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Chiaro di luna
Julian non fece scenate. Non intendeva sconvolgere Matilda per dei comportamenti di cui forse non era cosciente, e un uomo intelligente - quale monsieur Moreau aveva mostrato di essere - avrebbe compreso l'antifona e ritrovato immediatamente il proprio posto.
La vicenda fu rapidamente dimenticata, come l'arrivo dell'inusuale lettera, seppellita in un tiretto della scrivania del giovane al di sotto di una montagna di scartoffie, bozze di poesie, ritagli di giornale e manoscritti.
Il ritorno di Uriah assorbì totalmente le sue attenzioni: l'amico portava con sé decine di nuovi racconti, artistiche visioni, brani su cui esercitarsi davanti al solito piccolo e fidato pubblico. I conti di Albemarle organizzarono una festa, prevista nel fine settimana, per riaccoglierlo degnamente tra la crema londinese e le braccia di Pamela.
Confacendosi alle aspettative diffuse su quella nobile e rispettata famiglia, l'evento si rivelò elegante e trionfale: gli Egerton ospitavano raramente feste, ma pareva facessero scorta di splendore nei periodi di quiete, al punto che nessuno azzardava rifiutare l'invito.
Neppure Théo Moreau, che era solito sparire dalle scene al crepuscolo, aveva negato la sua presenza alla famiglia che aveva avuto la cortesia di assegnargli il suo primo ingaggio da precettore. Da quel che Julian era in grado di intuire, l'uomo era legato ai conti da un rapporto di gratitudine e reciproca stima - e anche questa riflessione l'aveva portato a convincersi di aver immaginato l'avventato corteggiamento di monsieur Moreau nei confronti di sua sorella.
Fanny lo rispettava smisuratamente e Julian non aveva mai avuto modo di dubitare del suo giudizio su persone di cui non fosse invaghita. Tuttavia, non poté fare a meno di considerare il ballo un'occasione per studiarlo più da vicino, vittima della curiosità più che del sospetto.
Quell'uomo continuava a dargli l'impressione di qualcuno che fosse sbucato dal nulla.
Julian aveva preso lezioni di ballo anni prima, quando la contessa Alice era stata ancora in vita per richiederlo, ma il giovane si era presto accorto che non avrebbe mai potuto danzare con Uriah, stringerlo tra le braccia come un uomo la sua compagna, e le lezioni avevano perso la loro attrattiva. Di rado ballava alle feste, sacrificandosi solo per fanciulle che, non avendo ancora debuttato, non avrebbero potuto rientrare nei progetti matrimoniali di Albert. Trascorreva il resto del tempo incollato alla carta da parati, nell'ombra del fulgore di Uriah.
Il salone da ballo degli Egerton aveva i colori delle iconografie del Paradiso: bianco, azzurro e oro.
Julian l'aveva sempre trovato il luogo ideale per osservare l'amico, che pareva confondersi tra i Serafini dipinti sulla volta dell'ampio soffitto, con i riccioli d'oro e il sorriso rasserenante.
Non mancò di farlo neppure quella sera, mentre Uriah era travolto dall'accoglienza famelica della nobiltà, sempre a caccia di pettegolezzi. La gente voleva sapere il nome del musicista che l'aveva ospitato, di che colore fosse la tappezzeria della sua sala da pranzo, se fumasse, se apprezzasse il vino, e quale, che suono avesse la sua voce, se fosse altero e distaccato come appariva sul palco.
Uriah rispondeva, una scintilla di ammirazione sincera nello sguardo aperto - se Julian non l'avesse conosciuto meglio di così, avrebbe potuto addirittura provare gelosia.
Magari avesse potuto esser geloso di un uomo, anziché rodersi il fegato nel costante confronto con donne che per natura e biologia non avrebbe mai potuto vincere.
Il ragazzo gli si avvicinava, adesso, e Julian si distaccò dalla parete, raddrizzandosi, per nascondergli il suo turbamento. Uriah aveva un calice di champagne tra le dita flessuose - credeva gliel'avrebbe porto, ma l'amico lo tenne per sé, bevendone un sorso prima di salutarlo.
-La carta da parati deve essere un'ottima conversatrice.-
Con la coda dell'occhio, Julian individuò le strisce bianche e avorio contro cui si stava mimetizzando.-Migliore della metà degli invitati.- Ribatté.-Presenti esclusi.- Aggiunse, ammiccando.
Uriah emise un sospiro rassegnato e si appoggiò alla parete, accanto a lui. Le loro spalle si sfiorarono - Julian ignorò la scarica elettrica che gli percorse la spina dorsale.
-Ho parlato con Pamela... sarebbe meglio dire che ci ho discusso.- Il giovane mandò giù dell'altro champagne.-L'ho quasi convinta ad accettarti come testimone, ma dovrai comportarti bene, al prossimo incontro.-
Julian aggrottò le sopracciglia.-Mi tratti come un cane.-
-E confido che tu non morda.-
Non valeva davvero la pena macchiarsi i denti del sangue aspro di Pamela, ma questo Julian non lo disse. Invece rispose:-Ti ho fatto una promessa.-
Uriah voltò appena il capo per guardarlo, la nuca contro la parete, i ricci soffici premuti al di sotto. Nelle sue iridi lacustri galleggiava un sentimento di fraterna comprensione - non poteva immaginare cosa causasse l'astio di Julian nei confronti della sua promessa sposa, ma doveva in qualche modo sapere che mantenere la parola data gli costava fatica. E forse si aspettava, giustificandolo tuttavia, che non fosse in grado di adempiervi fino in fondo.
Ma parve accontentarsi.
-Hai ragione.- Disse, e tornò a puntare gli occhi sulla moltitudine che si muoveva attraverso il salone, scalpicciando sul marmo illuminato dai lampadari.
-Mi dispiace abbiate litigato.- Mormorò l'altro, preso dal senso di colpa.
Uriah fece spallucce, vuotando il calice.-Non sarà l'ultima volta. I disaccordi capitano, nella vita di coppia. Di', non abbiamo mai litigato, tu ed io?-
Julian sentì il sangue affluirgli al petto, sotto il panciotto di satin.-Non è la stessa cosa...-
-É proprio la stessa cosa, invece.- Ribatté Uriah, e prima che potesse chiedergli spiegazioni, Julian scorse un'alta figura farsi avanti per unirsi a loro.
-Monsieur Moreau.- Il sorriso di Uriah si allargò; il giovane si protese verso l'uomo, afferrandogli saldamente una mano.-Sono contento abbiate accettato di venire. Vi state divertendo?-
Negli occhi scuri del precettore aleggiò un'ombra.-Le feste non sono esattamente il mio ambiente.-
Qual è il vostro ambiente?
Uriah non sembrò accorgersi del suo cipiglio. Diede un'ultima stretta alle loro mani giunte.-Credo voi e Julian possiate tenervi buona compagnia, mentre mi assento.- Superò monsieur Moreau con un secondo, splendente sorriso.-Pamela si starà chiedendo dove sono finito.-
Si infilò così nel folto della folla, e Julian perse di vista la sua testa bionda nel giro di pochi istanti.
Sollevò lo sguardo sul precettore, che continuava a sostare di fronte a lui, sempre ritto nella sua elegante altezza, con le mani nelle tasche dei pantaloni neri.
-Perché non ballate?- Gli chiese, seppur conscio della stizza che quella domanda causava quando era rivolta a lui.-Ci sono almeno due splendide fanciulle che vi lanciano occhiate pensando di essere ben celate dai ventagli.-
Théo non si preoccupò di guardarsi alle spalle.-Non ne sono capace.-
Julian sollevò le sopracciglia.-Non sapete ballare?- Ripeté, in tono canzonatorio.-Ma siete francese. L'arte della seduzione non dovrebbe scorrervi nel sangue?-
Le labbra di Théo ebbero un guizzo scomposto.-Voi inglesi.- Disse, altrettanto beffardo.-E la vostra convinzione di poter circoscrivere un popolo in una frase fatta.-
Julian rise, prendendo al volo un calice di champagne dal vassoio di un cameriere di passaggio.-Per quale guerra persa ci portate rancore?- Ribatté, osservandolo al di sopra del bordo del bicchiere.
L'uomo scosse appena il capo.-Non sono patriottico.-
-Non siete patriottico, non sapete ballare... finalmente scopro qualcosa su di voi.-
-Che intendete?-
-Siete un uomo estremamente criptico.- Julian non distolse lo sguardo dal suo volto affilato, tentando di carpire una reazione - era davvero riservato o aveva qualcosa da nascondere?
Monsieur Moreau diede un'alzata di spalle.-Non sono pagato per chiacchierare.-
-E se io lo facessi?-
-Siete disposto a tanto?- Il precettore sorrise, di una ferinità che scatenò brividi sulla pelle di Julian.
-Com'era il detto?- Rispose, muovendosi senza fretta verso di lui.-Un penny per i vostri pensieri.- Inclinò il capo in direzione delle portefinestre.-Usciamo, qui si soffoca.-
Théo lo seguì in silenzio attraverso le vetrate, fin sul patio a lastroni bianchi. Le suole delle loro scarpe da ballo scalpicciavano nervosamente sulla ceramica, nell'atmosfera quieta.
Erano gli unici invitati arenati su quell'isola bianca, nel mare d'erba del giardino. Dall'interno del salone provenivano ancora i mormorii della festa, la dolcezza di un pianoforte - forse era stato chiesto a Pamela di suonarlo, perché le note ricordavano a Julian quelle di un brano in cui si era spesso esibita nei loro mesi di frequentazione, sperando di estorcergli anche solo un'espressione ammirata. Ma Julian aveva orecchie solo per la musica di Uriah.
-E voi?- Proruppe Théo, gli occhi puntati nel cuore nero della notte.-Perché siete qui con me, anziché sulla pista da ballo?-
Julian posò il calice vuoto su una colonnina ornamentale.-Non fingete ignoranza. Siete un acuto osservatore.-
Il precettore trattenne una piccola risata sul fondo della gola.-Le signorine vi temono.- Affermò, ruotando appena il capo per guardarlo. La luce delle stelle donava un candido nitore ai suoi zigomi alti.-Vi trovano lunatico.-
-Lunatico.- Julian scrutò la falce bianca riflessa nei suoi occhi castani, attratto come la marea.-Dal latino tardo lunaticus, "che patisce gli accessi di pazzia ricorrenti con le fasi lunari". Forse le signore mi troverebbero più gradevole al plenilunio.- Un ghigno comparve sul suo volto.-Cosa pensate voi di me, monsieur?-
Théo si appoggiò ad una seconda colonnina, incrociando le gambe di fronte a sé.-É così che intendete spendere il vostro penny?-
-Propongo piuttosto un baratto.- Replicò Julian.-Una domanda per una domanda.-
Un'onesta curiosità si risvegliò nello sguardo del precettore.-Vi risponderò, allora: sapete perché non mi è piaciuta la vostra poesia?-
Julian arricciò il naso, contrariato dall'emersione forzata di quei versi dall'oblio della vergogna.-Perché le rime erano banali, il tema scontato, la metrica...-
-No.- Interruppe l'uomo.-O almeno, non solo. Non l'ho apprezzata perché leggendola ho avuto la sensazione che l'autore mentisse. E anche avendovi ad un passo da me, ora, non posso fare a meno di credere che le vostre emozioni non siano del tutto autentiche. Diffido del parere delle fanciulle, non c'è effettiva crudeltà in voi, ma qualcosa dovete pur nascondere.-
Julian cacciò in tasca le mani tremanti, mentre le parole di Théo scavavano come artigli nel suo petto per risucchiargli l'aria. Non necessitava di ingannare se stesso - la poesia pubblicata sul The Bookman era stata solo un pretesto per intascare denaro. Aveva spremuto il suo cuore sulla carta e infarcito le gocce acri di frivolezze liriche, per renderle palatabili.
Ed era stato convinto, fino a quell'istante, che la copertura tenesse. Ma Théo... cos'aveva, lui, più degli altri, per riuscire ad indagare così in profondità?
Julian ricordava del modo in cui i suoi occhi rapaci gli avessero perforato le ossa, il pomeriggio in cui l'aveva accolto per la prima volta alla villa. Che avesse compreso già da allora, che fosse stato in grado di individuare il suo tormento al primo sguardo?
-Bizzarro.- Replicò, restituendo sicurezza alla propria postura.-Avete appena dipinto il vostro ritratto.- Monsieur Moreau ebbe un istante di cedimento. La sua maschera di placida severità lasciò trapelare sorpresa attraverso le crepe. Julian proseguì:-I bugiardi fiutano facilmente le menzogne altrui.-
-Mi credete un bugiardo?-
Julian doveva aver immaginato la ferita aperta nella sua voce.-É questa la vostra domanda?-
-No...- Théo tacque di colpo, sulle labbra schiuse il contorno delle parole che non aveva formato, e si raddrizzò, gli occhi sgranati.-C'è odore di fumo.-
-Cosa?-
Il precettore si era già avviato all'interno della sala da ballo, a passo spedito, e Julian dovette tenergli dietro per scoprire la fonte della sua agitazione.
Scostò le tende, e scorse una crocchia di persone radunata attorno al buffet; al centro della mezzaluna di invitati si levavano guizzi di fiamma e piccoli sbuffi di fumo, intervallati da risolini compiaciuti.
-É solo un flambé.- Julian si lasciò andare contro l'arcata della portafinestra, inspirando il profumo dell'uvetta arsa.-Si sparge del brandy sul pudding e... certamente saprete già di che si tratta, le mie spiegazioni sono futili.- Cercò il volto di Théo, accanto a lui sulla soglia del salone, aspettandosi di trovarvi nostalgia del suo Paese, o forse indignazione per una qualche incorrettezza nella tecnica, ma lo stomaco gli si annodò nel torace nel constatare che l'uomo era terreo. Alla luce abbagliante dei lampadari di cristallo, persino le sue belle labbra rosse avevano una sfumatura mortale.
-Vi sentite bene?- Allungò una mano verso di lui, in un moto di apprensione, ma Théo si stava già allontanando di nuovo, con lo slancio di un gatto spaventato.
-Sarà meglio che mi ritiri.- Mormorò, quasi parlando tra sé.
-Posso offrirvi la mia carrozza?-
Per Glenn non sarebbe stato un fastidio accompagnare monsieur Moreau e poi tornare per recuperare la famiglia Wodehouse, ma il precettore rifiutò l'offerta con un cenno delle dita affusolate e pallide.
-Farò una passeggiata.- Disse.
Julian rimase inchiodato al centro del salone ad osservarlo con un cipiglio perplesso mentre ringraziava Charles e Penelope dell'ospitalità, con un sorriso schivo che per la prima volta sembrava essere generato da un dolore fisico.
Che demone l'aveva afferrato, tutto d'un tratto?
Forse non gli piaceva l'uvetta?
Per quanto Julian tentasse di trasformare quell'assurda situazione in un episodio di cui ridere, l'orrore negli occhi di quell'uomo continuò a tormentarlo.
Si dileguò dal ballo poco dopo, stanco di confondersi con la tappezzeria nel tentativo di intravedere il sorriso di Uriah in quella giravolta di spumosi abiti per distrarsi dal pensiero di Théo.
Raggiunse Glenn, che fumava beatamente un sigaro accovacciato sui gradini d'ingresso della villa.
Udendo rumore di passi, l'uomo si voltò.
-Volete andare, signore?- Chiese, alzandosi immediatamente.
Julian si stava togliendo lentamente i guanti.-Finisci il tuo sigaro.- Rispose, infilandoli nella tasca anteriore del frac.
Posò le mani nude ai lati del muso di un cavallo, accarezzandone il pelo baio. L'odore pungente del sigaro fece fremere le narici larghe dell'animale.
-Glenn.- Julian si voltò verso il cocchiere, incontrando il suo viso abbronzato e rugoso oltre il nugolo di braci ardenti.-Ricordi del giorno in cui ti ho mandato a chiamare il precettore di Matilda?-
-Sì, signore.-
-Dove ti ha condotto l'indirizzo? Ad una villa? Un appartamento?-
-Un albergo.-
Julian si morse le labbra, trattenendosi dal porre domande cui Glenn non sarebbe stato in grado di rispondere. Abbassò gli occhi sul muso del cavallo e percorse con le dita la voglia bianca che correva dalla fronte alla bocca come la punta di una lancia.
-Sei entrato nella sua stanza?-
-Solo per qualche istante.-
-Hai notato nulla di strano?- Il giovane tornò a guardare il cocchiere, che aveva allontanato il sigaro per soppesare quella particolare richiesta.
-C'erano alcuni scatoloni.- Replicò dopo un po'.-E una valigia sul letto. Credevo stesse partendo, ma non è stato il caso.-
Che fosse appena tornato, allora? Ma perché soggiornare in un albergo? Non possedeva una casa, dopo tutti gli anni trascorsi a Londra?
Julian emise un sospiro frustrato.
Lambiccarsi sul passato di quell'uomo era una pratica sterile - dopotutto, monsieur Moreau era solo di passaggio nella sua vita. Terminata l'educazione di Matilda, sarebbe scomparso in qualche altro vicolo oscuro, portando via con sé il suo mistero.
Aprì lo sportello della carrozza, riavendosi allo sfrigolio del sigaro che veniva calpestato.
-Andiamo.-
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