Anteprima - tre
Marta si svegliò sdraiata in una posizione improbabile sul divano. Si stiracchiò e guardò fuori dalla finestra: la lieve luce del mattino rischiarava il cielo, e il sole faceva capolino dietro i tetti delle case.
Un rumore improvviso risuonò dalla cucina. Marta si alzò di soprassalto, afferrò il piatto decorativo di vetro dal tavolino accanto - l'alternativa era un numero di Focus, decisamente poco efficace - e, in punta di piedi, si avvicinò alla porta. Allungò la mano per accendere la luce, e quello che trovò le fece volare lo stomaco sotto i piedi. Lunghi capelli neri, fisico asciutto. Un aspetto che conosceva troppo bene. Teneva una tazza fumante in mano e i suoi splendidi occhi azzurri la fissavano. Le parole le tremarono in bocca: «No, non può... non può essere. Stefano?»
Marta appoggiò la mano contro la parete per reggersi in piedi, ma il piatto di vetro cadde a terra e si frantumò allo stesso modo in cui si disintegrava il suo cuore.
«Ti prego, dimmi che era un incubo... solo un incubo.» la voce continuava a tremarle. Marta balbettava. «Dimmi che in realtà sei... vivo.»
Stefano la guardò e le sorrise, poi le passò vicino e si diresse verso il divano senza dire una sola parola.
Lei continuava a fissare la cucina. Prese coraggio e si girò, certa di aver avuto un'allucinazione. Forse stava impazzendo, eppure c'era: lui era seduto lì, con la sua tazza preferita in mano e la televisione accesa, come una delle loro normalissime serate di autunno.
Marta camminò titubante verso di lui, senza togliergli gli occhi di dosso nemmeno un istante, e gli si sedette accanto. «Stefano, dì qualcosa, ti prego. Parlami.»
Gli si avvicinò e alzò la voce. «Stefano... Stefano!»
Arrivò anche a scuoterlo, ma lui sorrideva e basta.
«Stefano, ti supplico: dimmi qualcosa. Perché non parli? Pensavo di averti perso... di averti perso per sempre.»
Marta tremava e respirava con affanno, l'inquietudine bruciava come acido. Quegli occhi la fissavano e il silenzio grondava angoscia.
Al suono del campanello Marta si svegliò di soprassalto. Aveva la maglia inzuppata di sudore, il respiro affannoso e gli occhi strabuzzati.
«Mio Dio, era solo un sogno.»
Si portò le mani alla bocca e trattenne il respiro; sentì il dolore salirle dal cuore fino in gola, per poi bruciarle gli occhi pieni di lacrime.
Un paio di campanelli, compreso il suo, suonarono di nuovo e la vecchina del piano di sopra aprì al postino. Marta era ancora immobilizzata, seduta sul divano a gambe incrociate e con le mani sul volto.
«Solo un sogno.»
Le lacrime sgorgarono silenziose a rigarle le guance. Per un attimo il suo cuore aveva sperato invano che potesse essere vero. Alzò gli occhi e cercò di mettere a fuoco l'orologio: era mattina inoltrata, e la giornata si prospettava ancora molto lunga. Batté le palpebre più volte per ricacciare indietro le lacrime, si asciugò il volto e cercò un fazzoletto nella borsa a terra accanto al divano. Con movimenti meccanici, come se fosse soltanto un corpo vuoto, andò in cucina e prese la lista della spesa dal frigorifero. Infine uscì.
Il supermercato distava pochi minuti da casa sua. Si avviò a piedi per cercare di non pensare a nulla, estraniandosi dal mondo esterno e rileggendo la lista della spesa più e più volte fino a impararla a memoria.
Davanti all'ingresso una vecchia mendicante stava chiedendo l'elemosina con una lattina di piselli. Marta camminava con passo veloce, ma era così concentrata sulla sua lettura spasmodica che inciampò sulla lattina e per poco non rovinò a terra.
Con una fretta maldestra e l'espressione affranta, si chinò a raccogliere tutte le monetine che si erano sparpagliate sull'asfalto. La vecchia le disse più volte di non preoccuparsi e, con gentilezza, le chiese di calmarsi, ma Marta proseguì imperterrita fino all'ultimo centesimo. Si scusò di continuo, e con mani tremanti prese il portafoglio dalla borsa e aggiunse cinque euro mentre riponeva la lattina di fronte a lei.
Quella che doveva essere una semplice spesa si era presto trasformata in un disastro: aveva urtato con la borsa contro due confezioni di uova, aveva vagato spaesata nella corsia dei biscotti solo per scoprire che non si rifornivano più dei suoi preferiti, e aveva dovuto lasciare alla cassa le melanzane e due cornetti salati perché, sovrappensiero, si era dimenticata di pesarli. Quando uscì, le due buste che teneva in mano erano belle piene. Dopo pochi passi dall'uscita una delle due si aprì sul fondo, rovesciando sul marciapiede tutti i suoi acquisti.
«Quella con le uova, ovvio! Figuriamoci se me ne poteva andare una dritta.»
Rimase ferma a fissare incredula le sue cose sull'asfalto, mentre il cervello si rifiutava di collaborare. Marta non si diede per vinta perché lei no, non era una che mollava alle prime difficoltà... e di sicuro non poteva lasciarsi sconfiggere da una stramaledetta busta biodegradabile.
Quindi si attivò, s'infilò qualcosa in ogni tasca e incastrò alla meglio tutto quello che riusciva nell'altra busta, fino a riempirla oltre il bordo. Dovette proseguire tenendola in braccio, per evitare che si rompesse anche quella, così lasciò perdere i mandarini che ogni tanto ruzzolavano fuori dal sacchetto.
Arrivata nel suo appartamento, appoggiò la borsa sul tavolo e aprì il frigorifero per riporre gli acquisti. Restò immobile con la maniglia dello sportello in mano, guardando incredula davanti a sé mentre un liquido biancastro le gocciolava sugli stivaletti scamosciati. Un verso rabbioso le uscì di bocca: «Maledizione».
Il cartone del latte, sdraiato nel secondo ripiano, stava riversando tutto il suo contenuto sui ripiani sottostanti, addosso a lei e sul pavimento. Ci mise un'ora a pulire tutto, riporre la spesa e cercare di sistemare i suoi stivaletti. Ormai era tardi e, per evitare di preparare in fretta qualcosa per pranzo, decise di ordinare una pizza. Approfittò dell'attesa per caricare la lavastoviglie coi piatti accumulati nel lavello nell'ultima settimana, ma non poteva immaginare che un gesto così semplice potesse rivelarsi tanto sbagliato.
Marta si stava contorcendo dalla fame da una ventina di minuti quando suonò il fattorino. Cercando di prendere i soldi dalla tasca, le sfuggì la presa e il cartone della pizza le scivolò di mano e si spalmò sul pavimento, rovesciandosi a testa in giù.
«Non ci posso credere, cos'altro deve succedere oggi?»
Riprese il cartone e cercò di essere positiva pensando che, tutto sommato, si sarebbe potuto aprire costringendola a mangiare la pizza direttamente sul pavimento. Si sedette sul tavolo della cucina e addentò la prima fetta. Fredda, pensò.
Un forte odore di sapone le solleticò le narici. In un primo momento Marta annusò la pizza: profumava di speck, mozzarella e pomodoro, proprio come si aspettava. Appoggiò la fetta nel cartone, annusò l'aria e si guardò intorno. Notò delle strane bolle uscire dal mobile della cucina. Si alzò di scatto e aprì la lavastoviglie, che cominciò a vomitare un mare di schiuma sul pavimento.
«Ma che diavolo!»
Corse in bagno a prendere uno straccio e cercò di contenere i danni. Aprì il mobile e controllò il sapone. Si era sbagliata: aveva usato quello per i piatti al posto di quello per la lavastoviglie. Si sedette a terra, sconsolata, lo straccio in mano, gli abiti e i capelli bagnati dalla schiuma. Aveva trovato come impiegare il resto del pomeriggio. Quando finì di sistemare quel disastro, e dopo una doccia ghiacciata - anche la caldaia non aveva voluto saperne di partire - era già ora di cena. Marta decise di finire la pizza avanzata a pranzo e, visto l'andazzo della giornata, si guardò bene dal tentare di scaldarla, sicura che l'avrebbe come minimo bruciata. Poi si sedette sul divano e sospirò.
«Meno male che stasera vado in discoteca, ne ho davvero bisogno.»
In quel momento le arrivò un messaggio di Lidia.
«Ciao, Marta, come te la passi? Senti, hai presente quel ragazzo strafigo che abbiamo incontrato l'altra sera? Mi ha proposto di uscire, una cenetta romantica... Mi dispiace tanto darti buca all'ultimo momento, ma non posso rifiutare. Un bacio.»
«E ti pareva. Vabbè, sai che ti dico? Stasera ci vado da sola.»
Non si poteva arrendere, non si poteva fermare. Raggiunse la discoteca con la propria auto intorno alle undici. Aveva deciso che non avrebbe bevuto perché, in caso contrario, era certa che al ritorno sarebbe stata fermata dai carabinieri; non voleva aiutare la sorte, che quel giorno si stava prendendo già abbastanza gioco di lei.
Era seduta al bancone e sorseggiava una triste Coca Cola, quando notò che un ragazzo molto carino la stava fissando. La camicia azzurra sbottonata sul davanti metteva in bella mostra i suoi pettorali scolpiti, e il suo sorriso era a dir poco ammaliante. Marta non esitò un istante, e si avvicinò a lui facendogli gli occhi dolci. Lui si guardò intorno con aria circospetta e le disse di essere solo. Lei stava civettando in modo spinto, quando un dito le toccò la spalla e una voce la fece trasalire: «Ehi, tu, ci provi con il mio ragazzo? Vuoi dei problemi? Smamma.»
Marta non si girò nemmeno; lasciò il bicchiere sul bancone e uscì con passo svelto dal locale. Non le importava di fare la figura della stronza in fuga, e non era proprio il caso di cercare altri problemi. Poi erano già le tre del mattino: poteva benissimo tornare a casa e mettere la parola fine a quella giornata di merda. Come era sua abitudine, per non pagare il guardaroba aveva lasciato in macchina il cappotto, e la pioggia aveva aspettato proprio lei per cominciare a scrosciare.
«Vabbè, l'auto è vicina... farò una corsa.»
Parlò a se stessa per cercare di restare positiva, ma chi potrebbe andare in discoteca con delle scarpe adatte alla corsa sul ghiaietto? Lungo il tragitto, infatti, le si ruppe un tacco. Arrivò all'auto inzuppata come un biscotto, e talmente incazzata che chiunque l'avesse sentita sarebbe impallidito per la serie di improperi che stava vomitando. Quando si mise alla guida era così nervosa che, complice la pioggia fitta, non vide il paletto contro cui andò a sbattere, uscendo in retromarcia dal parcheggio. Fu l'ultima crepa che mandò in frantumi lo scudo difensivo che aveva costruito in quell'ultimo anno per non soffrire. Marta pensava di non credere più in Dio, ma in realtà nel suo inconscio non era così. Però di una cosa era certa: lo odiava, perché lui odiava lei.
Marta scese dall'auto sotto la pioggia spietata; alzò il viso al cielo, aprì le braccia e urlò: «Tu, stronzo, che gusto ci provi, eh? Ce l'hai con me? Ti stai divertendo? Questo spettacolo umiliante è di tuo gradimento? Che cosa ti ho fatto, si può sapere? Perché? Perché io? Io ero felice! Io ero...»
La rabbia si trasformò in dolore, e il dolore in disperazione.
«Io ero felice e tu mi hai portato via tutto.»
Sentì il cuore stringersi nel petto, come racchiuso in una morsa straziante, quasi fino a toglierle il respiro.
«È tutta colpa tua! Stefano era tutto per me e tu l'hai ucciso.»
Marta crollò in ginocchio e si accasciò su se stessa.
«Perché a me? Non meritavo anch'io un po' di felicità? Perché hai voluto che vedessi tutto? Perché non hai preso anche me? Ti sarebbe stato così facile. Fa male... fa così male.»
Marta piangeva rannicchiata sotto la pioggia. Di colpo quel dolore era tornato a farsi vivo, così intenso che sembrò che il tempo non fosse mai passato.
La pioggia si arrestò, come se qualcuno da lassù avesse avuto pietà di lei. Marta si alzò e, barcollando, entrò nella portiera che aveva lasciato aperta. Infilò di nuovo l'auto nel parcheggio, girò la chiave e si appoggiò con la testa al volante. Le lacrime, incessanti, le rigavano il viso.
Prese il telefono dal cruscotto e chiamò Rebecca, ma quella notte la sua amica lo aveva spento. Lo ripose nella borsa aperta sul sedile accanto e vide il biglietto da visita dello psicoterapeuta. Lo osservò per qualche istante, prima di decidere che quella fosse la sua unica opportunità, così compose il numero e gli lasciò un messaggio in segreteria.
«Io, io...»
La voce era interrotta dai singhiozzi.
«Sono Marta. Ho bisogno... ho bisogno di aiuto. La prego. Io... non ce la faccio. Sono allo Chalet, sulla collina, macchina rossa.»
Gettò il telefono sul sedile, appoggiò ancora una volta la testa al volante, chiuse gli occhi e cercò di riprendere il controllo del suo respiro.
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