La paura delle stelle [Kiwi]

« I'm high, I'm from outer space
I got Milky Way for blood, evolution in my vein
I'm gone, I've been far away»

[Jericho - Iniko]


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Perché hai paura delle stelle?

Evren me l'ha chiesto una notte di tanto tempo fa. Sono passati due anni, sulla Terra – appena due rotazioni auree mizefiane, mezza rotazione ninfrese, tre cicli vastresi, sei stagioni mambriane – da quando quelle parole avevano abbandonato la forma morbida delle sue labbra, per perdersi nel buio torbido di Bristol. Avevano spiraleggiato verso il cielo, fino a scostare le nuvole e confondersi con il sorriso freddo della Luna.

Era tardi. Il brusio della città tutt'attorno si confondeva con il frullio lieve del mio respiro. Per una volta, il sonno mi fremeva in testa cauto come il fruscio del vento e non avevo ragione di scacciarlo.

Vigile, Lenitov.

Vigile, richiama l'Equilibrio.

Ma per una volta non avevo ascoltato. E la stanchezza si era fatta strada dentro di me come il tocco morbido di una mano impacciata. I pensieri rallentavano, mentre Bristol ruotava in un vortice di nebbia e rumori attutiti.

Ero esausto. L'energia del cosmo mi sfiorava la pelle senza penetrarla, libera, mentre per la prima volta da tanto tempo mi impedivo di imbrigliarla.

Era tardi. Ero stanco.

E la voce di Evren davanti a me, sul tetto del Maelström, era l'unica melodia che avrei ascoltato per tutta la notte, aspettando di crollare in un oblio dolce come un sogno.

Lenitov.

Avevo bevuto, forse. Il Dispositivo dice di sì, recuperando i dati di quella sera. Funzioni vitali rallentate. Lieve perdita di capacità cognitive. E Lui me l'aveva lasciato fare.

Mi avrebbe punito in seguito, quando gli specchi mi si fossero richiusi addosso come una prigione e nessuno avrebbe potuto vedere il mio stesso sangue corrermi tra le dita, ma, mentre Bristol si faceva sempre più buia e vacua, avevo scoperto che non mi importava.

Perché hai paura delle stelle?

Ricordo gli squarci di sconfinato tutto dei suoi occhi mentre me lo chiedeva. Le profondità di spazio e tempo condensate all'infinito, ancora e ancora, dense e vorticanti e immense come il segreto proibito della creazione. Buchi neri che, avevo capito con attonita meraviglia, avrei lasciato che mi inghiottissero come un sottile raggio di luce.

– Non ho paura delle stelle.

– Però le guardi come se ci fossi stato.

I suoi capelli erano nastri di polvere di nebulosa. Il suo sorriso era il riverbero di una supernova trasportato come un'onda verso mondi remoti.

Lenitov, vigile.

La voce di Nome era anche la mia, e tuttavia non sapevo fermarmi. Non lo volevo. I pensieri si intrecciavano tra loro e giravano sempre più veloci.

– Non posso stare su una stella, Evren. Sono sfere di plasma. Non c'è nulla di romantico, in un ammasso di reazioni nucleari.

– Sarà che allora sei una stella pure tu, mh?

Ho galassie a corrermi nelle vene come sangue. L'universo mi parla da oltre dimensioni che faticano a coesistere.

Sono stato sulle stelle. Dentro di loro. In un Altrove che non so nemmeno nominare. Sono stato dentro i loro sogni, i desideri più vietati degli astri più soli, e credo di non esserne uscito.

E io questo lo sapevo, senza saperlo ammettere a lei, mentre Nome mi bisbigliava addosso da molto lontano e l'energia, che stringeva il cosmo in una rete infinitamente complessa, mi si avvolgeva attorno ai polsi come catene per rendermi parte di sé.

Soltanto un nodo di una contorta ragnatela senza confini. Un grappolo di coscienza contenitore di instabile infinito.

Un frammento di cometa scagliato su un'orbita che non gli appartiene.

Una linea sottile tesa e illimitata tra futuro, passato e presente. Eterna. Incapace di spezzarsi. Nonostante, spesso, mentre le pareti si riempiono di spine e la pelle si cosparge di piaghe, quella linea desideri infrangersi. Implora che la scia infuocata di un meteorite la colpisca con un grido e che qualcosa succeda. Lo vuole con la stessa forza di un bambino che piange nella foresta, ascoltando il picchiettio caotico della pioggia tra le fronde, desiderando che qualcuno colga i suoi lamenti e scelga di capirli.

Kobontåwi. È questo che significa il tuo nome.

Il rumore della pioggia notturna contro il fogliame fitto. Sei nato in una notte limpida, ma l'Uno e l'Altro hanno posto in te il furore della tempesta.

Averyst. Non parlare. Non tu.

Ho già troppe voci, nella testa.

– Non sono una stella, Evren.

– Lo sembri, tesoro. Te lo leggo negli occhi.

– Non sono una stella – avevo insistito, ma dal nulla stavo sorridendo, lo sguardo perso da qualche parte nella sconfinata vastità del suo.

– Lo sei, Stellina. E sei tanto forte – mi aveva preso le mani. Erano calde come una promessa – Non temi niente, tranne che te stesso. Hai paura delle stelle perché le conosci.

Avevo bevuto, forse.

E il mondo si era rovesciato.

Nome aveva pizzicato la linea. La corda fragile di un violino tesa tra galassie erranti. Aveva riecheggiato dentro e fuori di me, mentre l'anima che non mi apparteneva frullava contro il mio petto come un astro sul punto di esplodere.

Conosci le maschere, Evren?, le avevo chiesto una volta, un dito a scorrere leggero lungo il profilo di una di quelle che si arrampicavano, come pullulanti ragni di occhi svuotati, sulle pareti vellutate del suo camerino.

Domino le maschere, tesoro. È il mio lavoro.

Le domina, quella donna, al punto da poter disintegrare le mie con una sola parola. Le maschere, Evren le spezza, le ricompone, le costruisce e contorce fino a perdere gli apici di se stessa e ricostruirsi da capo ogni volta.

Il sipario oscilla, la voce proiettata oltre le tribune fino a inondare il teatro e farlo crollare nelle fondamenta. Ogni notte, un nuovo volto. Ogni notte, una canzone diversa. Il Maelström le si agita ai piedi e lei ci si smarrisce come una dea portatrice di apocalisse.

Chi sei, Evren?

Chi sei, Kobontåwi? Ti vedo, anche se ti sei perso tanto tempo fa.

Mi sono perso. Ma non credo di saper dire quanto tempo sia passato.

Sai, Evren, il tempo non esiste. Il presente è una bolla che ci cuciamo attorno per illuderci di essere parte dell'uniformità del tutto. Ma da fuori non siamo altro che piccole luci isolate, vertiginosamente rinchiuse in tempi inconciliabili.

Aveva sorriso. I suoi occhi erano grandi e rotondi come lune nuove.

Stellina, vivo di illusioni. Giochiamo a scoppiare quella bolla, solo per una notte, ti va?

Sono passati due anni – appena due rotazioni auree mizefiane, mezza rotazione ninfrese, tre cicli vastresi, sei stagioni mambriane – e ancora non ci sono riuscito, Evren.

Sento l'universo respirarmi nelle ossa.

Sento l'umanità e la vita prosciugarmisi dalle membra mentre il gelo dell'ignoto mi connette alla tenebra una fibra alla volta.

Un bambino che piange mentre ascolta la pioggia; un soldato che scopre di non avere più un cuore mentre le dita grondano di sangue; una leggenda che ha dimenticato il proprio nome; un riflesso di se stesso, amplificato infinite volte come due specchi crepati a fronteggiarsi nel camerino di un attore.

Mi manchi, Evren, mentre quella notte in cui le stelle hanno smesso di fare paura si fa sempre più sfumata. Si distorce, come luce che arranca tra le pieghe di un universo mutevole, tingendosi di sangue.

Sei eclissi, Evren. Sei la notte più bella a immergersi nella furia confusa della mia stella sola e le insegna paziente come non esserlo più.

Mi manchi, mentre le voci parlano e si sovrappongono. Rimbombano sulle pareti. Urlano. Sussurrano. Ridono. Ma solo tu cantavi.

C'è sangue, c'è gelo, c'è un vuoto incolmabile che si spande allo stremo e l'universo che diventa sempre più grande, solo per separarmi da te.

Io sono ovunque, Evren. E tu non ci sei.


Perché hai paura delle stelle?

Ho paura delle stelle perché mi parlano ed io le capisco.

Ho paura di scoprire che non hanno anima. Che non ce l'ho più neanch'io e non so nemmeno più riconoscerla, in mezzo al caos di tutte le altre che come me hanno smarrito il senso ultimo del proprio respiro.

Ho paura che l'Uno e l'Altro si dimentichino di me e mi abbandonino nell'immobilità di una cella di specchi, mentre perdo la presa su me stesso e precipito in un riflesso e in quello successivo e ancora e ancora. Finché la voce delle stelle sovrasterà la mia ed io non saprò sentirmi più.


Evren, vedo ancora i tuoi occhi, mentre a volte lascio che il sonno mi prenda.

Sento le tue mani lungo le guance, mentre i pensieri rallentano e Bristol gira attorno sempre più veloce.

Mentre corrono le lacrime e quello che ti ho fatto schiaccia quello che rimane di me in un pozzo di gravità senza ritorno, mille volte più freddo della famigliarità dolcissima del tuo sguardo.

Mi addormento così, tra gli specchi, una maschera crepata stretta al petto, una rosa tra i capelli e la voglia di baciarti che si agita in me con tanta violenza da illudermi di possedermi ancora.


Lenitov.

Maestro. Hai sentito tutto?

I tuoi pensieri sono i miei, Lenitov. L'universo non ha orizzonte, non hai confini dietro cui nasconderti.

Mi dispiace.

Ti aspetto oltre lo specchio. Non tardare.


Maestro?

Lenitov.

Se possibile, vorrei dormire, stanotte, se non hai altre missioni da affidarmi. Vorrei... qualche attimo di silenzio, per rigenerare la mente.

I Guardiani non venerano l'immobilità dei pensieri.

Per favore. Sono esausto. Ci ho messo ore a lavare via tutto il sangue dalla veste.

Rigenerati con l'energia, come fai sempre.

Una notte, Maestro, te ne prego.

Non ti permetterò di intossicarti con l'oblio, Lenitov.


Evren, ho paura delle stelle, sai?

Evren, rompi la mia bolla.

Evren, trovami, perché io non so farlo più.


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NdA:

[Ho scritto e postato questa shot ieri notte, in modo fin troppo impulsivo perché boh, evidentemente la stanchezza fa creare queste strane cose. La sto ripubblicando adesso con qualche errore di battitura corretto, lasciando intatte le note qui sotto. Scusate la doppia notifica]

[Altra roba: ho scritto questa shot con la canzone citata in alto, Jericho, messa in loop  nelle orecchie. Nella mia testa rappresenta Kiwi in modo struggente. Se trovate citazioni varie al testo, sono volute]

Sono in sessione e sto postando questa shot quasi all'una di notte lol. Mi dispiace sinceramente a chi si sentirà arrivare questa notifica, ma avevo proprio bisogno di scrivere, dopo troppo tempo di blocco mentale e creativo per diversissime ragioni, tra esami e stanchezza.

Sono esausta, ma Kiwi e gli altri mancavano come l'aria e per qualche ragione mi sembrava il momento giusto per buttare giù qualcosa, mentre c'è silenzio, penombra e il mio cervello implora il sonno <3

Grazie a chi ancora bazzica tra questi Mondi, scusate le sporadiche pubblicazioni <3

Vi abbraccio forte,

Coss

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