Il vento e la bambina
Era sopraggiunta la notte sulle pianure dell'Ucraina. Il sole, stanco, era tornato a nascondersi al di sotto dell'orizzonte e le ultime, fioche luci del crepuscolo si erano spente, avvolte da un nero penetrante e privo di stelle. Solo la luna, pallida e scintillante come un ruscello di montagna, spandeva sul mondo la sua flebile scia che, delicata, accarezzava con dita d'argento le case e le strade, le foreste e i campi.
Scendendo leggiadro lungo un raggio di luna, il vento si affacciò sulla terra che aveva imparato a conoscere: ogni luogo gli era noto, ogni insenatura, ogni angolo remoto e celato agli sguardi di tutte le creature.
Spalancò gli occhi trasparenti, gelidi e imperscrutabili, e li alzò verso quel paesaggio che, fino a poco prima, gli era famigliare. Per un momento, immerso in un passato che non sarebbe dovuto cambiare, in una normalità prematuramente infranta, in un'effimera illusione di pace, si era quasi aspettato di trovarlo quieto e silenzioso, avvolto dal sonno e dall'oblio della notte.
A infrangere i suoi pensieri arrivò la realtà, violenta come le onde di un mare increspato: il fuoco dilaniava come una belva le case degli uomini che, indifesi, si raccoglievano a fiumi lungo i viali, correndo alla rinfusa da ogni parte. L'aria vibrava di grida e di pianti, che neppure i boati poderosi del bombardamento riuscivano a soffocare.
Poteva sentir tremare le voci sussurranti degli spiriti che portava con sé, ombre di coloro che un tempo erano stati vivi e che ora erano pronti a raggiungere il Cielo. Non fece nulla per placarle: era consapevole del timore che quella visione suscitava in loro, e nulla avrebbe potuto consolarle.
Scosse la testa, lasciando che i lunghi, bianchi capelli si distribuissero disordinatamente intorno al suo volto serio, ricadendo poi dolcemente sulle intangibili spalle e scivolando lungo la schiena come una cascata di brezza.
Un nuovo boato trafisse l'atmosfera, subito seguito da un altro. Non c'era modo di fermarli. Non c'era modo di porre fine a quella sinfonia di morte, a quella musica agghiacciante al cui ritmo battente si muovevano i disperati, ormai consapevoli delle loro scarse probabilità di salvezza.
Il vento spalancò poi le sue immense ali e spiccò il volo, planando lungo le vie celesti leggero come un falco dalle piume argentee e arruffate. Strinse a sé le anime che trasportava, percependo i loro corpi intangibili, simili alla fiamma tremolante di una candela. Un dolce fruscio, unico segnale udibile del suo passaggio, lo accompagnava come una scia.
Il suo volo si fece più lento man mano che si avvicinava alla superficie terrestre. Il suo soffio rinvigorente investì le fronde spoglie di un albero, che si agitarono per salutarlo e, quasi per gratitudine, lasciarono intravedere le prime, gracili gemme.
Sfiorò le persone in corsa, cercando di donare loro un po' di conforto, ma loro sembravano non percepirlo: troppo era il dolore, troppa la paura.
C'erano donne che, singhiozzanti, stringevano al petto i piccoli figli, in un gesto estremo di protezione.
C'erano uomini che provavano a difendersi con coraggio, ma senza risultato.
C'erano persino bambini che, incapaci di capire quanto precaria fosse la situazione, cercavano uno sguardo incoraggiante dai genitori, un sorriso, una coccola amorevole, ma nulla sarebbe arrivato.
Il vento poteva sentire il pianto delle anime che, prematuramente, avevano dovuto lasciare il loro corpo e che ora lo aspettavano, nella speranza che lui potesse portarle in un posto migliore, dove avrebbero ritrovato la libertà perduta.
Egli si accinse a seguire i loro richiami mesti, strascicati, così da rintracciarle e accoglierle tra le sue braccia confortevoli.
Poi, all'improvviso, percepì un pianto più forte, straziante, disperato. Non apparteneva a un vivo, ma non era neanche uno dei famigliari singhiozzi con cui gli spiriti cercavano di richiamarlo. Era un gemito di puro tormento, di incolmabile dolore: quello di una madre che vede il proprio figlio soffrire.
Senza pensarci, il vento deviò in direzione di quel grido accorato, seguendone la scia ondeggiante.
Mentre planava rapido, arruffando i capelli degli uomini che fuggivano disordinatamente sotto di lui, gli spiriti rimasti a terra alzavano le braccia e provavano in ogni modo ad aggrapparsi a lui. Egli permise loro di afferrare i lembi della sua veste di brezza, consapevole che solo chi fosse stato degno del Cielo sarebbe stato in grado di toccarlo e di unirsi a coloro che già portava con sé.
Non ci faceva neanche più caso, ormai. La sua attenzione era completamente rivolta a quella voce che, a ogni secondo, diveniva più afflitta, dolente. Ormai nessun altro suono gli giungeva alle orecchie, se non quello. Persino il fragore delle bombe non era che un borbottio insignificante in confronto.
All'improvviso, il vento fermò la sua corsa, cogliendo di sorpresa le anime, che sobbalzarono. Ecco la fonte di quel rumore agghiacciante, ecco la causa di quel dolore infinito!
Dei corpi erano stesi in terra davanti a lui, circondati da macerie fumanti e solo parzialmente sepolti da una nube di polvere. Due spiriti, un uomo e una donna, guardavano con occhi colmi di lacrime e cuori infranti verso lo stesso punto, urlando al cielo il loro dolore.
Il vento si avvicinò e i due disperati, intimoriti, si scostarono, lasciando intendere cosa avesse provocato una tale sofferenza: una bambina di forse sei anni giaceva immobile tra di loro.
Una manina era allungata in avanti, in cerca del calore di quella materna, grande e avvolgente. L'altra era stretta attorno a un peluche a forma di gatto, che prima doveva avere un manto latteo e vaporoso, ma che ora non era che un ammasso di pelo impolverato e ingrigito.
Sul viso roseo, che già cominciava a impallidire, era cristallizzata una lacrima, che le striava la guancia come un rigagnolo. I capelli, biondi e sottili, sparsi disordinatamente sul terreno, le circondavano la testa come una criniera. I suoi occhi erano di un azzurro tenue, e in essi si riflettevano le rovine delle case distrutte, le fiamme rosse come il sangue che si stagliavano imponenti contro il cielo nero, la paura di un popolo costretto a fuggire dalla propria casa.
Il suo fianco si alzava e si abbassava al ritmo del respiro, ma lo faceva affannosamente. Da una parte la vita la reclamava, dall'altra la morte incombeva su di lei, pronta ad agguantarla e a portarla via.
Era come una rosa bianca in un oscuro mare di odio e rabbia, una fonte pura che sgorgava in mezzo alla roccia fredda, un coniglietto candido disperso in un bosco nero ricolmo di lupi affamati.
Non era lì che doveva trovarsi, quel delicato bocciolo: i bambini dovrebbero poter giocare, correre, godere appieno della spensieratezza tipica dell'infanzia. Quella fanciulla aveva visto la distruzione, il tormento, la morte; troppo per degli occhi così piccoli.
Il vento si appropinquò ancora un po', allungando una mano per sfiorare il viso della bambina, così da apprenderne l'identità e i ricordi.
Maryna
Quello era il nome della piccola. Un nome dolce, grazioso, che ben si intonava a quella gracile creatura.
Quando la mano gelida le accarezzò la guancia, la piccola chiuse gli occhi e sussultò, come se l'avesse sentito.
«Mamma...» mormorò all'improvviso, con un filo di voce. «M-mamma... D- dove s-sei?»
L'ombra della donna singhiozzò più forte. «Sono qui, tesoro. S-sono qui con te» sussurrò tentando di stringerle la manina, che però attraversò come aria.
«M-mamma... I-io non ti v-vedo. Io n-non vedo niente. È-è tutto b-buio qui» balbettò Maryna «M-mi fa m-male la testa. V-voglio t-tornare a casa».
Un ricordo giunse impetuoso in seguito a quelle parole, così forte che persino il vento riuscì a coglierlo.
Era una tiepida giornata autunnale a fare da sfondo a quella memoria. Il fragore dei bombardamenti fu sostituito dalle risate gioiose dei bambini, l'odore acre della paura da quello piacevole dell'erba appena tagliata. Maryna passeggiava con la madre attraverso una delle stradine del parco.
Ad un certo punto, la donna si rivolse alla bambina con un sorriso: «Forza, tesoro, andiamo. È ora di tornare a casa. Papà ci aspetta. Dobbiamo portargli le medicine, così che possa guarire presto e tornare a passeggiare con noi».
La piccola abbassò la fronte a sentire parlare del padre malato. Poi ricambiò lo sguardo della madre ed esclamò, ricordandosi di una domanda che le aveva rivolto un suo amico: «Mamma, ma cosa vuol dire "casa"?».
La donna si fermò, stupita dalla domanda. «Perché mi chiedi questo, tesoro?»
«Me l'ha chiesto Ivan, mamma. Lui dice di non averne una» rispose Maryna, arrotolandosi una ciocca di capelli tra le dita.
«E come mai?» chiese la donna.
«Lui dice che in una casa ci si dovrebbe sentire al sicuro. Nella sua non si sente al sicuro: il suo papà lo picchia e la sua mamma non parla mai con lui» spiegò la fanciulla.
«Beh, Maryna» replicò la donna, commossa «Il tuo amico ha ragione: quella in cui vive lui non è una casa. Una casa è tale solo se sei felice di viverci, altrimenti è una prigione».
La memoria si concluse in un vortice di luce, dissolvendosi nell'aria. Il vento non era preparato: voleva vedere altro, voleva godersi ancora la pace che si respirava nell'aria prima che il conflitto cominciasse. Ma ormai il ricordo era finito, lontano, perduto. Tornò quindi a concentrarsi sulla bambina, che guardava verso un punto indefinito davanti a sé.
«M-mamma... Andriy dov'è? T-tornerà da noi, v-vero?» sussurrò Maryna con uno sforzo immane.
Un altro singhiozzo, ma questa volta proveniva da una delle anime che componevano il suo corpo invisibile. Chiedeva di uscire, di avvicinarsi alla fanciulla, di salutarla. Il vento la lasciò libera, e quella si separò da lui. Non era che un ragazzo, appena diciottenne, dai capelli neri che gli calavano sulla fronte in un ciuffo scompigliato e dagli occhi che, in vita, dovevano essere stati di un verde intenso, penetrante, ma che ora erano spenti, tristi.
Si abbassò sulla piccola e le appoggiò l'invisibile mano sulla spalla, mormorando, con le lacrime agli occhi e un sorriso tirato: «Eccomi, sorellina. Non so se riesci a sentirmi, ma sappi che ti sono vicino».
«A-Andriy... P-perché s-sei andato via? P-perché mi hai abbandonata?» balbettò Maryna, suscitando nel giovane un profondo dolore.
Un nuovo ricordo si fece largo nella mente della bambina e il vento lo accolse, sentendolo ardente e nostalgico.
«Più in alto, Andriy, più in alto! Voglio volare!» gridò Maryna, mentre il fratello la spingeva sull'altalena.
«Ehi, vacci piano, campionessa! Se ti spingo più forte rischi di capovolgerti!» esclamò il ragazzo, ridendo.
«Dai, fratellone! Sai che non cadrei mai! Mi tengo forte!» replicò la piccola.
«E va bene... Preparati al decollo! Tre... due... uno... via!». Il giovane spinse l'altalena con tanta forza che alla bambina sembrò quasi di spiccare il volo. La fanciulla urlò con forza, allietata dalla piacevole sensazione che quel dondolio scatenava in lei.
Il ragazzo sorrideva come suo solito, ma dentro soffriva per quel segreto che non era riuscito a rivelare a Maryna: stava per scoppiare la guerra, in Ucraina, e tutti gli uomini con più di diciotto anni erano stati richiamati alle armi. La chiamata era giunta anche a lui e Andriy, per onore, non aveva potuto fare altro che accettare. Ora nel cuore portava quel grande peso, che solo parzialmente le risate cristalline della sorella riuscivano ad alleviare.
«Andriy...» esclamò la bambina, continuando a dondolare.
«Sì?» chiese il giovane, guardandola.
«Promettimi che non te ne andrai mai, che resterai sempre il mio fratellone.»
Andriy sapeva di non poter mantenere quella promessa, ma non ci fece caso. Le parole gli uscirono da sole dalla bocca.
«Certo. Lo prometto.»
Anche questa memoria si dissolse, e ora il vento non riuscì più a trattenersi. Era stupito da se stesso: non si era mai lasciato prendere dall'emozione, aveva sempre allontanato da sé le sensazioni. Ma ora non poteva che essere triste, profondamente triste.
La guerra altro non è che straziante flagello del mondo, impietosa assassina di sogni e speranze, insaziabile predatrice di vite innocenti. Questo era ciò che lui, il vento, aveva appreso nel corso della sua lunghissima vita. Eppure, solo nel riflesso di quegli occhi azzurri, vitrei e languidi, colse realmente quanto dolore portasse quel nefasto frutto della crudeltà umana.
Quella che prima era una delle tante consapevolezze che, seppur con dispiacere, aveva imparato ad accettare, era ora un'onta inaccettabile, una piaga da estirpare per sempre. Vedere quel piccolo, fragile corpo di bambina steso inerme in terra, scosso da respiri sempre più deboli, era stato sufficiente a riaprirgli gli occhi su quel mondo ingiusto.
Lui, l'imperturbabile messaggero del Cielo, era commosso, per la prima volta nella sua millenaria esistenza.
«M-mamma... p-papà... A-Andriy... I-io voglio stare c-con voi» mormorò ancora Maryna. I suoi famigliari si strinsero attorno a lei. Il momento era giunto: il battito del suo piccolo cuore rallentò, fino a fermarsi. Le palpebre calarono lente sulle sue graziose iridi celesti, e la piccola precipitò nell'oblio.
Il vento stesso stava per piangere, per unirsi alla disperazione di quella famiglia distrutta dalla guerra. Voleva solo gridare agli uomini di porre fine a quella crudeltà, a quella strage di innocenti. Ma sarebbe stato tutto inutile: nessuno l'avrebbe sentito. Quando un cuore è preso dall'odio, non c'è nulla che possa risvegliarlo, se non l'amore. E l'amore, purtroppo, è molto meno allettante.
Pochi istanti dopo, lo spirito della bambina si innalzò dal suo corpo, tremando come una fiammella.
«Mamma! Papà! Andriy! Eccovi!» gridò la bambina, abbracciando in lacrime i famigliari. Finalmente erano di nuovo insieme.
Sorridendo commosso, il vento aprì le sue ali e avvolse le quattro anime, per poi spiccare il volo e allontanarsi dalla guerra e dalla disperazione, dal dolore e dalla morte.
Le porte del Cielo si aprirono. Ora erano a casa. Ora erano liberi.
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