Il ragazzo giocherellava in bilico su un dirupo. Osservava ridacchiando lo strapiombo ripido sotto i suoi occhi, gli scarponi di cuoio scivolavano sui sassi ricoperti di brina e la pesante sacca sulle spalle minacciava di fargli avere un incontro faccia a faccia con la morte. La bisacca puzzava di carne morta; i boschi di quell'isola erano gremiti di selvaggina, in pochi giorni aveva visto cinghiali grossi quanto un orso e conigli capaci di strapparti le dita. Tempo prima a Steffen era caduto addosso una specie di procione con quattro occhi e aveva urlato come un bambino. Lui, Kristoff e Alexander avevano riso fino ad avere il mal di pancia, poi se lo erano divorato per cena. Delizioso.
Ora l'eroe era in cerca di un altro amico, sognando di avere una nuova avventura a cui prendere parte. L'isola era ricolma di segreti, di magia vera e lui voleva viverla. Scoprirla. Se suo padre lo avesse visto passeggiare in quelle zone lo avrebbe picchiato di nuovo e le ultime botte erano ancora violacee sulle braccia. Avevano idee troppo diverse per poter continuare a vivere pacificamente, il bambino era diventato un uomo ed era, come lo definivano tutti, "testardo quanto un sasso".
Sapeva di esserlo, ma per lui era una dote, non un difetto. Sua madre era morta di parto, gli avevano detto che era nato storto e lei aveva perso troppo sangue. Non era mai stato allattato da nessuna levatrice o madre di strada nella sua terra, suo padre, il capo della prima tribù lo aveva vietato. Ancora poteva annusare l'odore di sangue sulle dita, le grida di persone innocenti massacrate sotto il nome di suo padre.
Aveva lasciato il villaggio alle spalle e si era arrampicato verso nord. Per quanto lo riguardava, l'isola era una coltre unica e imprevedibile: a sud c'era quasi sempre un tempo mite, umido, l'ovest e l'est avevano campi ottimi per essere coltivati, boschi da sfruttare e animali da allevare. Il nord però sfuggiva ai controlli. Era irregolare, pericoloso. La prima squadra di ricerca era stata trovata morta sbranata da qualche animale, coloro che erano sopravvissuti erano morti assiderati nel gelo. Quella neve perenne era il segno che fosse nel territorio selvaggio.
Si guardò intorno. Non c'erano segni di persone nei paraggi. Persino gli abitanti del nord se ne stavano appollaiati nelle loro dimore, al caldo. Saltellò verso una gola stretta e ficcò la testa dentro la roccia. L'aria all'interno era fetida e sentiva in faccia la puzza di acqua salina.
«Ehi!» urlò forte. «Vieni fuori, ti ho portato la cena, amico! Ti prometto che non ti farò niente! So benissimo che puoi sentirmi, quindi non ignorarmi!»
Slacciò i lacci della saccoccia e prese un pezzo di carne di cervo. Era freschissimo, aveva persino ancora appiccicati addosso dei peli, rossa. La agitò davanti all'apertura e ciò che ebbe in risposta fu un lungo sibilo stizzito.
«Cavolo, sei bello indignato! Ti ho chiesto scusa, i miei amici non sono abituati a vederti e, ammettilo, sei uno spettacolo terrificante!» lo prese in giro e notò appena una cresta muoversi tra le rocce. «Va bene! Significa che questo me lo mangio io, allora!»
Alzò la voce e saltellò via, fingendo di masticare quel pezzo di carne succulento. All'improvviso la terra sotto di lui si mosse e l'acqua si agitò, le onde si alzarono e sbatterono contro la scogliera in travolgenti mulinelli. Dal pelo dell'acqua si alzò la testa del serpente, i suoi occhi brillavano famelici e le scaglie riflettevano la luce della marea.
«Eccoti qua, amico mio!» esultò il ragazzo. «Nyt måltidet! Buon appetito!»
Gli lanciò la carne, la quale scomparve tra le sue fauci, eppure il mostro si mosse estasiato e si avvicino, affilando gli occhi. Le pupille ellittiche, di un giallo canarino, gli fecero venire i brividi. Il ragazzo prese un po' di neve e gliela tirò addosso. L'ofide soffiò in un minuscolo starnuto e si avvicinò alla scogliera, scoprendo i denti.
Ebbe l'impulso di correre via, ma rimase immobile senza far trasparire la paura. Era un essere umano, in fondo, era stato addestrato dai migliori maestri e guerrieri, soprattutto da suo padre. La lezione più importante era quella di non lasciare trasparire la paura in battaglia, specie davanti al nemico.
I denti del mostro marino erano seminascosti entro le pieghe della mucosa orale, in una appiccicosa guaina elastica. Scoprì gli aglifi e l'altro capì il messaggio. Prese la sacca e gli rovesciò dentro il resto dell'animale, dopodiché lo fissò mangiare con gusto.
Il ragazzo rimase a fissare divertito e incredulo il mostro davanti a sé. In un solo morso lo avrebbe potuto fare a pezzi e a suo padre sarebbero saltati i nervi se lo avesse visto là, lontano dal suo controllo. La notte scorsa aveva fatto un lungo discorso al clan, li aveva incitati alla guerra e avevano affilato lance e spade. Il ragazzo aveva un nodo allo stomaco, sapeva che suo padre e la sua gente stessero facendo qualcosa di male solo a calpestare la terra sacra di quell'isola. Il prossimo passo sarebbe stato distruggere il monastero sulla Grande montagna ed espandersi. Era quello il loro unico scopo.
Per molto tempo, ci aveva creduto anche lui.
Si era fermato a pensare e il mostro spinse la testa a terra, cercando altro cibo. Constatò che fosse finito e gli dedicò un'occhiata ambigua.
«Scusa, ho dovuto cacciarlo questa mattina. Le nostre scorte sono... limitate» bofonchiò. «La prossima volta ti porto del pesce. Puoi mangiarlo, vero? È cannibalismo?»
Si sporse per ammirare il lungo corpo del serpente marino, era avvinghiato agli scogli e graffiava le rocce con gli artigli. La cosa strana era l'effetto che lui, la sua magia, aveva sulle acque. Ovunque andasse aveva il potere di portare tempeste, di alzare potenti muri o rallentare le correnti fino a renderle immobili. Le sue squame, lisce e dure come ossa, avevano le sfumature del mare vero, quel verde-blu intenso, terrificante.
L'occhio gli cadde sulle ferite sulla testa ovale. Si erano imbattuti in quella creatura svariate volte e il serpente marino aveva dall'inizio fatto capire che il mare fosse il suo territorio. Aveva affondato molte drakkar che avevano tentato di entrare o uscire da quella zona. Ciò era un problema dato che suo padre la pensava allo stesso modo e aveva dichiarato guerra a quell'essere.
Eppure lui, che gli era davanti, poteva scorgerne la vera bellezza. «Mi dispiace per ciò che ti hanno fatto. Mio padre non è sempre stato così... è solo...»
Crudele. Spietato. Un assassino.
Gli salirono cose terribili su quell'uomo e si vergognava persino di somigliargli. La gente diceva spesso che avevano gli stessi occhi, quelli dei ghiacci, i quali riflettevano la loro vecchia casa. Era conscio che molto probabilmente non ci sarebbe mai tornato.
Gli mancava Gudvangen, i campi gialli, i cespugli di mirtilli, il Nærøyfjord e forse anche un po' Valeska, la sua ragazza, eppure avrebbe scambiato quel cumulo di sporcizia con l'isola volentieri. Quello era il suo nuovo inizio.
«E, be', ragazzone, tu ci hai affondato un bel po' di navi e ti sei pappato vari uomini» canticchiò giulivo. «Anche tu sei un gran testardo. Mio padre dice che sei Jǫrmungandr, il re dei serpenti che può avvolgere il mondo con il suo corpo. Forse sei ancora un cucciolo.»
Il serpente marino alzò il muso verso il cielo e produsse un sibilo rumoroso. A sentirlo in quel modo, al ragazzo parve preoccupato. Aveva sentito leggende su alcuni luoghi dell'isola, gli abitanti parlavano una lingua sconosciuta e c'erano troppe barriere linguistiche. Versi e disegni erano il massimo che avevano ottenuto dai villaggi più vicini, parlavano in adorazione di Hungirr, il mostro marino, e di Beidu, un uccello di fuoco.
«Ci penso io a te, Hungirr» gli assicurò. «Sarai al sicuro. Tu non sei la bestia di mio padre.»
Si avvicinò per toccarlo. Si mosse con cautela, gli fece vedere che fosse disarmato e aspettò una reazione da parte della creatura. Anche Hungirr desiderava sfiorarlo, avere quel contatto con l'eroe davanti a sé ed entrambi erano certi di essere predestinati ad una grande amicizia.
Avvicinò la mano e uno sbuffo di calore gli fece sciogliere la neve attecchita sui capelli e sui vestiti. In un attimo si ritrovò completamente bagnato, rabbrividendo.
«Smettila di trattare lo spirito del mare come un cucciolo!» berciò il ragazzo comparso accanto a lui. «Sei sempre il solito, hålo.»
Hålo era un termine che gli abitanti dell'isola usavano per chiamare un bambino ottuso o un animale particolarmente stupido. Si era sentito chiamare tante volte halo da lui, tant'è che pensava fosse il suo nome.
Lo sconosciuto aveva un'espressione corrucciata e subito sospirò. Aveva una veste poco ordinaria, rossa e dorata, una cintura di ferro battuto e un mantello scuro. I suoi capelli erano neri e ondulati, gli occhi fiammeggianti e la pelle emanava un calore intenso.
«Ciao, Flamel! Sapevo che ti sarei mancato» esultò il ragazzo.
«Il fischio del vento mi ha portato il tuo olezzo. Ti avrei sentito da leghe di distanza.» Senza farsi notare si annusò le ascelle. Puzzava abbastanza. «Ti avevo già spiegato le leggende e i tuoi limiti. Forse dovrei ripeterli e renderli molto più semplici.»
Afferrò al volo la minaccia e i pugni di Flamel vennero avvolti dalle fiamme. La prima volta che glielo aveva visto fare era quasi svenuto, poi aveva urlato eccitato. Li definiva "maghi" ed era felice del fatto che fossero il suo segreto. Li aveva incrociati per caso in una battuta di caccia solitaria e, dopo l'iniziale tentativo di omicidio, erano diventati amici. Spesso la mattina presto il giovane uomo scappava verso il vecchio monastero della montagna che divideva l'isola, lo chiamavano D'va Grammell, la dimora degli dèi. Gli abitanti li adoravano come dei, li chiamavano i thoruk, i guardiani degli elementi e persino suo padre ne aveva un discreto timore. La loro magia era primordiale ed era reale, a differenza dei meri indovini o finti stregoni. Per il ragazzo erano dei reincarnati, spiriti elementali.
Tra i quattro, Flamel era quello che lo intimidiva di più. Il suo corpo era alquanto minuto rispetto a quello dell'altro, senza muscoli o cicatrici di guerre, eppure il suo potere poteva farlo bruciare all'interno senza ucciderlo. Una sofferenza atroce e senza fine. Flamel ogni tanto glielo ricordava.
La neve vicino a Flamel era del tutto sciolta, lasciando una scia di acqua ed erba verde. «Va', Hungirr. Non dovresti stare troppo vicino al cielo» lo riprese gentile, quasi una madre che insegnava al figlio un'importante lezione di vita.
Hungirr ruggì e senza storie si gettò tra le acque tempestose del nord. Il ragazzo emise una debole protesta e abbassò sconfitto le spalle.
«Guastafeste» soffiò lui, saltellandogli intorno. «Dove sono gli altri maghetti?»
Flamel lo seguiva con la coda dell'occhio. «A D'va Grammell, sulla torre tempesta» rispose pacato. «I tuoi amici hanno tentato di nuovo di scalare la montagna. Devi tenerli alla larga.»
«Non sono miei amici!» ansimò il ragazzo e si vergognò di provare un simile sentimento di disgusto verso i suoi compagni, la gente che lo aveva cresciuto.
Detestava però ciò che stavano facendo a quell'isola. Ben presto sarebbe diventata un altro punto sulla mappa, un altro territorio conquistato e da sfruttare. Il ragazzo era sbarcato con gli stessi intenti, trovare un tesoro e schiavi da vendere, poi era cambiato tutto. Suo padre aveva visto anche lui la scintilla che animava quella antica terra e la voleva per sé. Il figlio era rimasto disgustato dal suo egoismo.
«E tuo padre? Anche lui è in quella lista?» lo tentò. Il ragazzo arrossì. «Se toccherà di nuovo Hungirr, soffocherò lui e il suo misero esercito con polvere e fuliggine. Non sto scherzando, il loro cuore pulsa di veleno e crudeltà. Hanno macchiato Arcadia e sento l'odore di magia nera.»
Roteò gli occhi. «Oh, ora stai esagerando. L'unica magia nera che avverto è quando mi avvicino alle latrine.» Flamel trattenne un sorrisetto divertito. «E in me cosa senti?»
Flamel mosse la mano e le fiamme che danzavano tra le sue dita divennero più intense. Aveva l'aspetto di un essere umano in tutto e per tutto, carne rosea, peli sulle braccia e un pessimo umore. Il suo potere lo scaldava da dentro e il fuoco era una lingua delicata tra le dita.
Ricordava quel giorno in mezzo al bosco e l'incontro con quel giovane soldato, la sua armatura e il volto sporco di schizzi di sangue. In lui aveva visto qualcosa.
«Coraggio. Un cuore fermo. Spavalderia e giustizia.» L'eroe gongolò e Flamel gli bruciò il polso. «Coraggio sepolto da uno strato fin troppo spesso di stupidità! Sei un ragazzo di nobili principi, D'va Grammell ti ha accettato e la natura chiama il tuo nome. Dovresti sentirti onorato di aver sentito la chiamata, ma... quella gente...»
Strinse i pugni. Sapeva che fosse tutto sbagliato e che la cosa migliore fosse tornare indietro a casa, tuttavia il suo popolo bramava nuova terra da coltivare in primavera e l'oro scarseggiava. Dopo Northumbria era convinto che fosse la sua ultima impresa, il saccheggio a quel monastero lo aveva scosso e le urla lo tormentavano negli incubi. Suo padre però gli aveva fatto molte promesse e aveva accettato per amore dell'avventura. Si erano infine ritrovati in quel posto, avevano seguito la cometa ed erano giunti in quelle acque sconosciute.
Poi le cose erano precipitate. Si parlava di massacro.
«Vogliono ciò che abbiamo. Che custodiamo.»
Flamel strinse il ciondolo al collo, spaventato. Alexander aveva quasi preso Arya, prima che lei si tramutasse in un vento gentile e scomparire. I maghetti gli avevano raccontato storie fantastiche di Arcadia, era così che chiamavano quell'isola, e lui aveva parlato di casa sua, quel misero villaggio in Norvegia, avvolto da nebbia e ghiaccio. Gli aveva mostrato come si muoveva e uccideva e loro lo avevano guardato straniti, pieni di paura. Allora aveva promesso che non avrebbe più portato una spada in territorio sacro.
«Vi proteggerò io!» gli promise il ragazzo. «C'è solo un problema di comunicazione...»
«Massacrare poveri contadini è un problema di comunicazione secondo te?» tuonò Flamel e la sua figura si tramutò in un essere di fiamme. Si lanciò indietro e tornò normale, respirando con difficoltà. Si assicurò di non avergli fatto alcun male e si abbracciò. «Sono mostri!»
«Anche voi lo siete per loro» disse l'altro. «Punti di vista. Voi avete usato la magia per affogare dei ragazzi che a malapena sapevano parlare. Come può essere questo giusto?»
«Ragazzi che presto avrebbero tenuto una spada in mano. Noi siamo guardiani, non guerrieri. Non combattiamo guerre mortali, tanto meno possiamo proteggere queste persone. È l'isola la vera essenza» parlò nervoso. «Più i tuoi compagni avanzano...»
«E più voi morite» concluse. «Insegnami.»
«No. Voi invasori non sapete vedere nel vero mondo. È inutile.»
«Insegnami a vedere.»
Flamel fece una smorfia. «Vedere è un dono, hålo, non una cosa che si può imparare. Il sole non può imparare a splendere o la pioggia a nutrire i campi. Tu sei molto diverso dagli altri della tua razza o Hungirr non ti avrebbe risparmiato la vita. Però sei così stupido! Torna a casa.»
«Portami a D'va Grammell» propose eccitato. «Alla cattedrale della luna.»
«No!» negò furioso. «La cattedrale non è posto per te. Tu appartieni alla gente del mare.»
«Questa è casa mia» replicò il ragazzo, mimando con le mani una specie di capanna. «Hjem. Casa nostra. Insegna loro proprio come hai fatto con me, costringili ad aprire gli occhi.»
Flamel scosse la testa. Avrebbe accolto altre persone se solo si fossero dimostrate pronte ad ascoltare, ma l'aria di guerra era diventata insopportabile. Numerosi cadaveri costellavano i villaggi e le coste. La natura stava soffrendo e l'equilibrio era collassato.
«Tuo padre combatte per se stesso, è avido e senza cuore. Potrei mettergli la verità davanti e mi guarderebbe comunque come un mostro. Rinchiuderebbe gli altri per venderli, usarci o peggio. Lui vuole distruggerci... La terra dell'est ha già cominciato a marcire. La frutta è...»
«Voglio aiutarvi!» annaspò il ragazzo. «Sono forte.»
«Non così forte, sciocco invasore. Ti manca ciò che tuo padre ha: l'audacia di sfidare un dio e credere di poterlo uccidere. Guardalo gli occhi, è stato corrotto. Forse al timone c'era lui, ma il destino chiamava solo te. Sei il prescelto, ma se accogli la chiamata tuo padre tenterà di distruggere anche te. Sei davvero pronto per questo?»
Il ragazzo afferrò la sacca e corse via, scivolando giù dalla Grande montagna fino a valle. Una colonna di fumo si stava alzando da un villaggio di pescatori sulle rive a sud. Suo padre si era spinto oltre. Di nuovo.
«Ci penserò io! Lo prometto, non gli lascerò radere al suolo un altro posto!» promise lui in panico.
Era una bella bugia a fin di bene, si disse. Nel momento in cui avrebbe scosso la testa a suo padre, lui gli avrebbe messo una spada in mano e lo avrebbe ammazzato in uno scontro in cui sapeva di non poter vincere. Era la guerra a cercare suo padre, non viceversa.
Il fuoco di Flamel divenne scuro e scomparve in cenere, non prima di lasciare il suo cristallo nero pendere sul petto, uguale a quello degli altri tre elementalisti.
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