CAPITOLO 20.


CAPITOLO 20.

Navir fu riportata alla realtà dopo un periodo che sembrò quasi interminabile. Vide che quel mago passeggiava nei meandri più reconditi della sua memoria, scovando, nel suo passato, ogni piccolo avvenimento anche il più inconscio. Non sapeva il perché di quell'azione, ma capiva che per il mago era tutto estremamente necessario.
"Oh, povera ragazza. La tua vita non ha avuto pace e mai ne avrà se quel dio non brucerà tra le sue stesse fiamme."
"Cosa ha visto?" Sussurrò Navir, con la testa bassa e gli occhi fissi sul pavimento in legno della piccola casa.
"Se vuoi non ho visto nulla, mia cara."
"Grazie."
Adesso Navir lo guardava negli occhi; aveva paura ,non che gli amici sapessero della sua storia, ma che scoprissero come lei si sentisse veramente. Impotente. Incapace. Innamorata.
Non aveva ancora il coraggio di ammetterlo a se stessa, figuriamoci se lo avrebbe detto all'oggetto del suo amore.
In ogni caso, adesso non c'era tempo per pensare a queste smancerie da adolescenti; aveva una missione da compiere.
"Bene!" Aria come al solito prese la parola, alzandosi dal divano e sbattendo le mani con un gesto alquanto teatrale. "Se l'ora della confessione è finita, gradirei sapere il perché siamo tutti qui e soprattutto, come facciamo a sconfiggere il dio degli inferi."
"La ragazza ha ragione." Rao intervenne con cautela nella discussione. "Ho promesso a Navir che l'avresti aiutata se lei avesse aiutato te."
"Avete ragione tutti quanti; Akram, ragazzo mio, potresti per favore prendermi un bicchiere d'acqua? Se lo dicessi a quel vecchio di Rao, inizieremmo tra altri 10 anni."
Sogghignò fiero della sua battuta e Rao, dal canto suo, scosse la testa con un sorriso divertito.
"Mi sei mancato, sai?" Disse con un velato umorismo. Tuttavia, entrambi i maghi sapevano quanto fosse vera quella frase ed entrambi si guardarono in segno di intesa.
Akram porse a Tradamar il bicchiere di acqua fresca e si sedette nuovamente al suo posto.
"Ora può iniziare." Disse il giovane, sperando che nient'altro più li distraesse.
"Come vi dicevo è necessario per me raccontarvi la storia dal principio....

Ci fu un tempo in cui la nostra terra, Ilang, era dominata dagli dei, i quali mai avrebbero interferito nelle vicende umane. Nutrivano profonda stima ed affetto nei confronti di quegli esseri a loro tanto simili ma, di fatto, così diversi. Essi gioivano nel vedere un raccolto ben riuscito o una donna mettere al mondo un bambino. Si diceva che le nascite fossero un loro dono, ma che il dono più grande sarebbe arrivato nel momento in cui, da una donna non presa in sposa, fosse nato un figlio maschio. A quei tempi, una tale affermazione era un oltraggio all'onore e alla dignità umana. Tuttavia, per secoli, i saggi di Ilang tramandarono questa leggenda, prima oralmente e poi per iscritto.
Passarono gli anni e le stagioni ma mai nulla accadde.
Un bel giorno, quando il sole aveva appena preso il suo consueto posto nel cielo, un pianto si levò da una piccola capanna a ridosso di una collina.
Ivi viveva una donna che, per disgrazia o per fortuna, si ritrovò incinta e senza un marito. Visse per nove mesi nascondendo le sue rotondità, poiché quello era il frutto di una notte d'amore che non avrebbe mai avuto futuro.

L'unica persona a conoscenza dei fatti era una vecchia signora che, ormai vedova, viveva con lei nella piccola capanna trasandata. La povera donna aveva vissuto con il marito, in quella casa, gli anni migliori della sua vita ma il destino volle che lei fosse sterile e che il marito morisse precocemente.
Quando la giovane donna cercò riparo tra le mura di quella capanna, la vecchia la accolse come se fosse un dono degli dei. Di fatti, era a conoscenza della leggenda tramandata da secoli e vide, nella giovane donna, una speranza.
Nove mesi dopo, ecco che diede alla luce un maschio.
La leggenda aveva avuto la sua realizzazione.
Ma la gente, a quei tempi, non avrebbe mai accettato un bambino nato al di fuori del matrimonio...
Così, la vecchia signora inventò una storia per proteggere la ragazza e suo figlio, dicendo che erano dei nipoti provenienti dalla vicina terra di Grasam.
Nessuno le fece mai delle domande, nonostante il bambino somigliasse sempre di più alla vera madre.
Quel bambino ero io.

Ben presto scoprii che la mia nascita era un dono perché io stesso possedevo doni eccezionali, fuori da ogni logica.
A 3 anni scoprii che non avevo bisogno di aspettare qualcuno che mi preparasse il cibo; mi bastava guardare una stoviglia, immaginarla piena di cibo e .. voilà.. il pranzo era servito!
Man mano che crescevo, diventavo sempre più potente ma non potevo usare i miei poteri davanti a gente alcuna. Le uniche a conoscenza del mio segreto erano quella vecchia signora e mia madre.
Un giorno, la vecchia mi raccontò della leggenda e di come la mia nascita fosse stata predetta secoli addietro. Mi disse che c'era un posto dove io avrei potuto imparare l'arte della magia e dove, finalmente, sarei potuto essere libero.
Così, il giorno seguente, dissi addio alle donne più importanti della mia vita e mi diressi verso il mare Mrak. Giunsi in quest'isola, dopo un lunghissimo peregrinare.
Qui non trovai nessuno, solo un libro antico al centro di questa dimora.
Sulla copertina vi era intagliata una dicitura:
Il sangue di colui che fu predetto, aprirà il libro che dall'anima di un demone fu creato. Dal cielo alla terra e dalla terra al cielo.
La copertina era nero corvino e la lavorazione era troppo elaborata per essere stata creata da un comune uomo. Nello sfiorarlo, percepivo qualcosa di oscuro e potente ma, a quei tempi, non avevo le abilità per capire cosa fosse.
L'unica cosa che capii era che per aprire il libro ci voleva del sangue; così, a tentoni, mi tagliai il palmo della mano con la lama di un coltello da viaggio. Feci cadere quattro gocce del mio sangue sulla chiusura e dopo qualche secondo il libro si aprì. Il grosso lucchetto che chiudeva il libro aveva incisa la figura di un essere con delle corna e dei denti aguzzi. Quell'affare si aprì facendo uno scatto.
Le pagine iniziarono a sfogliarsi da sole e, più andavano veloci, più io memorizzavo ogni singolo incantesimo di quello straordinario libro. Il problema, però, era che stavo assorbendo tutta la malvagità di quell'opera e non me ne resi conto fino a quando non fu il momento di fare i conti con l'amore.
Vivendo su quest'isola, senza nessuno, non avevo avuto motivo di provare emozioni. L'unica sensazione che provavo era quella di solitudine; tuttavia, mi bastava un incantesimo e facevo apparire la figura di mia madre. Ella mi parlava, mi diceva di amarmi.
Un giorno la invocai, ma ella non apparve.
La cosa mi preoccupò; l'incantesimo che mettevo in atto mi permetteva di parlare con gli essere umani ancora in vita. La sua assenza mi fece capire che mia madre fosse morta.
Fu lì che mi accorsi veramente di quanti anni passarono.
Erano trascorsi 30 anni dalla mia partenza per l'isola ma era come se fosse trascorsa solo una settimana.
Partii immediatamente per Ilang; con il cuore in gola mi domandai se qualcuno avesse pensato a mia madre, il giorno della sua morte.
La immaginai sdraiata nel suo letto, gelida e con gli occhi chiusi.
Quando arrivai ad Ilang, la trovai così. Inerme nel suo letto, bianca e priva di vita. Non c'era nessuno lì; nessuno si accorse che quella donna fosse morta..
La seppellii senza usare la magia, le feci un normale funerale e decisi di restare ad Ilang per qualche tempo.
Volevo usare la mia magia a fin di bene, anche se una parte di me stava covando qualcosa di oscuro e ben presto scoprii che cosa fosse.
Ero arrabbiato con ogni essere umano di Ilang per non essersi chiesto che fine avesse fatto la donna, rimasta sola, a ridosso della collina. 
Eppure, nessuno sapeva che io fossi suoi figlio. Pensavano, ancora, che fossi il fratello della giovane donna.
Così, una sera si e una no mi ritrovavo per strada a creare scompiglio e feriti. Quando non creavo scompiglio, cercavo di aiutare le persone. Era come se avessi due personalità.

Una delle sere in cui ero propenso a fare del bene, incontrai una donna. Dai colori e dalle movenze somigliava tanto a mia madre. Era bella, giovane e piena di vita. Il suo sguardo, addolcito dal colore smeraldo dell'iride, mi fece dimenticare che una parte di me fosse crudele e per molto tempo, riuscii solo a fare del bene.
Ci innamorammo, ci sposammo e andammo a vivere in quella vecchia capanna.
Non riuscimmo mai ad avere dei figli. Più che altro, non avemmo tempo.

Non riesco ancora a cancellare dalla mia memoria l'odore che, quella fatidica notte, emanava l'erba bagnata. Il ticchettio della pioggia, sul tetto della capanna, suonava come la colonna sonora di un dramma.
Bussò alla porta un uomo dalla barba incolta; fino ad allora ero conosciuto come un medico speciale, che compiva qualche "magia" per curare i malati. Nessuno conosceva le mie vere doti e nessuno sapeva che, fino a poco tempo fa, quello che portava sofferenze in città fossi io.
L'uomo in questione venne da me per chiedermi aiuto; il padrone, un nobile uomo per cui lavorava da anni, stava per morire di una grave malattia.
Corsi ad avvisare mia moglie e mi recai nella casa dell'uomo.

Sul letto a baldacchino, giaceva, disteso, un uomo dalla folta barba bianca e dagli unti e lunghi capelli grigi.
Aveva la sua età e sembrava stanco; non saprei dirvi se lo era per la sua condizione fisica o per l'età visibilmente avanzata..
Gli misi una mano sulla fronte e recitai un incantesimo in grado di mostrarmi la sua vita fino a quel giorno; volevo trovare la causa della sua malattia per estirparla alla radice. Tuttavia, quello che vidi nella sua memoria era la figura di mia madre.
Il suo sorriso..
Il suo corpo nudo davanti a quell'uomo..
Ne carpii i discorsi di addio; si erano lasciati perché lui doveva sposare un altra donna. Abbandonò mia madre, incinta di me e senza nessun supporto.

La parte rancorosa e aggressiva che per 10 anni era rimasta assopita, si risvegliò.
Non ebbi più alcuna voglia di guarire quell'uomo; volevo che soffrisse e che morisse in preda ai più atroci dolori.
Ci riuscii..
Ma fui visto dal servitore che mi accusò di essere un perfido mago.
Tutta Ilang mi odiava.
L'unica che, ancora, mi amasse e mi capisse era mia moglie.
Fui accusato di stregoneria e mandato alla gogna.
Avevo capito il mio sbaglio ed ero pronto a pagarne il prezzo. Mi avevano preso quella stessa notte, svestito e picchiato.
Non volli reagire.
Lasciai assopita la parte cattiva di me.
Così doveva essere.
Quando fui preso per essere portato al patibolo, mia moglie si mise in mezzo.
-Scappa! Tradamar scappa!
- Cosa stai facendo, Sophie?
Ma non ebbe il tempo di rispondere.
Sono io la maga; ho fatto un incantesimo a mio marito perché uccidesse quell'uomo. Giustiziate me, non lui.
Io non riuscivo a capire. Vidi in un attimo la sua testa sulla gogna e un attimo dopo, il suo corpo poggiato sul ceppo senza vita.
Non sapevo che fare.
Lei aveva dato la vita per me e non potevo permettere che il suo sacrificio fosse invano. Feci un incantesimo di trasmigrazione e ritornai su quest'isola. Portai con me il suo corpo e la sua testa e li riunii dentro una piccola tomba.
Da quel giorno provai solo rabbia, una rabbia tanto forte da far si che tutta l'isola diventasse arida e fredda. Niente aveva più senso.

Sentivo delle voci:

siamo fieri di te..
Sei il mago migliore del mondo..

Ben presto capii che quella cattiveria era dovuta al libro che avevo aperto, così lo feci sparire.
Lo nascosi nell'unico luogo in grado di resistergli..

L'inferno.

Da secoli ormai quel libro è custodito dalle fiamme infernali e Kokou ne è a conoscenza. Tuttavia solo il sangue di chi fu predetto aprirà il libro."



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