XXI

Chloe rammentava il rapporto tra suo padre e Gwyn, parevano odiarsi e ogni parola era un trampolino per una discussione. Per quanto lo avesse negato, Zero aveva fatto qualcosa di grave all'anziano, qualcosa che il Saggio non aveva detto e che l'ex campione si era portato nella tomba. Il loro non era stato semplicemente un rapporto difficile, c'era una confidenza nel modo in cui si guardavano e si parlavano. Gwyn era in prima fila quando c'era da riprenderlo o punirlo e rideva quando Zero veniva convocato a corte, subendosi ore di rimproveri e minacce varie.

Ciò che a Chloe faceva paura era il potere di Gwyn, quello che andava oltre la sua frusta e la sua fioca magia, il suo carisma e il dono che aveva nel parlare. Poteva convincere un Demone a piangere e un Angelo a sanguinare. Benché lo odiasse, aveva tenuto Arcadia in vita numerose volte, aveva aiutato ad appianare i disastri di Zero, la siccità dell'ovest o gli inverni rigidi e senza selvaggina al nord. Il popolo lo venerava.

«Cos'altro hai sentito?» lo spronò Chloe, pregando di sentire una buona notizia.

«Niente. Zero ha visto che stavo origliando e si è incuriosito, Enrique si è arrabbiato con entrambi e io sono venuto qui. Interrogheranno Ru per sapere la sua versione dei fatti, firmeranno la testimonianza e dopo andranno a perlustrare i perimetri per scovare delle faglie. Se la trovano è un guaio serio. Gwyn avrà un bel pasto da offrire a quel ciccione» sputò. «E che diamine facciamo con i McKingsley? Zero sa che aveva Cacciatori in famiglia?»

«Be', ora lo sa e farà domande» sospirò Joseph. «Nessuno dei McKingsley sa dove siamo, altrimenti avrebbero fatto domande precise quella sera, avrebbero cercato un perno per aprire un portale o quanto meno tracciarci. Per mio zio siamo dei topi nascosti.»

«E gli oni? Lo hanno inseguito. Joseph, sul serio, pensa se lo avessero preso. Zero avrebbe dato ai Cacciatori il suo fottuto DNA e un cristallo arcadiano. Questo nessun altro lo sa, o il re avrebbe mosso altre accuse. Ho visto quel mostro a Londra, quello che hanno creato mescolando strutture genetiche diverse. Osa pensare se avessero il cucciolo come base sperimentale, qualcosa che ragiona e si evolve» parlò Gabriel. «Devi ucciderli.»

«Non siamo assassini» si accodò Joseph.

«Joe ha ragione. Non ammazziamo nessuno. I McKingsley sono una delle tante famiglie, se ne stermini una intera le altre si muoveranno. In quel territorio hai anche i Dominatori, ci metteranno nella loro personale lista di mostri da uccidere» spiegò Chloe. «Ho visto come agiscono. Potremmo chiamarne altri, io avevo dei contatti con un'agenzia che...»

«Sono sempre umani!» urlò Gabriel. «Gli umani sono crudeli! Guarda cosa hanno fatto in quel laboratorio, hanno creato gli oni mescolando sangue di Demone con quello di Angelo ed è il tabù peggiore! Hanno ideato un Nosferatu e quei Dominatori sfruttano dei mostri per ucciderci. Noi vivevamo pacificamente in Romania e hanno ucciso i miei amici, la famiglia che avevo ottenuto! Se non lo farai tu lo farò io, ti ho avvertito.»

«Gabriel...» lo chiamò Joe.

«Gabriel nulla! Sono stufo di essere considerato un mostro solo perché siamo costretti a bere sangue per vivere! I Demoni lo fanno e possono fare quello che vogliono, al loro Re non importa nulla, e noi dobbiamo seppellirci in questa esistenza priva di valore. Ho già rinunciato alla luce, non farò altro a causa degli umani» garantì.

«Eravamo umani anche noi» sibilò Joe.

«Sì, e anche allora ero un mostro. Che ne sai tu? Tu hai qualcuno che ti ama, un figlio, una casa. Anche se perdessi uno, dieci o cento compagni andresti avanti, perché tu hai una famiglia! Io no!»

Chloe rimase in silenzio e non volle nemmeno provare a calmarlo. La sua era una rabbia diversa da quella normale a cui era abituata. Gabriel aveva vissuto da solo per molto tempo, ripudiato dal mondo, e quando aveva creduto di essere finalmente al sicuro i Cacciatori li avevano massacrati. Voleva vendicarsi.

Per quanto volesse consolarlo non voleva togliergli quelle emozioni. Erano troppo forti ed esigevano di essere vissute. Per quanto Joseph ci rifletté non capì mai a fondo l'affermazione; Chloe e Zero erano il suo mondo, il suo cuore.

«Lance non ha detto nulla sui Cacciatori. Se vorrà tagliare la testa al toro con questa situazione, sappi che sarò in prima linea. Mettiti in mezzo e taglierò anche la tua, di nuovo. O sarai dei nostri o contro. Scegli bene, forse sarà la tua ultima possibilità. Noi, o gli umani che hanno tentato di squartare la tua bella.»

Un muscolo della mascella gli palpitò e dovette mettersi una mano sulle labbra, spingendo i canini nelle gengive. Aveva fame e i suoi occhi scuri ne erano una prova. La rabbia non lo aiutava a controllarsi. Se ne andò più furioso di quando era arrivato.

Joseph gli corse dietro per parlare con calma, lasciando Chloe con quel senso di disagio alla bocca dello stomaco. Era un nodo che sentiva spesso quando era in ansia, un vuoto doloroso che le faceva venire voglia di vomitare. Le vennero a galla le parole di suo zio Tom, di quando le disse che nessuno avrebbe mai potuto amare un mostro come lei. Forse aveva ragione. Zero meritava una vita vera e l'aveva cercata altrove, nel mondo umano, quello da cui lei era fuggita come una codarda.

"Ha bisogno di me" le fece notare Chleo, rimbombandole nella testa. "Io posso proteggerlo."

«Sta' in silenzio! È a causa tua se mi hanno esiliata!» strillò.

"Siamo la stessa persona, io e te."


La visione lo scosse in un momento di tranquillità, mentre era indaffarato ad annodare le stringe della lanterna di carta. Fu la prima volta che gli capitò di averne una sveglio e venne all'improvviso, preceduta da un formicolio al centro della nuca.

Si ritrovò in mezzo ad un ruscello e stava schizzando una ragazzina con i capelli argentati e occhi lilla, prendeva a coppa l'acqua e gliela gettava addosso, bagnandole maggiormente la lunga toga bianca. Lei rideva. Provò a scappare, scivolò su un sasso ricoperto di muschio e cadde in acqua. La scena lo fece ridere a crepapelle e accanto a lui si levarono altre risate.

Due ragazzi erano a bordo del fiume, uno aveva i capelli neri e l'altro bruni, tagliavano a fette sottili un frutto arancione e lo gustavano, accarezzando l'erba a piedi nudi.

Aqua, la seconda ragazza, era in cima ad una di quelle rocce e stava muovendo le mani, seguendo la corrente e le onde docili del fiume. Seppure le pietre fossero bagnate e ricoperte di quella viscida sostanza verde, lei non scivolava mai. Le sue mani si muovevano nell'aria e l'acqua le danzava attorno.

Prima ancora che potesse smettere di ridere o rendersene conto, una freccia tagliò l'aria e gli ferì l'orecchio. Il ragazzo urlò d'istinto e i ragazzi a lato scattarono in piedi, lasciando cadere la loro merenda.

Ci furono dei forti colpi e la montagna tremò.

«D'va Grammell!» urlò Arya. «Ci stanno attaccando!»

Un gruppo di soldati si fece largo tra le fronde degli alberi, alzarono asce e spade per spezzare i rami che nascondevano quel bellissimo angolo di paradiso. Aveva sbagliato a credere di essere al sicuro, a dare fiducia a suo padre.

Flamel e Terra alzarono le braccia, pronti ad attaccare e l'eroe incespicò, faticando ad uscire dal ruscello senza inciampare. Con una mano sull'orecchio ferito fece cenno di andarsene.

«Andate via! Se vi prendono vi uccideranno!» urlò lui in panico, con i suoi compagni alle costole.

«Uccideranno te» specificò Terra. «Tuo padre sa che hai voltato le spalle ai suoi déi. Sei un uomo morto.»

Terra era sempre stato troppo abnegante per i suoi gusti. Dedicò uno sguardo a Flamel e con lui ebbe l'intesa che sperò: il ragazzo delle fiamme annuì e lasciò scemare i suoi poteri in una bolla di fumo rovente.

«Proteggete la cattedrale della luna! Non fateli arrivare lì!» pregò il ragazzo.

Aqua scivolò sulla superficie fino a riva e caricò Arya con sé, aiutandola a rialzarsi con i vestiti zuppi. La ragazzina balbettava impaurita, la pelle pallida e le unghie dipinte di una bella tonalità di azzurro naturale.

«Lo uccideranno! Non possiamo permetterlo, è il prescelto!» diceva.

Il gruppo di soldati uscì allo scoperto e urlò, indicandolo con strane smorfie. Tra di loro riconobbe vecchi amici, guerrieri con cui aveva condiviso rituali, notti di preghiera e digiuni a causa delle forti gelate invernali. Si erano dimenticati della promessa di cercare un posto migliore in cui piantare radici, creare una casa e coltivare. Come suo padre, erano spinti dalla sete di potere e bramosia. Da tempo avevano smesso di considerarlo un alleato.

L'eroe aveva scelto l'altra fazione. Gli indigeni. Le bestie. E come tale doveva essere trattato.

«Esci dall'acqua, figlio del capo. Odio fare a pezzi un uomo senza un'arma» disse Haakon. «Finalmente ti hanno fatto scendere dal tuo...»

Il ragazzo afferrò una pietra e gliela lanciò addosso, centrandolo sul naso. Il vichingo cadde a terra e urlò forte per la faccia devastata. Un dente gli penzolava dalla bocca e il sangue lo aveva sporcato fino al collo, mischiandosi alla sporcizia e al sudore.

Gli arcieri in prima fila inforcarono l'arco e tesero le corde, pronti a scoccare quelle temibili frecce. Si immobilizzò all'istante, capendo di non avere vie di fuga. Affilavano ad una ad una quelle frecce per rendere la punta più dura e tagliente, il resto era frastagliato, in modo tale da infliggere più dolore possibile. Suo padre, che era un uomo sanguinario, intingeva le sue frecce nel veleno per dare alla vittima un dolore supplementare.

«Il figlio del re finalmente in ginocchio. Ora non canti più?» lo tentò un altro. «Perché non fuggi come hai sempre fatto fino ad adesso?»

«Fuggire dalla morte è una stupidità che ancora non mi compete. Mio padre vi ha detto di uccidermi? Che pensiero gentile» sbeffeggiò, aprendo le braccia. «Coraggio. Una freccia nel cuore e l'altra in mezzo alla testa. Questo sì che sarà grandioso! Oppure venite qui e provate a prendermi, vi affogherò con le mie stesse mani!»

Gli uomini tremarono di fronte a quella minaccia. Il ragazzo era il figlio del re guerriero, era nato in guerra e ne portava l'odore addosso, nel suo sangue scorreva la stirpe dei più grandi eroi della loro storia. In guerra lo avevano visto combattere, era un pazzo e uno stolto, ma aveva la forza di dieci uomini e il coraggio di mille. Era stato l'unico a osare contrastare suo padre.

«Avanti!» spronò. «O verrò io e vi farò sanguinare come avete fatto con me!»

Haakon alzò la spada e alcuni guerrieri fecero lo stesso. Tremavano sotto le loro armature di ferro battuto e cuoio, guardando gli occhi glaciali dell'eroe farsi tempestosi come l'acqua del fiume.

La corrente ebbe uno spasmo e gli argini crollarono, inondando la sponda ovest. L'onda massiccia travolse la squadra di uomini armati e si udirono le deboli proteste sott'acqua. Ognuno di loro sapeva nuotare, erano cresciuti nel nord dove gran parte del cibo derivava dai boschi o dai fiordi profondi.

Aqua abbassò le mani e il fiume morì, staccandosi dalla sua magia. Fece un cenno al ragazzo e lui la ringraziò, per poi vederli fuggire nei boschi. Finalmente poté abbassare le spalle e rilassare la schiena, la freccia che gli aveva graffiato l'orecchio lo aveva punto in un lato pieno di nervi e sanguinava parecchio.

Era stufo di dover vivere quella vita. Aveva da tempo scelto con chi volesse vivere e come. Uccidere per gusto era piacevole, certo, ma non quanto avere dei veri amici, poter dormire sereni sotto la luna e mangiare raccontandosi storie e battute. Nella sua vita aveva dovuto accontentare suo padre e basta, c'erano stati i suoi desideri, i suoi ordini e le sue mire. Ora che aveva avuto altro, non poteva lasciarlo andare.

I suoi compagni sputarono acqua e cercarono di alzarsi, appesantiti dalle loro giubbe grondati. Alcuni di loro avevano perso la loro arma, risucchiata dal fiume e dalla sua forza. I pochi coraggiosi assunsero una posizione d'attacco e impugnarono le loro spade.

Kristoff annaspò e si mise in mezzo. «Aspettate! Ma che cazzo state facendo, lo vedete che è lui? È un nostro amico!»

Sveinn alzò le sopracciglia senza abbandonare la spada. «Finiscila! Tu e gli altri siete stati contagiati dalla piaga delle bestie. Siete traditori e verrete giudicati dal grande Odino come tali!»

«Una morte in battaglia» gracchiò Kristoff gongolando. «Che onore per me poter bere accanto ad Odino e sussurrargli all'orecchio quanto tu sia stato un vile bastardo. Mi accontenterò di vederti marcire nell'Helheimr.»

Sveinn tentennò, spaventato dall'idea di regalare al vecchio amico quel genere di morte. Morire in battaglia era il dono più agognato, tutti volevano ammirare la bellezza di Freyr e discutere con Tyr durante il banchetto degli déi.

Haakon schioccò la lingua. «L'unico che avrà il piacere di uccidervi sarà Ragnarr. Hai fatto incazzare tuo padre.»

Il ragazzo soffiò. «Che dire, lo è sempre con me.»

«Esci dall'acqua con le buone, oppure Kristoff e i tuoi amichetti avranno la gola tagliata» gli ordinarono e l'eroe sgocciolò sangue.

Kristoff aveva una misera spada legata alla vita, avrebbe tagliato due o tre teste per poi morire inutilmente. Decise di arrendersi e alzò le mani, camminando piano verso di loro. Appena mise un piede fuori dall'acqua fu circondato e legato. Si assicurarono di stringere bene i nodi e di girarglieli attorno ai polsi due volte, impedendogli qualsiasi movimento audace.

«Ritira gli uomini dalla Grande montagna, Haakon» avvertì il ragazzo. «Tu non sai chi vive lassù.»

«I tuoi amichetti saranno morti entrò un'ora e quell'ammasso di pietra cadrà. Abbiamo scoperto quale è il loro punto debole e sei tu. Ti trattano come un amico, uno di loro. Avrai il piacere di guardare la loro esecuzione in prima fila» esclamò. «Poi tuo padre ti taglierà la gola.»

«Sfidi forze più grande di me e di te. Parli di te come fossi un dio, ma sei solo un omuncolo troppo lento per schivare un sassolino» scherzò e qualcuno gli diede un pugno in testa. Tentennò e rimase in piedi, fissando gli occhi freddi di Haakon davanti a sé. «Stai dando fastidio a Beidu, la grande bestia del fuoco. Per loro è uno dei loro déi sacri. Gli distruggerai il nido.»

«Non ho paura di un uccellino che brucia. Hai rinnegato i nostri déi per i loro. Sei un traditore, una volta a quelli come te cucivamo gli occhi e tagliavamo la lingua, facendoli vagare nell'oscurità del loro peccato. Il re deciderà la tua punizione.»

"Che novità", pensò il ragazzo strafottente.

Dedicò una fugace occhiata alla Grande Montagna, alla splendida barriera naturale che si contrapponeva tra le quattro regioni, rendendole uniche tra loro. D'va Grammell sorgeva su un pinnacolo a est, laddove le acque del nord sbattevano impetuose ed erano tinte di un colore blu-grigio. Dalla pianura dove si trovavano era una minuscola punta color perla, costruita di un materiale opaco, bianco, che la rendeva un riflesso della luna.

Aveva già assistito ai rituali condotti dai suoi quattro amici, ogni mese giungevano pellegrini, credenti e cittadini, alzavano le loro mani e pregavano loro, i custodi elementali e invocavano Beidu e Hungirr, poi il loro guardiano supremo, il Lupo.

All'inizio il ragazzo non capiva cosa fosse o rappresentasse il Lupo. Per lui era un simbolo qualunque, un animale selvaggio incapace di controllarsi o controllare, con carne immangiabile e senza altri pregi. Nella sua vecchia religione era tutto scandito, ordinato e privo di dubbi: veneravano Odino, pregavano di donare una via sicura, di ottenere salute e fortuna. Thor per avere la forza e la perseveranza e con attenzione si assicuravano che Njord li benedisse con acque calme nei viaggi. Era nato e cresciuto con quei principi, con rune, incantesimi e tradizioni precise, a volte violente. Sapeva che sarebbe morto in battaglia e il suo spirito avrebbe varcato i cancelli del Asaheimr, parlando del ragnarök sotto Yggdrasil, l'albero che sorreggeva i nove mondi.

In quell'isola era tutto diverso. Libero. Selvaggio. Pieno di domande a cui rispondere. Fin dal suo primo passo aveva sentito un legame intrinseco e, voltando le spalle ai suoi cari e amici, non si era pentito affatto.

Un boato esplose nel cielo e il ragazzo ansimò. Kristoff gli afferrò un braccio, impedendogli di fare altre sciocchezze. Sulla montagna emergevano alcune deboli fiaccole e lui sperò che fossero quelli della resistenza, volti a difendere il loro territorio più sacro dallo spargimento di sangue.

«Sta' calmo» lo implorò Kristoff. «È finita.»

Dovette concentrarsi sull'odio che provava verso suo padre e la sua stirpe per non piangere. Aveva accolto l'isola e loro l'avevano fatto con lui, trattandolo come un pari. Ora la punizione al suo tradimento avrebbe costato la vita a centinaia di innocenti. Suo padre avrebbe vinto, di nuovo.

«Hai detto bene» ringhiò spazientito Haakon, sputando il sangue dalla bocca. «Egil e Adalsteinn stanno già marciando su quella montagna e presto tireremo giù quella stupida cattedrale. Cadranno, come te.»

Dovettero bloccarlo in quattro per spingerlo lontano da Haakon e, seppur con le mani legate, diede del filo da torcere a quella gente. Nessuno si azzardò a colpirlo di nuovo, avevano ricevuto ordini precisi ed erano quelli di riportarlo vivo dal re. Conosceva ciò che gli aspettava una volta giunti al campo: Kristoff, Kare, Steffen e Alexander sarebbero stati giustiziati senza onore, mentre lui avrebbe guardato D'va Grammell cadere. Senza la cattedrale, il luogo dove divino e reale si univano, i suoi amici sarebbero morti. Già da tempo avevano cominciato a farlo.

Venne trascinato di peso nella foresta e combatté lo stesso, dando calci, morsi e gomitate a chiunque osasse fiatare o solo per gusto, poiché provava troppa rabbia. Nessuno popolo di Arcadia meritava la morte, le regioni erano profondamente diverse e stabili tra loro, eppure con la minaccia degli invasori si erano uniti rapidamente, ricordandosi che fossero una singola entità.

Voleva di nuovo sentirsi parte di quello. Ma era debole. Solo.

«Quei mostri» stava dicendo il tizio alla sua destra. «Questa è magia nera, elfi oscuri e giganti. Hai visto gli occhi della ragazzina? Erano viola! Dovevamo andarcene da questo posto, è maledetto.»

«Ragnarr dice che hanno un enorme tesoro nascosto sotto la cattedrale» rispose un altro.

Evitò di ridere. Lui non aveva mai potuto varcare i confini sacri di D'va Grammell, ma sapeva che non ci fosse alcun tesoro. Niente pietre preziose. Niente oro. Niente ferro.

«E quei movimenti.» Tentò di replicare i gesti armoniosi di Aqua, finendo per essere preso in giro. «Faceva come le onde.»

«L'acqua imita lei» lo corresse il ragazzo acido, sottovoce.

Vennero scortati all'accampamento, lui e Kristoff, legati come criminali. Il campo era una zona di guerra, con tende, fuochi, animali sciolti e armi affilate ovunque, l'odore che si sentiva era quello del piscio mescolato alla brodaglia che mangiavano da giorni, un brodo oleoso di patate, cavoli e fagioli. I guerrieri puzzavano di sudore e sterco. Anche lui non si lavava da tempo, non ne era abituato.

In mezzo, il ragazzo si sentì un estraneo e coloro che aveva chiamato amici lo adocchiarono e fischiarono. Qualcuno osò tirargli persino un pomodoro sulla schiena ed esplosero in vili risate. Kristoff seguiva il suo eroe con lo sguardo mesto, senza proferire alcuna parola a parte imprecazioni.

Gli urlavano addosso "forræderkringeren" che significava "l'eroe che ci ha traditi". Lui camminava a testa alta, ancora bagnato da capo a piedi, i capelli scuri che gocciolavano e i vestiti sporchi di fango. Era cresciuto in quelle vesti, passando da ragazzino ribelle a guerriero temuto dagli déi. Erano molti a pensare che il suo atto fosse il simbolo maggiore di coraggio, l'unico che si era impuntato e ora aspettava la giustizia divina di Odino senza timore. Coraggio e stupidità, un miscuglio che lo avevano condotto in quell'isola e gli avevano aperto gli occhi.

Una delle guardie bloccò Kristoff all'entrata della tenda del re. «Lui no. Tu faresti meglio ad entrare, e togliti quell'espressione dalla faccia!»

Gli diede una spinta e Haakon lo trascinò dentro la tenda del grande re dei vichinghi, l'ultimo posto sulla Terra in cui voleva trovarsi. Quei miseri teli erano tirati da fili che si univano agli alberi e da cui pendevano rune e decori tradizionali, c'erano dei tavoli ricolmi di boccali di birra e varie mappe. Al suo interno si stava già svolgendo un'adunanza di guerra e i guerrieri avevano in aria le loro spade, Steffen era a terra con il volto ricoperto di sangue, svenuto, con ancora chi lo stava picchiando.

Appena il ragazzo entrò la folla si zittì e gli aprirono un varco in silenzio. Nessuno seppe giudicare se quella reazione fu di paura o disgusto. Voleva correre dal suo amico e soccorrerlo, metterlo almeno sul fianco e impedirgli di soffocare tra saliva e sangue, tuttavia Haakon non glielo permise e lo gettò in avanti.

Davanti a lui c'era un trono fatto di legno, spade e ossa, forgiati insieme in un unico blocco. Sopra di esso era seduto il re, suo padre Ragnarr. Il figlio lo guardò con odio sprezzante mai nascosto e riuscì perfino a fargli un sorrisetto audace, prima che Haakon gli picchiasse le gambe e lo facesse cadere in ginocchio ai piedi del re.

Chinò la testa contro la sua volontà, fino a picchiarla a terra in un lamento continuo.

«Ora basta» ordinò Ragnarr, sollevando una mano.

Il ragazzo aveva la faccia macchiata dalla terra bagnata e cercò comunque di darsi un tono davanti a suo padre. Ragnarr era un uomo robusto, le spalle ampie percorse da muscoli, cicatrici e tatuaggi con la storia della loro stirpe, lui stesso era diventato una pagina scritta in onore del suo dio. Quei simboli erano oltraggiosi e a lungo aveva pensato che quei serpenti sulle braccia si muovessero. Portava i capelli lunghi racchiusi in una treccia che gli pendeva su una spalla, il volto privo di qualsiasi emozione umana e furiosi occhi di ghiaccio.

Stava affilando il suo pugnale e con esso si pulì le unghie incrostate. «Tirati su, sei un uomo o un maiale?» lo sfidò e il ragazzo deglutì, tornando in piedi.

Si era aspettato un'accoglienza diversa e il fatto che ancora avesse la gola integra e nessuno dei suoi migliori amici fosse stato fatto a pezzi, gli fece presumere che suo padre volesse ottenere qualcosa. Gli aveva tenuto nascosta l'amicizia e la fiducia instaurata con i suoi quattro amici maghi, la natura del loro potere e quello che aveva imparato.

Il potente re vichingo si alzò in piedi e gli mise il coltello alla gola senza battere ciglio. Attese una reazione e il ragazzo rimase immobile a percepire la lama affilata sulla pelle, gelato dalla paura.

«E così sei pronto a morire. Le norne si erano sbagliate su di te e il tuo nome... dovrei toglierti anche quello» ingiunse, staccandogli il coltello dalla gola. «Sono fin troppo buono, che possano perdonarmi.»

«Mi lasci vivere?» chiese spiazzato il ragazzo.

Ragnarr era stato un guerriero, un conte e infine era divenuto re dei norreni. Lo aveva visto poco nella sua infanzia, sempre occupato a conquistare nuovi territori e potere. Sua madre nemmeno se la ricordava, era morta di parto e non c'era alcuna traccia di lei. Ragnarr lo aveva affidato a delle balie e ogni tanto tornava a vederlo, alzava un angolo del labbro e riprendeva la sua carneficina. Questo fino all'età di otto anni, quando al ragazzino venne insegnata l'arte del massacro e si dimostrò superiore.

«Dopotutto sono tuo padre, sei una parte di me» borbottò l'uomo.

Il ragazzo affilò lo sguardo sospettoso. «Uccidimi» ordinò. «Se credi che ti dia qualcosa...»

«Non voglio le tue parole. La tua lingua mi è inutile» lo bloccò nervoso. «Otterrò quello che voglio. Intendo solo fartelo vedere. Infine, sì, quando la cattedrale della luna sarà fatta a pezzi e piscerò sui cadaveri di quei quattro bastardi, ti ucciderò. Sapevo fossi inferiore, era tua madre che voleva un figlio e il suo desiderio l'ha condotta alla morte. Le norne avevano predetto l'immortalità della mia stirpe e mi ritrovo con te. Un idiota, uno sfaticato, un traditore che ha voltato le spalle alla sua storia e alla sua famiglia.»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Era stufo di quelle manfrine. Non esisteva alcuna famiglia in quel mondo, nessun riconoscimento o abbraccio a fine giornata. Qualsiasi cosa facesse suo padre la faceva per se stesso.

«Tu non sei la mia famiglia» rimirò e la folla borbottò inorridita. «Sei morto per me.»

«E tu lo sarai dopo la tua ultima sciocchezza» esclamò leggero.

Cambiò repentinamente espressione e lo afferrò per i capelli, strattonandolo per fargli alzare lo sguardo alla Grande montagna che stava bruciando. Le sue orecchie vennero otturate in maniera spontanea da grida di dolore, dal clangore delle armi e dal pianto dei bambini orfani.

«Non puoi spargere sangue sulla Grande montagna! D'va Grammell è un luogo sacro» urlò.

«Ho perso troppo tempo con quei rozzi animali. Il sangue sta già colando e bagnerà questa terra, rendendola fertile per il nostro nuovo mondo. La stella che ci ha guidati è la chiave per il vero tesoro, i tuoi amichetti sono solo l'ultima porta. Avrò quello che stanno nascondendo» pretese. «Avrò quel mondo.»

«Che mondo avrai se lo stai facendo a pezzi?» rimirò furibondo. «Gudvangen è morta a causa tua! Non c'è niente là, è un luogo di culto.»

Ragnarr inclinò il capo e alcune ciocche crespe gli scivolarono sulle orecchie ricoperte di anelli di metallo. «Culto» ripeté assorto. «Venerano degli animali. Un uccello. Una serpe marina e... un lupo!» La folla esplose in risate di scherno e il ragazzo arrossì. «Bestie che venerano bestie, ecco cosa sono. Noi siamo i guerrieri di Odino, i suoi occhi, la sua spada e il suo giudizio. L'indovino ha decretato che saremo noi a vincere.»

Lui lo imitò, strizzando gli occhi e fece un sorrisetto compiaciuto. Arcadia era una pura potenza magica, pulsava e avrebbe combattuto contro di loro a costo di affondare su se stessa. Niente avrebbe potuto distrarre suo padre dalla guerra, eccetto un degno rivale.

«E tu...» continuò, girandogli intorno e giocherellando con una delle treccine che Terra gli aveva fatto. «Hai scelto loro.»

«Sono stati i loro déi ad avermi scelto» precisò.

Gli arrivò uno schiaffo sulla faccia e il ragazzo si morse la lingua. Assaporò il sapore del sangue derivante dal labbro, troppo familiare per i suoi gusti, e prese un grosso respiro. Morire non gli faceva differenza, sapeva di essere stato un assassino e di non meritare alcuna pietà; riusciva solo a pensare ai suoi amici, all'avanzata dei vichinghi e del fatto che fosse stata colpa sua.

Lui non era l'eletto. Flamel si era sbagliato.

Li aveva condotti là. Era tutta colpa sua.

«Sentirai le mie parole ancora e ancora, padre. Potrai tagliarmi la lingua per quest'affronto» affermò sincero, gonfiando il petto. «Ancora adesso nei tuoni sento il martello di Thor che si abbatte sulla volta celeste, nelle radici degli alberi vedo la linfa vitale di Yggdrasil e nell'amore di una madre scorgo il volto di Freja. Ma qui io ho visto. Ho visto il grande uccello di fuoco che domina i cieli e che scalda la terra, Beidu. E ho visto Hungirr, il serpente che ha fatto affondare le nostre navi e difende il rift. L'ho toccato.»

Dei bisbiglii si levarono cupi. Ragnarr strinse i pugni scontento. Urdr, Skuld e Verdandi erano apparse quando il piccolo eroe venne al mondo dal ventre di sua madre, appena il suo ultimo respiro fu esalato, il bambino aveva cominciato a piangere. Lo benedissero con una premonizione, il fatto che sarebbe stato un eroe immortale e che la sua stirpe avrebbe pesato sulla bilancia finale.

«E il lupo? Hai toccato anche lui?» lo interrogò suo padre borioso. «Ci farò una pelliccia.»

«Che altro animale può esserci di più nobile? Il lupo è l'emblema dell'essenza della vita, indomabile, selvaggia, ma anche benevola, volto a proteggere il suo branco e il suo territorio. Metti questa gente in gabbia e ti morderanno. Ti ho avvertito. Sei cieco se non vedi la tua sconfitta, padre» sottolineò.

«Lo vedremo» gli berciò all'orecchio. «Io ho ancora la protezione divina.»

Il ragazzo abbassò gli occhi verso il tatuaggio del serpente impresso sul braccio e, di nuovo, ebbe un malessere. L'occhio dell'ofide si assottigliò, quasi lo stesse prendendo di mira e volesse morderlo.

«Eri il nostro campione, maledetto! Traditore!» urlarono dalla folla.

«Eri uno dei nostri, il først av menn, il primo degli uomini!» si accodarono.

"Potessi togliermi anche il nome", pensò stizzito.

Alzò le spalle. «Ora sono il loro» rispose e ottenne fischi maggiori. «Attaccate e vi farò a pezzi, a costo di trascinarvi di peso del regno dei morti. Posso farlo! Sapete che posso!»

I soldati si guardarono meditabondi. Prima dell'isola erano stati in Germania, in Inghilterra e in Russia e ovunque l'eroe portava con sé una spada intinta di sangue, aveva fatto da retroguardia notevoli volte – un compito arduo e pericoloso – e grazie alla sua linea di difesa avevano vinto veloci e brutali. La stirpe di Ragnarr discendeva dai Vanir, raccontavano, avevano la guerra nel sangue.

«L'eclissi è oramai alle porte» acclamò Ragnarr e i suoi soldati applaudirono. «Marceremo su D'va Grammell, scuoieremo quegli animali che si opporranno al nostro grande destino e apriremo le porte supreme! Oggi noi vinceremo la nostra ultima battaglia!»

Il ragazzo rimase inerme, legato, mentre i suoi vecchi compagni marciarono fuori dalla tenda e presero scudi e armi, pronti alla battaglia. Si fissò la corda sui polsi, poi Steffen che lentamente stava riprendendo conoscenza. Senza un miracolo sarebbe morto nel giro di qualche ora, aveva perso troppo sangue.

Ragnarr si mise i guanti di pelle, stringendoseli bene. «Sei stato la mia più grande delusione, figlio. Su questo non ho dubbi. Il fato è inciampato con te.»

«Morirai» gli fece notare di nuovo, calmo. «Ed è ovvio, anche i tuoi stupidi déi lo sanno. Qui loro non ci sono. Fenrirr uccide Odino. Il lupo schiaccia l'eterno.»

Ragnarr si fermò e lui pensò di avergli dato qualcosa su cui riflettere, però in seguito ottenne una fiacca reazione. Si legò la spada alla vita e si massaggiò il braccio tatuato.

«Odino non è il dio che dovresti temere adesso, sciocco. Percorrerai un'ultima volta il sentiero che ti ha condotto alla morte e te ne pentirai» terminò, tirandolo con sé.

La scena cambiò drasticamente, si trovava sotto un cielo rosso e la luna era piena, color sangue. Nel petto dell'eroe c'era solo un grande terrore e senso di colpa. Gli faceva male tutto il corpo, riusciva a malapena a muoversi. Intorno a lui la battaglia era già iniziata e finita, il campo era tappezzato di cadaveri e c'erano quelle dannate particelle nere che avevano invaso l'aria, rendendola irrespirabile. D'va Grammell era caduta.

Davanti a lui c'era una bestia. Aveva le fattezze di un lupo, ma era deforme, storta, con pelo ispido, occhi sporgenti e denti gialli. Era quello a dividerlo da Ragnarr; suo padre era in piedi per miracolo, il braccio rotto e aveva una ferita aperta dal collo fino al ventre.

«Mi dispiace!» pianse davanti al mostro, il quale uggiolava e si guardava attorno. «Io non avevo intenzione di... Non lo sapevo...»

Il lycan lo guardò disperato, si guardò le zampe mutate e scoprì i denti, lasciando che l'ultimo baluardo di umanità gli scivolasse addosso.

«Ci hai condannati tutti, maledetto!» urlò Ragnarr, con le serpi oscure che gli si stritolavano addosso.

«Mi dispiace tanto!» urlò e tagliò la testa a quello che prima era un suo amico.

Il cristallo bianco tintinnò al collo dell'eroe. Il primo.

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