L'assedio [?]

TW: guerra, morte esplicita, violenza su bambini, sangue, accenni di profanazione di culto
(allegria gratuita proprio qwq. Però, davvero, saltate la shot se non ve la sentite, non fatevi male)

Note per la lettura:
La shot è quasi interamente ambientata a Vastrya, il Mondo delegato alla produzione agricola per l'intera Alleanza.
Su Vastrya la lingua, e di conseguenza nomi di persone e luoghi, sono contrassegnati con simboli e lettere di alfabeto non italiano, che coincidono con versi non traducibili. Anche le lettere greche sono state scelte soltanto a scopo rappresentativo (avevo finito i simboli carini shh). Non ho pensato ai singoli suoni, è una delle tante cose che è ancora nella lista di robe a cui pensare.
La protagonista si chiama "?". Nella mia testa lo accorcio sempre a "Pi", letto proprio così. Per gli altri nomi, potete sostituirli con robe fantasiose quanto volete. Per me potete anche chiamarli "Mariangiongiangela", non è importante.

Questo linguaggio è pensato per rendere più "alieno" qualcosa come il riconoscimento dei nomi, ma è ancora un esperimento. Fatemi sapere con pura sincerità se limita il flusso di lettura, sono davvero aperta a suggerimenti ahah <3


─── ⋆⋅☆⋅⋆ ──


? lo ricordava, quando la città era caduta.

Ricordava il suono insieme attutito e assordante del suo cuore sopra tutto il resto. L'incapacità di respirare, e l'aria che diventava veleno. Ricordava le grida, mentre il Grande Occhio [1] si inabissava oltre un orizzonte di sangue lambito da lingue di fumo e ci si smarriva del tutto, abbandonandoli in una notte fredda come una lama piantata nella carne.

Ricordava di aver pregato, due paia di mani incrociate sul cuore e le altre due premute tremanti sugli occhi. Pregato tra i singhiozzi che il giorno sorgesse di nuovo. Che il sommarsi delle urla non fosse l'ultima cosa che avrebbe mai udito.

? ricordava che la Tutrice [2] aveva sussurrato a lei e agli altri di stare in silenzio, spingendoli impaziente giù per le scale, di pregare a labbra socchiuse, e non farsi vedere dalle sagome venute dal Cielo.

Li guidava un Demone, era scritto nel foglio di pergamena rossa recapitato dal . [3] poco prima che il cielo si oscurasse di polvere. Un Demone dagli occhi ritagliati dalla luce stellare e guidato dall'anima infranta dei non vendicati.

Avevano armi costruite con le divinità corrotte, bisbigliavano i compagni, quando la Tutrice li aveva ammansiti dietro la grande tenda della stanza dei giochi. Sì, li avevano visti, usciti da bulbi oculari di divinità smarrite proprio oltre le mura della città. [4]

Facevano paura.

?, prima che la città cadesse, non sapeva dell'esistenza delle figure venute dal Cielo. E non aveva paura. Soltanto dopo aveva scoperto che c'erano sempre state e che adesso divoravano gli orizzonti pezzo dopo pezzo.

Alcune città avevano già ceduto alle loro condizioni, scegliendo subito di calare il capo davanti agli dei perduti e il Demone che li guidava. Paura, le avrebbero detto. Paura di finire in cenere. Di morire inghiottiti dal freddo della notte e di non risorgere mai più come figli del Grande Occhio.

Ma Λ era una piccola fortezza forgiata dal deserto di sale. Dominata dal saggio governatore δ, vincitore di molteplici guerre che avevano sporcato di sangue la candidezza sacra delle dune. ? lo sapeva bene, pregava ogni giorno per il bene del governatore, che le dita del Grande Occhio lo sostenessero sempre per poterli guidare nel cuore del deserto.

? sapeva che Λ non si sarebbe piegata. Era stato un orgoglio ripeterlo a petto in fuori davanti alla Tutrice e agli amici, per tanti anni, fiera di dimostrare di appartenere al suo popolo e di serbare fiducia nel suo onore immortale.

Ma era stato prima di vedere nuvole di sale levarsi per inghiottire il cielo.

Prima di sentire le grida lontane mentre le mura si sgretolavano come una bambola di vecchia argilla.

Adesso quegli inni striduli levati in nome della fierezza della città sembravano parole buttate. Non l'avrebbero salvata da un coltello piantato in fronte.

? ora era là, rannicchiata e tremante dietro alla tenda, a pregare di vedere una nuova alba e con la mani fossilizzate sulle palpebre tentando di fermare le lacrime.

– ? ha paura – sentì * grugnire a bassa voce, accanto a sé.

– La Tutrice dice che non è brutto avere paura – sibilò ϕ di rimando, dall'altra parte – Lasciala in pace, *. E fa silenzio – aggiunse severamente.

? gliene fu grata, mentre racimolava l'orgoglio necessario per sbirciare attraverso le fessure delle dita e socchiudere l'occhio sulla fronte.

– Non ho paura – declamò con una vocina esile, voltandosi imbronciata verso *, che aveva un sorriso incerto tutto storto appiccicato in faccia. Nella penombra, era spaventoso. La ragazzina deglutì a vuoto – Sto solo pregando. So che andrà bene.

– Io no – ϕ le lanciò un'occhiata fredda, i tre occhi ceruli rilucevano nell'oscurità come gemme di sale – La Tutrice è via da troppo tempo. Non è un buon segno.

– Starà affettando qualche demone con la spada, no? – replicò seccamente *, levando le tre pupille a fessura verso l'altro – E i grandi staranno combattendo fortissimo per tenerci al sicuro.

? non ne era convinta. Conficcò le unghie nei palmi per impedire alle mani di tremare, e lentamente si sporse per scostare con cautela un lembo della tenda, giusto quel tanto che bastava per spiarci dietro.

La stanza era vuota e buia, cosparsa di un disordine giocoso fatto di marionette abbandonate sui tappeti e goffe costruzioni di cubetti di legno in bilico uno sopra l'altro. Era uno scenario famigliare, che non coincideva con la gelida immobilità circostante, interrotta dalle esplosioni lontane. La botola che dava sulle scale che salivano verso la strada era spalancata. Era così da quando la Tutrice si era precipitata fuori, ansante, lo sguardo ricolmo di un'angoscia che toglieva il respiro.

La botola oscillava appena sui cardini, sotto la spinta dei refoli di aria notturna. L'ultima cosa che ? aveva visto oltre quella, prima che la Tutrice intimasse loro di nascondersi, era un . rotolare con urgenza sopra un foglio di pergamena rossa accartocciato nella ghiaia, un lembo spiegazzato che sventolava come una bandiera caduta. Le era sembrata una macchia di sangue.

– Togliti di lì, ? – bisbigliò ϕ – Non è sicuro.

Fu in quell'istante che provenne un boato, proprio pochi passi oltre la botola, accompagnato da una nuvola di polvere fitta che fece crollare i fragili castelli di legno come edifici sotto le bombe. Le pareti della stanza tremarono e a ? sfuggì un gemito, tirando bruscamente la tenda, come se quel gesto potesse proteggerli.

Urla ovattate li raggiunsero, insieme all'odore acre di sangue mischiato alla cenere. Le parole erano indistinguibili, ma la disperazione che le impregnava era anche peggio dei ruggiti dei terremoti. Sembravano versi pietosi di animali intrappolati nel fuoco.

A ? venne il voltastomaco.

– Questa era vicina – il tono di * aveva perso ogni traccia di arroganza. Adesso era solo un bambino impaurito ad abbracciarsi le ginocchia – Perché continuano?

– Guerra – ϕ lo mormorò con occhi immobili lucidi di orrore – La gente del Cielo vuole la guerra.

Un'altra scossa. Il muro alle loro spalle si crepò di netto con il suono terrificante dell'osso di un gigante che si spezza. ? lanciò un grido, soffocato da tre delle quattro mani di ϕ piombate a coprirle la bocca.

– Dobbiamo uscire – la voce di * adesso era poco più di un sussurro.

ϕ non esitò. Afferrò le mani di entrambi e con le altre due buttò la tenda di lato, iniziando a correre.

Inciamparono a metà della stanza, il pavimento che si scuoteva come se la terra si stesse risvegliando. ? venne strattonata in piedi dalla presa salda di ϕ e sbatté un ginocchio contro un gradino di pietra, mentre si precipitavano all'esterno, con la stanza che franava loro attorno.

Si sentì in bocca il sapore del sangue. Gli occhi le si riempirono di lacrime e l'aria nei suoi polmoni si trasformò in fumo. Emersero ansimanti in un inferno di grida e fiamme.

? non vedeva nulla. La sua visuale era un miscuglio terrificante di macchie luminose e ombre senza volto. Sentiva soltanto la presa sudata della mano di ϕ nella sua e quella più incerta di * alla sua destra. Le gambe si muovevano scomposte, i piedi che si riempivano di tagli.

– Raggiungiamo il centro! – udì ϕ gridare sopra il crepitio del fuoco.

Ebbe a malapena il tempo di elaborare, i pensieri annegati nel fumo. Ebbe un fragile istante per domandarsi perché andare verso il centro se la casa del governatore, affacciata sulla piazza principale, sarebbe stata il primo obbiettivo degli invasori... che con uno strillo le dita di * scivolarono via dalle sue e si persero nel caos.

– No! – urlò. Strizzò le palpebre, provò a snebbiare la vista, ma ϕ stava continuando a correre e la testa di ? era pesante come una pietra.

Si voltò freneticamente, gli occhi che bruciavano, e una parte del suo cuore sembrò morirle in petto. * giaceva esanime a ridosso della strada, le guance bianche imbrattate di rosso e un foro nero proprio sulla spalla, come pugnalato da una lama fantasma.

Una figura dal Cielo era poco lontano, piccola e infima come un insetto, avvolta in un involucro lucido che rifletteva i bagliori furiosi del fuoco. Tra le mani, stringeva uno strumento lungo e scuro, come un gigantesco ago.

L'elmo senza volto seguì muto la loro corsa, l'ago imbracciato e puntato ancora verso la sagoma riversa di *, che non si muoveva più.

– *! – ? lo gridò con la gola stracciata, ma la sua voce fu divorata dal fragore di un'altra esplosione, che le ustionò le gambe scoperte.

ϕ non si fermò.

Corsero, senza fermarsi, mano nella mano attraverso strade crollate e case sventrate. Il tempio dei Fratelli del Grande Occhio [5] si era accartocciato come un corpo morto; le Torri Guida erano torce avvolte dalle fiamme stagliate ad incendiare la notte.

Le figure dal Cielo erano ovunque. Un esercito di mosche assassine senza occhi. Spiriti senza nome da cui il Grande Occhio non poteva difenderli.

? pregò, mentre si scorticava le mani e il tempo le si distorceva attorno come acqua increspata dalle pietre. ? pregò, ma nessuno sembrò sentirla.

Corsero, le figure dal Cielo che li attorniavano come uno sciame. Identici gli uni agli altri, ridotti in movimenti ripetuti e sterili come statue di sale. Figli degli spiriti della vendetta. Sembravano guidati da una coscienza unica e spietata, che li generava dall'oscurità e ne guidava i passi dall'alto come la personificazione di una notte senza stelle.

Le tempie di ? pulsavano tanto da farle male. Non riusciva più a correre. Non ci riusciva, ma continuò lo stesso, esausta, zoppicante, zigzagando tra gli invasori spettrali e i loro pugnali fantasma.

? piangeva, ma non aveva fiato per i singhiozzi. Si trascinava come un'ombra tra le rovine che erano state casa sua, sforzandosi di non guardare in faccia i cadaveri accasciati nel fuoco. Di non riconoscerli.

Davanti a lei, ϕ non si voltava. ? sapeva che, se si fossero guardati, sarebbero crollati entrambi sul posto per rialzarsi mai.

Correvano. Stanchi. Feriti. Ma vivi. Mancavano solo poche svolte per la piazza centrale: salvezza forse illusoria ma necessaria, flebile speranza per imporsi di andare avanti. Poi il mondo si capovolse di nuovo.

Fermatevi.

? non aveva nemmeno la forza di urlare, quando le sue membra si immobilizzarono come se decine di corde invisibili l'avessero ghermita d'improvviso, incenerendo il poco di respiro che le era rimasto in corpo. Sgranò gli occhi, gemette, pianse. La sua mano venne strappata a forza da quella sicura e famigliare di ϕ, e ? sentì i piedi staccarsi da terra.

Era come avere dita ghiacciate strette attorno al collo e uno spillo incandescente conficcato in ogni centimetro di pelle nuda. Non poteva più muoversi. Soltanto gli occhi continuarono a piangere, disarmati, con le pupille a fessura che scandagliavano il buio.

Quando il Demone emerse dal fumo, ? voleva solo chiudere gli occhi e pregare, pregare, pregare che finisse tutto, ma per qualche ragione non poteva farlo. Era immobilizzata a scrutarlo, intrappolata in due occhi affilati ritagliati dalla notte più fitta. Quello sguardo, glaciale e orrido come la solitudine del deserto, sarebbe bastato da solo a estinguere le fiamme della città e a cristallizzare la vita dei superstiti in un'immutabile eternità di ghiaccio.

Vestiva di nero, un mantello pesante ad avvolgergli le spalle e una lunga mano che ne sporgeva, stretta sull'impugnatura di una spada che catturava la luce dell'inferno.

Fermatevi – il Demone lo ripeté, e quella parola le riverberò violenta nella mente, svuotandole la testa dei pensieri per riempirla del piombo della propria voce. Il Demone piegò appena il capo, studiando lei e ϕ come se fossero oggetti senza vita, cieco alle loro lacrime.

– Correte bene – mormorò, il volto di pietra – Ma correre non serve.

ϕ emise un lamento strozzato e gli occhi del Demone, ipnotici e liquidi come vortici, si spostarono su di lui.

– Fa male – lo disse come un dato di fatto inevitabile, irrilevante, superficiale. ? si accorse con orrore che dal fumo stavano emergendo piccoli gruppi di figure senza faccia, poste attorno al Demone come una corona di spine.

– Non ribellatevi. In breve sarà tutto finito. La città è caduta – non c'era anima in quelle parole. Le recitò come se qualcun altro gliele stesse dettando da molto lontano.

– Demone! – ϕ lo urlò di getto, sottraendosi con forza al silenzio. Se ? non fosse stata immobilizzata, sarebbe sobbalzata. ϕ lo sputò ansimando, le labbra irrigidite in una smorfia che gliele sbriciolava in un mosaico di gocce di sangue. Anche solo muoverle, opponendosi all'oscurità del Demone, doveva averlo prosciugato.

Il Demone non reagì. Mantenne un'espressione statica ed eterna come una volta stellata, i capelli agitati dall'aria infuocata e il mantello che si scuoteva nel fumo.

Uno, due tre secondi di vuoto. Poi, senza un lamento, ϕ si accasciò a terra, esanime, gli occhi blu spalancati sul cielo livido e la bocca aperta in un grido senza voce.

Qualcosa di mostruoso si condensò nel petto di ? e per poco non la uccise. La corrose, la annegò. La Luce svanì del tutto.

E non poteva muoversi. Esplosioni dentro e fuori dalla sua testa. Capaci di far crollare le stelle. E non poteva muoversi.

Rimase incastrata nell'aria, occhi negli occhi con il Demone, la paura che le corrompeva il battito del cuore in un raspare sbagliato, talmente forte da frantumarle le costole e lacerare la notte.

– L'Alleanza può essere siglata col sangue – disse il Demone, anche se ? lo udì appena, precipitando nel buio – Ma è scritto che sorga.


Quando ? si svegliò, era piena di sudore.

Sentiva altri corpi muoversi tutto attorno a sé, la schiacciavano e mormoravano in una cacofonia di lamenti e parole senza senso.

? incrociò le braccia sul petto, pose due mani sugli occhi, lasciando socchiuso soltanto quello sulla fronte. Iniziò a pregare, muovendo appena le labbra, e si inoltrò nella folla, scivolando tra mantelli strappati e corpi tremanti pieni di sangue.

C'era puzza di pelle bruciata, insieme a, al contempo famigliare e sbagliato, l'odore pungente del sale.

Sopra di loro, il buio era stracciato dal fuoco.

? avanzò, zoppicante e malferma. Il Grande Occhio li avrebbe salvati. La sua carezza li avrebbe benedetti inondando il deserto.

Luce. Luce. Luce.

Era l'unica cosa importante.

Non ϕ. Non *. Non lei.

Raggiunse il limite della folla dopo un tempo indefinito, e si rese conto con un sussulto di essere nella piazza centrale di Λ. Riconosceva i grandi archi ricurvi verso l'esterno, che coprivano la circonferenza della piazza come i petali aperti di un fiore del deserto: costole di un Δ defunto tanti secoli prima. Il deserto era pieno dei loro scheletri. Erano i doni che il Grande Occhio aveva lasciato quando aveva dato inizio all'era dei suoi Protetti. [6]

? riconosceva gli intarsi nelle pareti erette tra un arco e l'altro, che raccontavano le vie del Grande Occhio e che i Fratelli dei tempi antichi avevano inscritto dopo aver visto la Prima Luce [7]. Ma adesso due degli archi si erano ripiegati di lato come vecchi ubriachi, e delle iscrizioni non restavano che rocce infrante, bianche come ossa.

I tre portali per l'esterno erano chiusi, o almeno così ? dedusse, dato che ne vedeva solo uno, stagliato imponente davanti a sé come un divieto di libertà.

? non capiva. Aveva ancora gli occhi del Demone marchiati nella testa. Occhi così saturi di stelle che sembrava che la notte si fosse vestita di nero per riversarsi dentro di lui. Non capiva il senso di niente. Non capiva, ma pregò, posando la fronte contro la pietra fredda del portale serrato.

Λ è caduta.

Un lampo scagliato sulla terra con la potenza di un dio dannato. Un brivido brutale percorse la folla e ? si sentì accapponare la pelle come carta bagnata.

Si voltò, senza smettere di pregare, e il suo unico occhio aperto, arrossato e tremulo, adocchiò la sagoma imperiosa del Demone. Era in piedi sul vertice di uno degli archi rimasti integri, abbastanza ampi da sostenerne la marcia. I suoi capelli erano una fiamma e al suo collo, visibile e luminosa anche da un centinaio di metri di distanza, era appesa una stella.

Attorno a lui, da spirali di fumo nero, emersero quelli che sembravano una nuvola di piccoli insetti lampeggianti, dello stesso materiale lucido e arido di cui erano fatte le figure dal Cielo.

Il vostro Mondo è parte di un disegno tracciato nelle stelle – la sua voce proveniva da tutte le direzioni possibili, e ?, alienata, ebbe la sensazione che fossero gli insetti lucenti a spargere il verbo del Demone sull'intero perimetro, come messaggeri – Voi superstiti, abbastanza coraggiosi e folli da opporvi alla morsa della Madre, siete i prescelti per la genesi di una nuova Capitale eretta delle sabbie sotto la nostra guida.

Attorno a sé, ? sentì il popolo urlare e pregare insieme. Una cacofonia che le riempì la mente e la accecò. Corpi spaventati la compressero contro la pietra.

La vostra città sarà spazzata via dall'ineluttabilità del futuro. E sulla carcassa di antiche ere sorgerà Mizef.

Non aveva senso.

Il gomito di qualcuno le colpì la faccia, e ? dovette aggrapparsi al braccio di una donna per non cadere a terra.

Avrete memoria del sangue, e lo venererete. Avrete memoria dei compagni caduti, martiri di un passato destinato all'oblio.

La folla reagì come un unico corpo. Decine di gole si strapparono, in lamenti animati dal dolore e intorbidati dal fumo sempre più denso. Ma la voce del Demone sovrastava anche il frastuono del fuoco che devastava le rovine.

Avrete memoria del vostro passato e amerete ciò che la Madre ha costruito per voi. Avrete memoria finché sarà necessario, quando il sangue sarà lavato via e insorgerà la pace.

? ansimava. Pelle contro pelle. Persone accalcate una sopra l'altra come montagne di carne informi.

Avrete memoria. Memoria di me.

? chiuse tutti gli occhi. Si rannicchiò contro il portale, coprendosi debolmente la testa con la braccia. Cercò un silenzio che non esisteva più.

Ambasciatore di Mizef e delle stelle, Guardiano dell'Equilibrio. Kobontåwi Lenitov.

Qualcosa di duro la colpì in fronte.

? svenne di nuovo.


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Hai fatto quello che andava fatto.

– Non ne avevo mai uccisi così tanti.

Lo specchio tremolava. I suoi occhi si sostituivano con il buio sotto al cappuccio e poi tornavano galassie nascenti.

Non c'era altro modo. Non avrebbero ceduto.

– Nessuno ci dà il diritto di decidere per loro.

Bada a come parli, Lenitov.

Kobontåwi si sentì attraversare la testa da una fitta violenta. Si portò una mano alla fronte e indietreggiò. La sua immagine nello specchio, invece, rimase a osservarlo impassibile, vibrando come attraverso la nebbia.

Mizef era destinata a vincere questa guerra e Vastrya a cadere. La strada per l'Equilibrio passa per il sangue.

– È quello che ho detto loro, come mi hai detto di dirlo – gemette Kobontåwi. Sotto i suoi occhi stretti a fessura, il suo riflesso oscillò e si ritorse in un mantello di infiniti strati, cucito di stelle morenti. L'immagine di Nome corse come un fantasma dietro la superficie dello specchio, sdoppiandosi e assorbendo gli altri riflessi multipli di Kobontåwi come un buco nero inghiotte le stelle indifese. Kobontåwi inseguì con lo sguardo il percorso di Nome lungo lo specchio circolare che lo attorniava. [8] Strinse i denti – Gli ho promesso che nella Capitale troveranno la pace. Ma come so di non aver scatenato una guerra peggiore? L'intero pianeta potrebbe rivoltarsi contro Mizef.

Non l'hai promesso. Non fare mai promesse, Lenitov. Troppe strade si sovrappongono per avere l'arroganza di sceglierne una soltanto.

Il cappuccio oscillò pericolosamente verso di lui e Kobontåwi fu attraversato da un fremito.

Ma hai detto loro di conservare memoria. Che i Mondi saranno Equilibrio. E l'hai detto nella loro lingua, nello stesso modo in cui l'avrebbe detto uno dei loro dei.

Gioca con gli dei, Lenitov. Manipola ciò in cui i deboli credono, e stringerai l'universo. Porterai libertà.

Kobontåwi grugnì.

– Perché la libertà passa per il sangue?

Lenitov.

Un'altra fitta, questa volta dietro la nuca, tanto acuta da strappargli la carne. Il ragazzo si morse la lingua per non urlare, ma crollò in ginocchio.

La libertà passa sempre per il sangue. Non fare domande senza esito. Risparmia il fiato per quando servirà davvero.

– Sì, Maestro – mormorò il ragazzo, la bocca che sembrava piena di sabbia. Quando tolse le dita dalla testa, le trovò viscose di sangue.

Alzò lo sguardo. L'immagine di Nome era tornata il suo riflesso, solitario nel vuoto della Piazza amplificata dal vetro. Vide i propri occhi ammonirlo dall'alto, costellati da luci impietose come lame di ghiaccio. Per un istante terrificante, lo sopraffece la visione della ragazzina che aveva intrappolato durante l'assedio, del terrore che le inondava lo sguardo come veleno e delle lacrime che tracciavano scie bianche nella cenere.

Era giusto, portare un bambino a piangere così? Abbattere un suo simile proprio sotto ai suoi occhi e annientare la sua volontà al punto di impedirgli di urlare?

È giusto così, Lenitov. Lascia un segno. Permetti loro di conservare memoria.

Il riflesso rispose muovendo appena le labbra, con la voce di Nome che gli erodeva i pensieri e ne piegava il corso.

È giusto. Abbi fede nelle stelle, e ci condurrai all'Equilibrio.

Kobontåwi inghiottì il dolore, la mano sporca di sangue portata al Cuore che gli pendeva dal petto. Batteva. Batteva come una promessa.

Respirò. La visione della bambina svanì e il ragazzo si alzò in piedi, occhi negli occhi col destino.

– Sì, Maestro.


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Cover: fatta con picrew. Gli abitanti di Vastrya hanno 4 braccia veramente, ma shhh

Note:

[1]: su tutto il territorio di Vastrya, con variazioni a seconda della regione del pianeta, il culto principale è quello della Luce, una divinità creatrice che trascende il tempo e generatrice di vita e conoscenza. Nel deserto di sale, il territorio sull'equatore del pianeta dove si trova Λ, la Luce è legata all'entità del loro sole.
In altri territori, la luce ha una concezione più astratta e panteistica o assume più volti diversi.

[2]: su Vastrya è raro che siano i genitori a tenere i figli. Gli orfani o i figli di genitori lavoratori vengono affidati alle cure di figure come i Tutori, che si occupano interamente della crescita dei bambini fino all'età adulta. La dinamica è ancora da strutturare bene, Vastrya è il pianeta ancora più vago, a livello culturale qwq

[3]: i ":" ("." al singolare. Idea di quello psicopatico di mio fratello, non ho la forza di cambiarlo) sono creature addomesticabili simili ai nostri pangolini ma della grandezza di cavalli. In assenza di tecnologia, su tutto il pianeta vengono usati come messaggeri o portatori di piccoli pacchi. Si ripiegano a palla e rotolano, tenendo il contenuto da trasportare al sicuro dentro la corazza.

[4]: la shot è ambientata appena prima che Vastrya venisse annessa all'Alleanza. Mizef ha mandato parti del suo esercito, guidato da un certo "Demone" (uno a caso, proprio) a convincere ogni città del pianeta ad unirsi all'Alleanza e alle condizioni del Mondo Madre.
I "bulbi oculari di divinità smarrite" si riferiscono ai Globi, che sono i portali che genera il Cuore. Nella cultura di Vastrya il Grande Occhio è cieco e per questo è tanto saggio, capace di vedere oltre; mentre esistono divinità smarrite che invece vedono, non donano il calore e la vita del Grande Occhio e sono smarrite nell'assenza di fede e conoscenza. (Lore che affinerò un po' meglio, un giorno, promesso qwqwq)

[5]: i Fratelli del Grande Occhio sono i sacerdoti della Luce. Le cerimonie del culto cambiano tra le città del deserto, ma per essere ammessi nella fratellanza bisogna lasciarsi completamente accecare dal sole, in mezzo al deserto, per ottenere la conoscenza dell'annullamento del tempo dal Grande Occhio, che è a sua volta cieco.

[6]: non lo cito a caso: la Capitale di Vastrya, ambasciata principale di Mizef nel pianeta, verrà eretta sullo scheletro colossale di una di queste creature.

[7]: dopo essersi accecati, i primi Fratelli del Grande Occhio, nonostante non vedessero più, hanno inciso ciò che la Luce aveva loro mostrato sulla pietra, per poter dare ai fedeli una rappresentazione approssimata della loro via.

[8]: non è esplicitato, ma questa scena è ambientata nella Piazza. La sua struttura è fatta da molteplici sezioni, attraverso cui la coscienza di Nome si sposta tramite gli specchi e, quando anche Kiwi deve spostarsi nelle varie aree lontane dai Globi e i visitatori, attraversa gli specchi ed entra in stanze precluse.
C'è tutta una lore di Kiwi riguardo agli specchi e alla sua claustrofobia, che ha un diretto legame con la Piazza, ma è un tassello troppo importante del suo personaggio per citarlo qui. Quando avrò tempo e forze, ci farò una shot apposta qwq

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NdA:

Confesso la scarsa revisione di questo capitolo: se iniziassi a metterci mano, si sfigurerebbe ancora di più. Si tratta di un esperimento puro anche a livello stilistico, perché l'angst e la drammaticità che mi sono più affini non hanno la frenesia di questi scenari d'assedio, e l'intimità comfort dell'introspezione in qualche modo non si allacciava con il contorno, per cui l'ho messa da parte.

A rileggerlo accetto la sua esistenza, non mi convince come altre os. C'è troppo distacco emotivo, le descrizioni si ripetono, ci sono passaggi troppo veloci e il phatos va a farsi benedire. Ma sapevo che, se mi fossi concentrata di più su quello che ? sentiva, tutto lo scenario attorno sarebbe sfumato.

Il distacco del narratore dall'introspezione non è prettamente "voluto", ma in qualche modo è venuto spontaneo, per non saturare. Anche perché ho scritto davvero raramente questo genere di scene.

Scrivere queste tematiche è difficile, in tantissimi modi. Spero che, nel suo caos scritturato di getto, sia passato qualcosa <3

Grazie di essere qui <3

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