SAN PIETROBURGO - 23 MARZO 1801
Castello di Michajlovskij
Paolo Petrovič Romanov, lo Zar di tutte le Russie, volse il suo sguardo triste in direzione di Emmanuel de Rohan-Polduc. Erano passati solo tre anni da quando lo aveva accolto per la prima volta in quella stessa stanza, all'interno della sua residenza fortificata a San Pietroburgo. Eppure, sembravano molti di più. Allora il Cavaliere era reduce da un viaggio lungo e difficile, fuggito di nascosto dall'isola di Malta durante l'assedio dei Francesi, mandato in Russia dal Gran Maestro von Hompesch in persona con l'obiettivo di portare in salvo l'eredità dell'Ordine dei cavalieri Ospitalieri.
Non che adesso la situazione fosse molto diversa, anzi. Ancora una volta su tutti loro incombeva l'ombra di una grave minaccia e non c'era più tempo.
La sua stessa vita era in pericolo e di conseguenza quella dell'Ordine.
Del resto, era più che naturale considerando che negli ultimi anni si era comportato in un modo del tutto reazionario, quasi autocratico, imponendo la censura e affermando il suo potere assoluto in tutti i settori della vita politica e civile, senza mezze misure, terrorizzando l'intera nazione.
Si era posto in netta antitesi nei confronti delle riforme effettuate dalla madre, la zarina Caterina II, nel tentativo d'isolare quei cortigiani che erano stati a lei fedeli e che in particolare avevano partecipato al complotto e all'assassinio di suo padre, lo Zar Pietro III. Aveva completamente messo da parte gli interessi della nobiltà russa, relegandoli ai margini della sua politica ed estromettendo altresì, con ogni mezzo, la loro partecipazione all'alta amministrazione pubblica. Aveva allontanato dalla Guardia tutti i componenti che erano stati fedeli a sua madre, vendicandosi in questo modo del reggimento che nel 1762 si era reso protagonista dell'omicidio di palazzo Ropsha, nel quale era stato ucciso suo padre.
E la lista non finiva lì.
Tutto quello che aveva realizzato, e i modi con cui lo aveva fatto, rispecchiavano il suo carattere e la figura che lui riteneva di rappresentare per la Russia. Aveva creduto che il suo pensiero assolutista e le sue azioni autocratiche fossero il modo migliore per affermare la sua autorità, per tenere il paese imbrigliato e dirigerlo al meglio, ma aveva solo peggiorato le cose.
In poche parole, governando con il pugno di ferro aveva sì impedito ai generali e ai nobili di prendere il sopravvento, ma allo stesso tempo aveva fatto terra bruciata intorno a sé. Tutta la politica vendicativa, unita a un'eccessiva fiducia nel proprio potere assoluto, lo avevano messo in una posizione talmente pericolosa da temere costantemente per la propria vita.
Anche la stessa Chiesa Ortodossa aveva preso le distanze a causa del suo rapido avvicinarsi alla religione cattolica, testimoniato dall'elezione a settantesimo Gran Maestro dell'Ordine di Malta avvenuta tre anni prima con la benedizione di Papa Pio VI.
La verità, alla fine, era una sola: negli ultimi mesi aveva subito diversi attentati e adesso si trovava sull'orlo del baratro.
Ecco perché aveva deciso di convocare d'urgenza Emmanuel de Rohan-Polduc.
«Mio caro e fidato amico» gli disse avvicinandosi e toccandolo sulla spalla con un gesto quasi paterno «è giunto il momento. Ho sperato fino all'ultimo che l'Ordine potesse vivere ancora giorni sereni, ma a quanto pare il destino ha deciso diversamente.»
«Un'altra volta.»
«Così sembra.»
«Quando?»
«Stasera stessa.»
Rohan lo guardò con aria interrogativa. «La situazione è dunque così disperata?»
Paolo I annuì. «Non c'è più tempo. Se dovesse succedermi qualcosa prima del previsto, tutti coloro che mi sono stati fedeli subirebbero tremende ripercussioni. E non posso permettere che questo accada anche a te.»
Rohan chinò la testa. Sapeva cosa lo Zar intendesse dire.
«So che ti chiedo molto, ma anche stavolta dovrai partire in gran segreto. La sopravvivenza dell'intero Ordine dipende da te.»
«Cosa devo fare?»
«Recati a Gatchina, nel palazzo del Priorato» riprese lo Zar. «Tu sai dove si trova. I custodi sanno già tutto, non troverai ostacoli. Là sono conservate le carte più preziose che hai salvato dall'occupazione di Malta. Devi prenderle e devi farlo prima che gli oppositori del regime saccheggino tutte le mie residenze per cancellare ogni traccia del passato.»
«Sarà fatto, mio Maestro.»
«È importante che nessuno ti segua o capisca le nostre intenzioni. Non devi fidarti di nessuno, mai.»
Rohan annuì.
La storia di stava ripetendo.
«Una volta presi i documenti» continuò Paolo I «dirigiti a Mosca, nella cattedrale di Kazan, vicino al Cremlino. Laggiù sarai al sicuro e troverai qualcuno che saprà come aiutarti. Chiedi di Georgij Apollonovič Gapon, è un mio vecchio amico. Lui ti indicherà il luogo dove nascondere la nostra eredità.»
«E lei cosa farà?»
Lo Zar sorrise, quindi poggiò entrambe le mani sulle sue spalle. «Io?» mormorò non riuscendo a mascherare la paura, «io amico mio, cercherò di non farmi ammazzare.»
Il complotto per assassinare lo Zar stava ormai per compiersi. Riuniti in una piccola costruzione a pochi passi dal castello Michajlovskij, i congiurati stavano definendo gli ultimi dettagli prima di passare all'azione.
Si trattava del Generale Pëtr Alekseevič Palen, un ufficiale di cavalleria che aveva combattuto in entrambe le guerre russo-turche sotto il comando del generale Suvorov ricevendo persino l'ordine di San Giorgio, del conte Nikita Petrovič Panin, comandante di un'unità militare di stanza a San Pietroburgo, del generale russo dei moschettieri di Vjatka Levin August von Bennigsen, del principe Platon Aleksandrovič Zubov, l'ultimo amante di Caterina II, e di suo fratello, il principe e generale Nikolaj Aleksandrovič Zubov.
Si erano conosciuti tutti all'interno del circolo illuminista di Aleksandr Matveevič Dmitriev-Mamonov, un ritrovo per intellettuali filo-militari che cercavano un'alternativa a una situazione che rischiava di metterli seriamente ai margini della vita politica facendo loro perdere i privilegi ottenuti.
Le loro idee erano rivoluzionarie, accumunate dalla necessità di voler detronizzare lo Zar Poalo I ritenuto l'artefice della crisi in cui versavano. Un uomo autocratico la cui visione era fin troppo lontana dagli interessi della nobiltà.
«Domani sarà l'alba di un nuovo giorno» proruppe il Generale Palen, con un'espressione di soddisfazione dipinta sul volto rivolgendosi al conte Petrovič Panin. «Brindiamo al nostro successo.»
Quest'ultimo ricambiò con una strana espressione sul volto, scolandosi il suo boccale. «Tu sei sicuro che Aleksandr non sappia niente?» gli domandò subito dopo.
«Sss, parla piano» fece Palen mettendosi un dito sulle labbra. «Certo che non sa nulla. È convinto che non ci sarà alcun spargimento di sangue e che lui dovrà solamente convincere il padre a firmare l'atto di abdicazione.»
«E quando scoprirà che invece lo abbiamo ingannato?»
«Troppo tardi. A quel punto non ci sarà più niente da fare» sorrise il Generale. «Non ti preoccupare Nikita, filerà tutto liscio. Certo, anche a me non piace l'idea di averlo coinvolto in prima persona, ma non possiamo farne a meno. Ci serve per guidarci fino alle stanze dello Zar. Nessuno di noi conosce il passaggio segreto e non mi risulta che ci sia altro modo per intrufolarci in quella fortezza.»
«Hai ragione» Panin scosse la testa. «Continuiamo però a tenerlo sotto controllo. Non mi fido di lui. Anche se le sue idee sono piuttosto illuministiche è pur sempre il figlio dello Zar.»
«Assolutamente.»
«Cerchiamo di non allentare la presa» proseguì Panin ribadendo il concetto «così quando salirà al trono noi potremo tornare alla bella vita e ai fasti di un tempo.»
«E così sarà.»
Bevvero ancora.
***
Poco distante il principe Zubov stava parlottando con suo fratello.
«Tu credi che sia necessaria la mia presenza?» domandò Platon con aria interrogativa.
Fra i due era senza dubbio quello più titubante. Non che fosse contrario alla congiura, solo che avrebbe preferito non assistere di persona alla morte dello Zar.
«Sai quanto sia importante ciò che stiamo per intraprendere, fratello» gli rispose Nikolaj Zubov con un ghigno «ma forse hai ragione tu. Nel caso in cui qualcosa dovesse andare storto, la presenza di un nobile russo in difesa del nostro operato potrebbe farci comodo.»
«È quel che penso anche io.»
«La tua diplomazia mi è sempre stata difficile da capire, ma mi fido di te.»
«Allora sia. Io veglierò dall'esterno garantendo per tutti voi. Tu invece vedi di fare in modo che ogni cosa fili liscia.»
«Cosa state confabulando?» domandò loro il generale russo Levin August von Bennigsen avvicinandosi.
«Mio caro generale» esordì Nikolaj. «Venite, unitevi a noi. Stavamo giusto discutendo gli ultimi aspetti della missione e del fatto che mio fratello sarebbe molto più utile come copertura esterna che come cospiratore nelle stanze dello Zar.»
Bennigsen li squadrò con aria torva. «Non abbiamo bisogno di persone che non siano in grado di agire in caso di problemi» rispose al conte Zubov fissandolo negli occhi con voce dura.
«So che non vi fidate di nessuno, Generale, ma stiamo parlando di mio fratello e non intendo ascoltare le vostre insinuazioni.»
Bennigsen si passò una mano sul mento, strofinandolo come era solito fare quando si sentiva nervoso. Poi sfoggiò un bel sorriso. «Se il principe Nikolaj la pensa in questo modo, allora non posso che essere d'accordo con lui.»
«Lei è molto diplomatico, Levin, checché ne dica la gente» rispose Platon con un leggero inchino della testa. Poi tornando serio. «Parlando di Aleksandr» domandò a bassa voce indicando il figlio dello Zar con un dito «cosa mi sapete dire?»
«Non capisco la domanda, principe.»
«Mio fratello» intervenne Nikolaj «intende dire se possiamo fidarci di lui.»
Bennigsen scosse la testa. «Capisco. Ho avuto gli stessi dubbi anche io, ma a detta di Palen, non dovremmo avere problemi e ho imparato con il tempo a fidarmi del suo giudizio.
Certo il ragazzo è giovane, ma non è una testa calda. Seguirà le nostre istruzioni se non vuole avere sulla coscienza la morte di migliaia di persone. In fondo deve solo diventare il nuovo Imperatore di Russia.»
«Molto bene» rispose Nikolaj voltandosi rapido in direzione di Aleksandr Pavlovič Romanov.
Gli parve inquieto, ma da un lato lo poteva capire. Fatto un cenno ai compagni gli si avvicinò.
«È ora» gli ordinò con voce ferma.
Lui annuì, quindi si mosse piano, seguito dal gruppo di cospiratori, deciso a guidare tutti loro verso l'entrata segreta che solo in pochi conoscevano e che avrebbe condotto quel gruppo di assassini fino alle stanze private di suo padre, nel cuore del castello Michajlovskij, la fortezza medioevale che Paolo I aveva eretto a sua residenza.
***
Mezzanotte.
In silenzio i congiurati si mossero attraverso il parco di fronte al castello, entrarono nel cunicolo segreto e poco dopo raggiunsero la stanza dello Zar.
«Lei rimanga qua fuori» ordinò Bennigsen ad Aleksandr Romanov «non vogliamo che la sua presenza vanifichi la nostra operazione.»
Lui annuì.
«Avete promesso, ricordatevelo.»
«Noi manterremo la nostra parte» sibilò Bennigsen con un ghigno «poi toccherà a lei tenere fede alla sua.»
«Lo farò.»
Levin si voltò verso il Generale Pëtr Palen. Lui gli fece un cenno d'intesa con la testa. Insieme al conte Nikita Panin, sarebbe rimasto con Aleksandr, da una parte per controllarlo e dall'altra per assicurarsi che nessuno interrompesse ciò che stavano per fare.
Senza altro indugio, in silenzio, Levin Bennigsen e Nikolaj Zubov entrarono nella stanza. Una volta dentro, però, si resero conto con stupore che era vuota. Con orrore, temettero il peggio.
«Qualcuno ci ha tradito!» mormorò Nikolaj stringendo i pugni. Volse lo sguardo intorno, ma non vide lo Zar da nessuna parte. «Maledetto!»
«Non è detto» rispose Bennigsen mantenendo il sangue freddo. «Non perdiamo la calma. Non ne sono così sicuro. Controlliamo meglio la stanza.»
Si mossero in ogni direzione, fino a che non notarono qualcosa che sporgeva dietro un paravento.
«Da questa parte» sibilò Levin.
Nikolaj lo raggiunse subito.
Spostato il paravento lo vide. Sguainò subito la sciabola puntandola alla gola dello Zar.
Bennigsen non perse tempo. Lo afferrò e lo trascinò in mezzo alla stanza. Lo fece mettere in ginocchio, poi tirò fuori un foglio che gettò ai suoi piedi.
«È finita» gli intimò con aria sprezzante «firmate la vostra abdicazione e avrete salva la vita.»
Lo Zar non rispose, limitandosi a fissare il suo aguzzino con sguardo di pietra. Sapeva che il generale stava mentendo e che lui non sarebbe uscito vivo da quella stanza qualunque cosa avesse fatto.
«Firmate!» urlò di nuovo quest'ultimo. «È la vostra ultima occasione.»
«Non vi darò questa soddisfazione» furono le secche parole di Paolo I. «Non otterrete mai ciò che anelate, Generale. Preferisco morire» detto questo si chiuse nel silenzio, la mente rivolta a Rohan-Polduc e la fredda lama della sciabola di Zubov che premeva sulla sua gola.
L'Ordine era salvo, ed era ciò che contava.
«Allora così sia» replicò l'assassino alzando l'arma in alto. «Morte allo Zar!» gridò poi abbassandola di scatto e facendola ricadere di taglio sul braccio dello Zar. Ferito, quest'ultimo cadde a terra con un gemito.
Zubov gli fu addosso. Bloccandolo con le gambe, si tolse la sciarpa e la passò intorno al suo collo, stringendo con forza fino a quando non sentì le forze dell'uomo venire meno.
Avrebbe potuto ucciderlo con la sciabola, ma aveva preferito sentire il momento in cui la vita di quell'uomo sgusciava via tra le sue mani.
Con un sorriso lasciò la presa.
Il corpo di Paolo I si accasciò lentamente distendendosi a terra, come se stesse dormendo.
Zubov si rialzò. Rimise la sciabola nel fodero gettando un ultimo sguardo di disprezzo allo Zar.
«È fatta» sussurrò Levin Bennigsen.
Pochi secondi dopo Paolo Petrovič Romanov esalò l'ultimo respiro.
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