Capitolo 3_La canzone della speranza perduta
Ancora qui, davanti a questo maledetto specchio, nello scantinato di una bettola in cui la mia band è stata accettata a suonare. Il locale non sarebbe neppure tanto male, salvo per il fatto che è frequentato per lo più da tossici e alcolizzati, che trovano estasiante passare un sabato sera con i sensi intorpiditi dalla loro personale droga.
Trovo la situazione grottesca.
Spesso mi chiedo cosa mi spinga a recarmi in questi luoghi di dubbia fama per suonare un paio di canzonette scritte in uno dei tanti periodi bui che si alternano nella mia giovane vita. Osservo di nuovo questo specchio, macchiato da sostanze indefinibili che ne ricoprono l'intera superficie; ciò che vedo riflesso non è altro che una visione distorta di me stessa. Eppure sono io, con quei capelli tinti di arancione, tagliati cortissimi nella ribellione dell'animo verso la vita. Quella vita che molti agognano come fosse l'Eden, e che io rifuggirei volentieri, se avessi il coraggio di farlo.
Ed è proprio in questi momenti, mentre fisso quei due vuoti ricettacoli di tristezza e abbandono, che trovo la risposta alle mie domande: mi reco in questi locali malfamati per poter cantare, per poter suonare la mia tastiera elettrica urlando, o sussurrando dolcemente, il mio dolore al mondo. E, in questo modo, sfogare la mia rabbia e il mio malessere, condividendoli con persone reiette quanto me.
Se penso che la mia vita, fino a pochi anni prima, era rosea e ingenua... Che cosa hai fatto, Isabella? Cos'hai combinato della tua bella vita? Pensavo che la maggiore età mi avrebbe portato libertà e spensieratezza. Invece, mi ha portato solamente una triste consapevolezza. Consapevolezza che il mio mondo, la mia fiaba dorata con il mio principe azzurro e le rose sbocciate nel giardino verdeggiante, altro non erano che una mera illusione.
Allora, ho iniziato ad udirle. Le voci. Voci che urlavano nella mia testa, incolpandomi, raccontandomi storie prive di gioia. E a quel punto, ho iniziato anche a vederli. I volti. Per la maggior parte del tempo essi si celano nelle ombre, negli anfratti oscuri della stanza in cui mi trovo, oppure tra le intelaiature della metro. Ma qualche volta, essi si palesano a me: facce distorte e irriconoscibili, appartenute a chissà quali poeti di un mondo ingiusto.
Non sono pazza. Per quanto tutto ciò cerchi sempre di farmi impazzire, io mi sono rifugiata nella musica e nella scrittura. Sono la mia salvezza: spengono le voci, dissolvono i volti. Ma perché perdo tempo a dare risposte...a chi importa ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. L'unica cosa che conta, è ciò che tu puoi percepire o no.
Ed io in questo momento percepisco una gran sete.
Afferro il rossetto dal pianale impolverato antecedente allo specchio e, tolto il cappuccio, coloro le mie labbra di nero. Il trucco pesante sul mio viso è accentuato ancor di più da quest'ultimo elemento. Ora sì che sono una perfetta punkettona. Ora sì che posso salire quella buia scalinata, dirigermi sul palco e sfogare la mia rabbia nelle canzoni con cui mi esibisco. Appoggio nuovamente il rossetto sul pianale e guardo un'ultima volta i miei occhi. Per quanto mi sforzi, non riesco mai a capire cosa ci sia in fondo a quello sguardo.
Ero solo una sedicenne,
quando incontrai un uomo,
gli raccontai dei miei sogni,
i miei desideri più profondi.
Incoronandolo re della mia fiaba,
ed io ero regina del suo cuore,
ma tutto prima o poi si spezza,
sia esso un trono oppure un fiore.
Così la mia fiaba divenne oscura,
priva di un re che la governasse,
con solo una regina che piangeva,
nella distruzione dell'essere.
Un giorno mi disse che il tempo cura
ogni malanno, anche se del cuore,
ma gli anni passarono in quella landa,
e la mia fiaba è rimasta oscura.
Senza il suo re, senza il suo trono,
senza la regina, troppo debole io sono,
dai un taglio a questa storia, o Dio,
dai un taglio a questa vita...
Il testo è finito, al ché inizia una lenta cacofonia di tasti pigiati, corde scosse e crini vibranti. Sulla batteria si abbattono colpi privi di sentimento, come il suono di una campana a lutto.
Di nuovo nel camerino di questo locale, uno scantinato freddo e fatiscente. Dovrei cambiarmi d'abito, ma fa' troppo freddo e in fondo chi se ne importa. Tornerò a casa così addobbata.
Eppure, nonostante i pensieri, rimango lì, sconsolata a rimirarmi allo specchio. Sul pianale sono scomparsi i trucchi, sostituiti da una lattina verde riempita a metà di birra.
I miei occhi sono lucidi; ora che mi sono sfogata, cosa accadrà? Torneranno le voci ad invadere la mia fragile mente, o compariranno i volti nel futile tentativo di farmi impazzire? Abbasso la mano a sfiorare la parte interna della gamba. La passo sulla pelle nera dei pantaloni, come se accarezzandomi riportassi un po' di serenità. Il tocco rassicurante della madre, o di un ragazzo che ti ama. Arcuo la mano, graffiando ciò che si trova sotto. Poi la sposto verso il petto, insinuandola sotto il reggiseno. Ne traggo un pezzo di carta sgualcito, su cui è impresso il ricordo di un tempo felice. Di un tempo passato.
Nella foto il sole riscalda il mio volto, aperto in un sorriso pieno di gioia e speranza per il futuro. A fianco, c'è il mio Edward, le sue labbra arricciate in un sorriso mesto, com'era sua abitudine.
Vedere quella foto mi fa' sempre sorridere, e al contempo piangere, quando accorre il pensiero di come quel tempo si sia concluso.
***
< Non puoi dirlo sul serio! >
< Mi dispiace, Isabella. Qui e ora, è finita. >
"Non udirai più la mia voce ferma e sicura, non odorerai più il profumo del dopo barba che utilizzo" continua a dire, sono nella mia mente.
< Ma io ti amo. Come posso fare senza di te, me lo dici? >
"Non farmi questo. Io ti odio, ti odierò se mi farai questo!" continuo mentalmente, con le labbra che tremano di perdizione e paura.
< Mi dispiace. > conclude Edward.
"Due anni. I sogni condivisi, i desideri di amore reciproco. Ci immaginavamo il giorno in cui ci saremmo sposati, suggellando il patto d'amore. Ed ora..."Non ho il coraggio di ribattere.
< Se mi lasci io mi uccido. > sentenzio dopo un attimo di silenzio. Le mie parole sono rapide, affilate.
< Non lo farai. >
< Proviamo a vedere? > lo minaccio. Non vuole essere una minaccia, solo un estremo, disperato, tentativo di convinzione. Ma è una minaccia.
"Mi uccido sul serio. La mia vita senza di te non ha sapore, non ha senso."
< Perché mi fai questo? > mi chiede lui ad un certo punto.
< Questo cosa? > chiedo io con voce atona.
< La nostra relazione è arrivata al capolinea. Non riuscirai più a rendermi felice, per quanto tu ci provi. E non riuscirai neppure tu ad essere veramente felice. Perché vuoi costringermi con queste minacce a rimanere insieme a te? Nell'infelicità. Perché non vuoi lasciare che io sia felice? >
"E la mia felicità? A me non ci pensi?!" "Io ti amo." "Non volevo minacciarti." "Perché non possiamo provare ad essere felici?" "Cambierò, lo farò per te." "Cosa pretendi da me?" "Perché non provi tu a cambiare qualcosa per me?" "Ti odio." "Ti amo." "Voglio morire." "Qui e ora." Un'accozzaglia di emozioni contrastanti mi pervade, mi sferza la testa di dolore nella tempesta dei sensi. Non posso rispondere, non riesco a rispondere.
< Ti prego, Isabella. Lascia che anche io sia felice. > chiede in un sussurro, con gli occhi bassi e la tristezza che pervade quelle parole.
< Non ti perdonerò mai. E non dimenticherò. > e corro via da lui, piangendo.
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