ululava, mentre i fiocchi cadevano in abbondanza.
Due figure avanzarono nella tormenta. La prima correva senza intoppi nella neve, la seconda tentava di stare al passo dell'altra.
«Vent, bror!» disse la seconda. «Ormai è fatta, non può essere fermata!»
«Devo riportarla qui» rispose la prima con fare irrequieto. «È mia figlia.»
«Sai bene che non lo è più. L'ha morsa un alpha naturale, è sua!»
«Sistemerò le cose, l'ho già fatto una volta. Chiederò un altro...»
«No! Hai già dato via ogni cosa, cos'altro potresti dare?» lo interrogò, temendo la risposta. Il primo abbassò le spalle e si indicò. «Ci servi ancora. Arcadia si regge su di te. Se te ne vai... Ti uccideranno. È stato clemente perché lo divertivi, ora ti massacrerà. Per lui è una questione personale, sai bene che ti volesse...»
«So quello che faccio» ribadì. Frugò nella tasca interna del suo giubbotto di pelliccia e passò all'amico un libricino. «Tieni questo. Nascondilo a casa mia, fa' in modo che nessuno lo trovi. Fallo e sta' in silenzio. Sono sempre tornato, o no? Mica voglio rubarti il turno.»
Il compagno afferrò l'oggetto e lo rigirò tra le mani scontento. «Avresti dovuto distruggerlo! Ci sono troppi segreti qui dentro. Perché non lo hai fatto in tutto questo tempo?»
La prima sagoma restò in silenzio. «Ci sono troppi segreti» ripeté. «Ed è l'unico ricordo che ho di loro. Senza di questo... ho paura di dimenticarli e diventare come lui. Devo ricordare. È il modo migliore.» Alzò la testa, udendo qualcosa di impercettibile. «Cazzo, ma quanto è veloce? Devo precederla prima che arrivi alla capitale o la uccideranno. Dammi tempo.»
«Fino alla morte, bror.»
I due si diedero la mano e la prima ombra si lanciò ai piedi della collina, slittando sul ghiaccio con maestria. Prima di scomparire ebbe un secondo impulso, di sfuggita vide una donna. Era di spalle e riuscì a scorgere solo dei ricci bruni. Stava facendo qualcosa e non sembrava affatto soddisfatta. La sua aura splendeva, simile ai raggi della luna.
Qualcuno lo pizzicò alle spalle. «Allora, vuoi darti una mossa, moccioso?» dileggiò la voce in scherno.
Zero si spaventò e il collegamento empirico si ruppe, facendolo piombare nel mondo reale. Gli faceva male ogni parte del corpo, si era addormentato seduto contro un albero e si sentiva le chiappe piatte, in aggiunta alle gambe formicolanti. Al contrario di molti altri cuccioli, era fin troppo abituato a dormire su un letto vero.
I successivi dieci minuti li passò a massaggiarsi i muscoli, fino a quando il dolore cessò del tutto e riuscì a rimettersi in piedi senza barcollare. Era notte fonda, l'oscurità faceva da padrona ovunque ad Arcadia e quel giorno era più nera che mai. Avevano acceso dei fuochi e i lupi vi erano attorno, stretti l'uni sugli altri a russare. Il cielo era limpido, le cicale frinivano e alcuni animali notturni erano usciti dalle loro tane, appollaiati tra gli alberi.
Studiò il perimetro e camminò, fingendosi sonnolento. Sua madre era addormentata accanto a Bjørn e le dormivano sopra due bambini, gli altri campioni erano vicini, distrutti dalla fatica. Di Joseph e Lance non c'era alcuna traccia.
Sviò da un lato con lo stesso fare evasivo e si allontanò. Una Vampira gli si parò davanti. Si chiamava Marìa, aveva dei lunghi capelli neri stretti in due trecce e uno scialle grigio e arancio sulle spalle. Curvò attenta la testa e gli tagliò la strada.
«Tu dovresti proprio essere a letto, cucciolo cattivo» lo sgridò ridacchiando.
Le Vampire avevano un debole per lui, nessuno lo aveva mai sgridato davvero in vita sua, nemmeno quando aveva preso uno specchio e aveva provato a dare fuoco a Jake.
«Dovevo fare la pipì» rispose.
Marìa gli indicò il cespuglio alla sua destra e Zero si stizzì. Il suo istinto gli suggeriva di andare a nord, laddove aveva visto quei due uomini e cercare quello che avevano nascosto. Avrebbe trovato risposte. Ne era sicuro. Ma allo stesso modo nessuno gli avrebbe dato il permesso di farlo. Allontanarsi da solo era una follia, lo sapeva da sé e voleva trovare un modo per non parere un pazzo furioso a parlare di visioni e magie senza prove.
«Non riesco proprio a dormire. Ho davvero paura che ma' e pa' possano farsi male a causa mia» recitò e gli occhi della Vampira brillarono di compassione. «Ho troppe energie, vorrei un sacco giocare. Ti va di giocare con me, Marìa?»
«Che gioco hai in mente?» canticchiò frivola.
«Nascondino. Tu conti e io mi nascondo. Se mi trovi hai vinto e vado a dormire.»
Marìa borbottò. «Mi piacerebbe un sacco giocare con te... Oh, se lo sapesse Lance me ne direbbe quattro o cinque! Sai bene che non dovrei parlare con te da sola.»
«E allora non glielo diremo» optò Zero, facendosi segno di cucirsi la bocca. «Insomma, sei un Vampiro. Vincerai facile contro di me! Io però so nascondermi bene.» La Vampira corrugò la fronte. «Okay, allora lo chiederò ad un'altra...»
«No!» strillò in panico. «Voglio giocare io con te! Per favore, non dirlo a Lance.»
«Ti batto, ne sono sicurissimo!» esclamò, pronto a correre.
Marìa gongolò e si coprì gli occhi, cantilenando a ritroso i numeri dal cento. La Vampira non era un segugio, tuttavia sapeva cogliere le tracce naturali con altrettanta maestria. Johanna le aveva detto che era nata e cresciuta da qualche parte in Perù due secoli prima.
Zero volò nella foresta senza guardarsi mai indietro, non poteva permettersi di perdere un singolo secondo di vantaggio. Conosceva a memoria i boschi vicino casa, ci era cresciuto e avrebbe riconosciuto la strada con gli occhi chiusi e senza alcun punto di riferimento. L'unica cosa che temeva della Vampira fu la velocità, avrebbe seguito le sue tracce senza mai perderlo. La "scia" che seguivano i predatori era un misto di varie cose, aura, odore, sangue e paura.
Corse verso il fiume Kĕr-Par'Vĕll. C'erano numerosi laghi e torrenti tra est e sud, gran parte di quelli nasceva dalle alte cime del permafrost e sfociava nel mare meridionale, passando per campi e colture. L'acqua era calma e lo scroscio sui sassi gli fece tornare a galla il ricordo dei quattro ragazzi a poche ore dall'attacco di D'va Grammell. Studiò l'angolazione della montagna. Era sul lato sbagliato.
Lasciò il suo odore un po' ovunque, tra foglie e alberi, poi si gettò nel fiume e andò sott'acqua, nuotando in apnea. Era l'unico modo conoscesse per confondere momentaneamente i Vampiri e i Licantropi, la scia si disperdeva in acqua. Avrebbe rallentato Marìa a lungo. Sperò che la Vampira non fosse stata presa dai rimorsi e avesse chiamato Lance per avvertirlo, in quel caso avrebbe potuto dire addio alle sue gambe.
Nuotò a lungo nel fiume, fortunatamente calmo e senza grossi pesci nelle vicinanze. I pochi erano minuscoli e rossi, se ne stavano in branchi sotto i massi e le alghe scure. Seguì la stella del nord e fece del suo meglio per concentrarsi sul suo scopo. Non voleva fermarsi a pensare che fosse una pessima idea, al fatto che, se i nemici lo avessero preso, avrebbe sentenziato un'amara sconfitta a tavolino. Ma ormai era a metà strada.
Continuò impavido, certo che fosse la strada giusta da percorrere. Qualcosa dentro di lui gli suggeriva che il nord avesse le risposte. Fu l'unica cosa che pensò, altrimenti avrebbe battuto i denti dalla paura: quegli abitanti si erano dimostrati ostili e solitari a lungo, mettere piede nei loro territori con una guerra in corso avrebbe potuto vanificare gli sforzi della corona reale per coinvolgere di nuovo le cittadine maggiori all'apertura. Zero là era visto come un nemico, un'anomalia.
La corrente divenne più rapida e Zero si lasciò trasportare fino al confine, alla linea di terra che divideva est e nord. La città più vicina, Pyòttyr, era distante leghe e le capanne dei contadini erano scomparse nel buio o rase al suolo dal mandato di Gwyn. Probabilmente i campi di grano e di riso erano pieni di cadaveri.
Era agosto e si domandò come fosse possibile che stesse nevicando. Gwyn una volta glielo aveva spiegato con paroloni complicati, era colpa dell'altitudine, del vapore acqueo e dell'umidità bassa. Le temperature d'inverno calava fino a venti gradi sottozero e quella notte non superava i cinque. Il nevischio aveva creato a terra una patina di fango scura, la pioggia gli pungeva il naso e, bagnato com'era, rabbrividì. Il suo corpo bruciò più energia possibile per scaldarlo.
Superò il confine ed entrò nel nord. La vegetazione era differente, così come i boschi, più selvaggi e fitti. Sentiva numerosi animali selvatici di grossa taglia emettere suoni poco amichevoli, pronti a difendere il loro territorio. Rimpiangeva di aver lasciato al campo il suo coltello.
Salì sulla Grande montagna a stretto contatto con il permafrost. Scommise che nessuno alla Lega lo aveva visto così da vicino. Le rocce da un certo punto del versante erano ghiacciate, avvolte in uno strato perenne di gelo. Alcune erano così lisce da poterci pattinare sopra ed erano dure, impossibili da scalfire con un comune scalpello.
Sapeva poche cose del nord e tutte gliele aveva dette sua madre. Lei era nata a Snødden, la capitale di quella gelida regione, ma la sua casa era altrove, proprio dove si stava dirigendo Zero a gran passo. Stare in quei territori lo inquietava: c'era pochissima luce e la poca proveniva dal cielo stellato. Si chiese se i popoli del nord fossero a conoscenza del tradimento di Gwyn e della morte del re Gael, se qualcuno avesse osato attaccarli.
Pessima scelta, calcolò. Il nord era una trappola mortale.
Al termine di un'infinita salita, scovò un'area pianeggiante. Era piana, nascosta da vento e pioggia dalla sottocima della montagna. Alzando il naso, la maestosa parete di roccia era alta verso il cielo. In quel minuscolo angolo di paradiso era sorto un cimitero: la casa che i suoi nonni avevano costruito era crollata su se stessa e vi rimanevano solo macerie prive di valore. Le pareti erano crollate e di integro non c'era nulla. Nessuno era mai andato a frugare in quel posto, il popolo intero di Arcadia aveva associato quella casa crollata al cimitero del suo campione più forte. Nemmeno Chloe era mai tornata.
Ovunque erano nati dei funghi gialli dall'odore pestilenziale. Erano l'unica ombra di vita in quel luogo deserto e Zero ebbe l'impressione di non dover affatto essere lì, che stesse facendo una cosa cattiva a voler frugare in mezzo alle vecchie cose di sua madre. Sapeva cosa avesse fatto molti anni fa, quella era opera della sua ira e i suoi genitori erano morti. Era già successo, non era una novità o tragedia che qualche cucciolo facesse una strage o due. Quella di Chloe tuttavia fu resa imperdonabile, un campione ne aveva ucciso un altro. I simboli maggiori di speranza e fedeltà erano crollati all'unisono.
Cercò in giro, senza sapere bene cosa e dove guardare. C'erano oggetti vari, quadri rotti, piatti, sedie e mobili consunti dal tempo. Le intemperie naturali avevano dato il colpo di grazia, neve, vento e pioggia avevano sciolto qualsiasi traccia umana. Trovò sotto una porta un peluche a forma di serpente. Doveva essere appartenuto a Chloe da piccola. Di lei non conservava alcun odore.
Perse troppo tempo a caso e se ne rese conto.
«Avanti» spronò, battendosi la testa. «Sono qui. Sono proprio dove dovevo essere. Datemi un segno.»
Attese un fulmine, un ululato teatrale o la discesa dal cielo di qualche entità.
Nulla avvenne.
«Andiamo! E che cazzo...» urlò, dando un calcio ad una caraffa.
Il recipiente volò via, scagliandosi contro alcuni vetri rotti. Dal buco di un mobiletto uscì spaventato un coniglio, aveva gli occhi rossi e il manto di un candido color neve. Ancor prima che Zero potesse pensare di acchiapparlo e mangiarselo per consolazione, l'animaletto saltò via impaurito. Come una scheggia, saltò la sua tana e si fiondò oltre, volendosi gettare nei boschi. Si schiantò contro un piccolo capanno di legno che anche al cucciolo era sfuggito.
La scena lo fece morire dal ridere. Il coniglio scomparve senza lasciare traccia e Zero si avvicinò alla minuscola e fatiscente baracca. Doveva trattarsi di una vecchia casupola per la legna invernale e gli attrezzi da giardino, ce n'erano rimasti alcuni, tra cui cesoie, un'ascia sporca e alcune travi umide. L'aria puzzava parecchio di muffa.
«È l'ultima volta che do retta alla mia testa» imprecò stufo.
Spostò un piede e una trave al di sotto cigolò forte, tanto da farlo sobbalzare. Si mise a carponi e tastò le lastre, graffiò la giuntura tra le due e, come si aspetto, una si sfilò. Al di sotto c'era una piccola buca e dentro, avvolto in un lurido lenzuolo, c'era un libro.
Zero lo prese e lo pulì. Era un diario e dall'aspetto era davvero vecchio e malridotto. Aveva pagine mancanti, piegate o sulle quali erano incollati fiori, conchiglie o altre cianfrusaglie senza valore. Era così spesso e le pagine secche a causa dell'umidità che dovette prenderlo con entrambe le mani. Temeva gli si sgretolasse tra le dita.
Aprì la prima pagina. C'erano disegni strani, brutti, e rune. A grandi caratteri, quasi fosse stato un ragazzino alle prime armi con l'alfabeto, c'erano scritte delle parole incomprensibili. Non aveva mai visto quei caratteri prima di allora, il tratto era pesante, le lettere lunghe e piene di spigoli.
Passò un dito sul nome. In qualche maniera lo sentì dentro. Suo.
Quello era il diario di suo nonno Zero.
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