CAPITOLO XII
«Andrà bene, vedrete. Sarete a casa prima che ve ne rendiate conto.»
Imboccai un pezzo di carne essiccata. Eravamo nella mia cabina. Dinnington era incaricato a portarmi i pasti e, talvolta, si soffermava a parlare con me. Faceva di tutto per instaurare una conversazione e solo qualche volta accondiscendevo a soddisfarlo.
Dinnington sospirò. «Dovreste uscire da qui. Non vi fa bene restare chiusa tutti i giorni qui dentro. Uscite, prendete un po' d'aria fresca, fate una passeggiata lungo la nave.»
Scossi la testa, fissando il vuoto dinanzi a me. «Preferisco di no.»
Ma Dinnington si rifiutò di vedermi ancora reclusa. Quella sera mi invitò a fare una passeggiata sul ponte. Io lo guardai con esitazione. Dinnington si comportava in modo gentile con me, ma la situazione in cui mi trovavo mi frenava dal fidarmi di lui. La sua proposta, tuttavia, era apparentemente innocua, perciò accettai. Camminammo fianco a fianco in perfetto silenzio, rifiutandomi di riempirlo con le parole. Osservai l'acqua nera del mare, così densa e scura da sembrare inchiostro. Sulla superficie si formavano delle piccole increspature grazie alla lieve brezza proveniente da est.
«Ho sentito dire dal Capitano che avete dei fratelli», disse lui.
«Sì.»
«Come si chiamano?»
La rabbia che ribolliva dentro di me mi impedì di rispondere. Non volevo parlare della mia famiglia.
Non a loro.
Dinnington non se la prese. Cominciò a fischiettare un motivetto allegro, godendosi la brezza serale. «C'è qualche promesso sposo che vi aspetta a Charlestown?» chiese poi.
«No», replicai. «Ma immagino che non importi più, ora. State rubando il patrimonio della mia famiglia, pertanto anche la mia dote. Nessun uomo rispettabile vorrà prendermi come moglie, se povera.»
«Dal tono, ne sembrate quasi sollevata.»
Alzai un sopracciglio a quelle parole, ma non dissi niente.
«Guardate», fece lui, indicando il cielo. «Che meraviglia. L'Orsa Maggiore è così brillante stasera. Sapete, mi chiedo spesso perché le cose belle debbano durare così poco, ma poi quando guardo il cielo di notte... Ah! Perlomeno esiste qualcosa di bello che dura per sempre!»
«Signor Dinnington, posso farvi una domanda?» chiesi, interrompendolo.
«Ma certo.»
«Perché state conducendo questa vita da malvivente? Perché siete un pirata?»
Lui sorrise. «Per puro caso, a dire il vero. È stata Arenis a indurmi alla pirateria e ogni giorno ringrazio Dio per questo.»
«Davvero?» feci, turbata.
«Davvero. Ma la mia non è una storia lieta, signorina Adler. Se proprio desiderate conoscerla, ve la racconterò. Non oggi, però, non in una serata così splendidamente pacata.»
Non appena la nostra camminata terminò, lui mi riaccompagnò fino alla mia cabina.
«Vi ringrazio per la lieta compagnia, signorina Adler. Vi auguro una buonanotte.»
Erano trascorsi quattro giorni, giorni in cui avevo visto soltanto il volto di Dinnington all'ora dei pasti. C'era qualcosa di insano in ciò che provavo. Era una sensazione di ribrezzo e di orrore che mi raggelava e non lasciava nient'altro dietro di sé che completo intorpidimento. Avevo paura, paura del futuro e di ciò che quegli uomini potevano farmi, paura di quella donna pirata e del suo essere padrona della mia vita.
La notte faticavo ad addormentarmi. La mia mente, nel dormiveglia, elaborava le immagini più agghiaccianti; morivo in continuazione, squartata da sciabole e pugnali o trapassata da mille pallottole. Morivo annegata, morivo stuprata. Mani callose e violente che mi toccavano, sorrisi pieni di scherno che mi deridevano mentre chiamavo aiuto. Mi costringevo a restare sveglia, dunque, con il cuore che mi palpitava forte. Il terrore prendeva il sopravvento e tremavo così tanto che sentivo il rumore dei denti che battevano l'uno contro l'altro. Eppure, non potevo rinunciare al sonno. La stanchezza non mi lasciava scampo. Sentivo la mia testa pulsare dolorosamente, il mio corpo implorare pietà. Avevo bisogno di dormire e le mie palpebre erano così pesanti che non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Infine, mi arresi, lasciandomi cadere in quell'oscurità così piena di orrori.
Fui svegliata da una forte nausea. Avevo lo stomaco in subbuglio e sentivo di dover vomitare. Quando aprii gli occhi mi accorsi che la nave dondolava fortemente. Oh, no. Non di nuovo! Mi alzai e mi diressi nel bagno, cercando di trovare il catino nel buio della notte. Feci appena in tempo, poiché subito dopo rigurgitai l'intera minestra di verdure che avevo mangiato per cena. I conati di vomito furono violenti e mi fece male lo stomaco per lo sforzo.
Dovevo uscire da quella minuscola stanza dondolante. Come aveva detto Mary, era meglio andare sul ponte e fissare l'orizzonte quando si stava male. Afferrai uno scialle, me lo misi addosso e dopodiché uscii, scalza. Mi aggrappai alla balaustra, come se fosse la mia unica ancora di salvezza. Il mare era inquieto, quella notte. Restai ad osservare l'orizzonte e il cielo stellato per qualche minuto, cercando di respirare a fondo. La nausea non era ancora passata e vomitai di nuovo. Mi sporsi attraverso la ringhiera per evitare di sporcare le assi di legno.
Persino l'odore del mare mi nauseava!
D'improvviso, qualcuno mi afferrò per la spalla e io lanciai un urlo di terrore. Sussultai e mi voltai verso il nuovo arrivato. Era un ragazzino. Aveva i capelli rossicci e il viso cosparso di lentiggini. Mi guardava in apprensione.
«Perdonatemi, non volevo spaventarvi! Signorina? Vi sentite male?»
«Sto bene, non...» Ma venni interrotta da un altro conato.
Il ragazzino sussultò. «Vado a chiamare subito il Capitano!»
Non volevo vedere quella donna, né ora né mai. Mi voltai verso di lui, cercando di trattenerlo. «No, non...»
Ma egli non mi diede il tempo di replicare: corse via come il vento.
Trascorsero pochi minuti e poi vidi Arenis sbucare da sottocoperta. Il ragazzino con la pelle lentigginosa ballonzolava nervoso dietro di lei. La donna aveva indosso solo la biancheria; una camicia lunga che le arrivava fino alle ginocchia e delle calze di lana. I suoi capelli erano scarmigliati e sciolti sulle spalle. Era evidente che il ragazzino l'aveva destata.
Tentai di dire qualcosa –qualcosa di poco gentile-, ma un conato me lo impedì. Quando finii, mi pulii la bocca con il dorso della mano.
«Venite con me», mi sussurrò Arenis, gentilmente. Mi afferrò per la vita e mi costrinse a staccarmi dalla balaustra.
«...no», sussurrai, indignata. «Non vado da nessuna parte con voi.»
Mi sottrassi dalla sua presa e ritornai a sporgermi verso il mare. Lei però rimise la sua mano intorno al mio corpo e mi trascinò via, verso il centro della nave.
«Lasciatemi! No! Lasciatemi!»
Mi dimenai con tale foga che Arenis mi lasciò andare. Arretrai istintivamente da lei, finendo quasi per inciampare su una fune.
«Va tutto bene, signorina Adler. Non è mia intenzione farvi del male.»
«Allora andatevene.»
«Io posso aiutarvi. Oltre che Capitano, sono anche medico di bordo. Chiunque ha bisogno d'aiuto, viene da me. Oh, non guardatemi in quel modo. Ho avuto una brava maestra.»
«Chi?»
«Una donna africana dedita alle arti della guarigione. Mi ha insegnato parecchie cose.»
Sbuffai. «Una schiava?»
«Mia cara signorina Adler, non fatevi ingannare dai pregiudizi. La donna che mi ha insegnato ne sapeva più dei vostri medici inglesi. Ebbene? Mi permettete di aiutarvi?»
«Andate all'inferno, Capitano.» Non ebbi il tempo di dire altro che dovetti vomitare nuovamente. Il mio corpo venne scosso da violenti spasmi. Avevo un sapore tremendo in bocca e la mia gola bruciava.
«Quinn», esclamò Arenis, rivolta al giovane mozzo.
Il ragazzino aveva uno sguardo sveglio e limpido e mi osservava con compassione.
«Sì, Capitano?»
«Vai a prendere dell'acqua fresca per la signorina Adler.»
«Agli ordini.» Poi scomparve, affrettandosi verso la cucina.
«Non lo voglio il vostro aiuto, lo capite?» insistei. «Dovete lasciarmi in pace.»
«Come vi ho già fatto presente, signorina Adler, il vostro benessere è fondamentale per me, pertanto vi aiuterò, che voi lo vogliate oppure no.»
Ella fece per allungare una mano verso il mio viso, ma mi sottrassi velocemente. «Che cosa fate?» sussultai.
«Voglio solo sentire se avete la febbre.»
«Non ho la febbre e non sono in procinto di averla. È solo mal di mare.»
Arenis mi osservò pazientemente. La mia scontrosità non la turbava e non ne sembrava per niente offesa o sorpresa. Lo trovava normale il modo in cui la trattavo.
«Se è così, posso toccare il vostro braccio?» chiese.
«Il mio braccio?»
«Conosco un metodo per far diminuire la nausea.»
Arretrai ancora di qualche passo, scuotendo la testa con fermezza. Non volevo che si avvicinasse. Non volevo che mi sfiorasse neanche per sbaglio. «No.»
«Allora lo eseguirete da sola. Mi state ascoltando, signorina Adler?»
«Vi ho detto che non voglio essere aiutata.»
Lei mi ignorò e continuò a parlare: «A tre dita di distanza dal polso c'è un punto su cui dovete fare pressione. Se posizionate il pollice appena sotto l'indice dovreste essere in grado di sentire due tendini. Massaggiate quel punto per alcuni minuti, con forza; dovrebbe aiutarvi a farvi passare la nausea.»
«È del tutto assurdo...»
«Fatelo.»
Sebbene scettica, provai ugualmente. Massaggiai il mio avambraccio con il pollice, premendo con forza. Dopo pochi secondi, con mia gran sorpresa, mi sentii subito meglio.
«Ora ripetete il gesto anche sull'altro braccio», mi suggerì la donna.
E lo feci. Era come un miracolo. Se solo avessi conosciuto quel metodo prima di lasciare Londra!
«Va meglio?»
Non risposi. Non volli darle la soddisfazione di ammettere che sì, andava molto meglio. Feci scivolare lo sguardo lontano da lei, chiaramente irritata.
Quinn arrivò proprio in quell'istante, di corsa. In una mano teneva un bicchiere, nell'altra una caraffa traboccante d'acqua.
«Puoi andare, adesso», disse la donna al ragazzino, mentre era intenta a versarmi l'acqua nel bicchiere. «Grazie per avermi informata.»
Lui tentennò. «La signorina sta bene?»
«Sta bene, non temere. La nausea le è già passata.»
«Va bene...»
«Su, vai.»
«Sissignora.» Si girò più volte verso di me mentre raggiungeva la prua, come convinto che da un momento all'altro potessi ruzzolare a terra incosciente. La notte lo assorbì a poco a poco, finché non lo vidi più.
«Reclutate anche bambini?» chiesi ad Arenis, sprezzante.
«Oliver Quinn non è un bambino, ha quattordici anni. Tenete», disse lei, porgendomi il bicchiere d'acqua. «Bevete a piccoli sorsi, non tutto d'un fiato.»
Feci quello che mi era stato detto, senza fiatare. Avevo capito che i suoi erano consigli utili.
«Non preoccupatevi, vi abituerete», continuò. «Al mare ci si abitua sempre. Dopo un po' diventa persino prevedibile. Sono le persone il vero problema. Da loro non ci si può aspettare nulla.»
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