Capitolo 1 - La volta giusta

Di fronte a me c'era una culla.
Era una piccola culla, sulla cui superficie era stesa una tendina di un bianco pallido. Occupava il centro di una stanza quasi totalmente immersa nell'oscurità. Al suo interno si riusciva a intravedere, attraverso un piccolo spiraglio tra i tessuti, una neonata dall'aria curiosa e intelligente. Contribuivano a rischiarare l'ambiente solo i raggi luminosi che filtravano da una finestra. Quella notte la luna era piena e, come un gigantesco occhio senza iride, dava l'impressione di fissarmi, immobile al centro della volta celeste. Mossi qualche passo incerto verso la culla, animata da un'attrazione all'apparenza totalmente ingiustificata.

Fu allora che sentii dei passi farsi più vicini.
Stava arrivando qualcuno, era evidente.
L'istinto, più rapido della ragione, mi suggerì di nascondermi, e così feci.

Era un uomo...

«Madeleine».

Gli scossoni di mia madre mi sottrassero all'atmosfera onirica. Senza volerlo, fui catapultata nella realtà.

Avevo nuovamente fatto quel sogno.

L'immagine di quella stanza, così perfettamente bianca, di quella neonata, e soprattutto di quell'uomo, il cui volto per me era ancora un'incognita, mi tormentava ormai da diversi anni.

Da quando avevo memoria, in effetti.

E avevo rinunciato a pormi interrogativi sul significato recondito che potesse celare.

D'altronde ci pensava mia madre, con i suoi continui traslochi, ingiustificati ed ingiusti, ad occupare gran parte dei miei pensieri da sveglia.

«Madeleine Dodgson!»

Tipico di lei: era l'unica a chiamarmi col nome per intero (per gli amici ero semplicemente Mad), o addirittura, non ottenendo risposta al primo richiamo, col nome e cognome.

«Sono sveglia» le feci notare, con un certo risentimento nella voce.

Mi abbandonai ad un fragoroso e liberatorio sbadiglio ed estesi le braccia in avanti, approfittando dell'esiguo spazio a disposizione nel sedile posteriore. Fra scatoloni imballati alla meno peggio e valigie ammassate l'una sull'altra, era già tanto che riuscissi a trarre un respiro profondo. Ciò nonostante ero riuscita nell'intento di addormentarmi, vittima di una profonda stanchezza. L'avevo fatto in una posizione così innaturale e scomoda da poter avvertire, adesso, dolore a ogni muscolo del corpo.

«Oh, amore. Stavi dormendo?»

Detestavo le domande retoriche.

«No, mamma. Alla gente piace tenere gli occhi chiusi anche da svegli, è risaputo. Pare aiuti a riflettere» esclamai sarcastica.

«Scusami. Ho notato che ti agitavi e mi sono preoccupata... incubi?»

Non le avevo mai raccontato di quel sogno che animava costantemente le mie notti.

Controllava già gran parte della mia vita da sveglia: almeno di notte volevo sottrarmi a quella sua spasmodica necessità di controllo.

«No, nulla» la rassicurai, rivolgendole uno dei miei soliti sorrisi patinati.

Mi spostai dal sedile posteriore a quello anteriore, mettendo da parte la sua borsa, ed estrassi dal vano portaoggetti una confezione di biscotti.

«Che ora è?» mi informai, sgranocchiandone uno.

Doveva essere prestissimo.
Il sole non era ancora sorto all'orizzonte.

«Sono quasi le sei del mattino» rispose lei, sospirando sonoramente. «Ma sta' tranquilla, siamo quasi arrivate».

Sta' tranquilla...

Certo, chi non starebbe tranquilla dopo l'ennesimo trasloco?
Questa volta la meta sarebbe stata un'altra città sconosciuta, a malapena citata sulle mappe.

«Spero che questa sia veramente l'ultima volta» commentai acida.

Le rivolsi le spalle e mi sporsi dal finestrino.

Lo facevo sempre.

Era un'abitudine, una sorta di passione che avevo: osservare frammenti delle esistenze altrui rendeva meno deprimente la mia. Mi piaceva pensare che ogni singola persona che incontravo avesse una vita entusiasmante, unica e irripetibile. Li osservavo bene, tutti, e dietro ogni minima espressione che scorgevo a distanza, una ruga istantanea che solcava i loro volti, per poi scomparire, rapida, mi sembrava di avere accesso anche ai più piccoli e preziosi aspetti delle loro vite.
Come se il viso fosse la porta di accesso alle loro anime.

Avevo solo diciassette anni, ma nella mia vita avevo probabilmente visto più città e paesi di chiunque altro.

A mia madre non andava mai bene nessun luogo. Dopo uno, al massimo due mesi, decideva così, in totale arbitrio, di fare le valigie e partire verso una nuova destinazione.

Inutile specificare che la mia opinione non contasse mai nulla, e che la mia vita sociale fosse una leggenda metropolitana.

Riguardo a mio padre...

Be', lui ci aveva abbandonate già da diversi anni, quando ero solo una bambina.
Non ricordavo quasi nulla di lui, ed era decisamente meglio così. Il non averlo mai conosciuto mi aveva portata ad idealizzare la sua figura, rasentando l'inverosimile.

Cercavo in lui la perfezione che non vedevo in mia madre, né tantomeno in me.

Ero convinta che se ne fosse andato per inseguire qualcosa di più importante di una stupida famiglia.

«Hai preso la pillola?»

Mi voltai verso mia madre e la osservai per qualche istante, pensierosa.

La pillola.

Una delle poche cose di cui le importasse.

Le domande che mi rivolgeva si riducevano alle canoniche "hai mangiato?", "hai studiato?", "hai dormito bene stanotte?" e "hai preso la pillola?"

Tirai su la zip dello zaino ed estrassi il flacone. Ne versai fuori una compressa e la afferrai, ingurgitandola controvoglia.

«Sì» risposi quindi, con evidente tono di sfida.

Sapeva benissimo che maltolleravo la sua volontà di controllare ogni singolo aspetto della mia vita.

«Questa sarà la volta giusta, me lo sento» dichiarò, risoluta.

Le sue parole suonavano come un déjà-vu.

«Sì» borbottai distrattamente, dandole le spalle e precipitando nuovamente nei miei pensieri.

La volta giusta...

Sapevamo entrambe che non sarebbe stato così.

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