Dietro le quinte [Kiwi]
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I want to be that fucked-up girl »
[Noel's lament - Ride the Cyclone: The musical]
TW per coltello, sangue e linguaggio scurrile
Note per capire la shot:
Questa shot è pensata ambientata in una fase avanzata della storia, quando Kiwi sarà riuscito a liberare la sua anima dal Cuore (perché succederà, yeppee per lui) e il legame con Nome si sarà indebolito abbastanza da permettergli di vivere senza la sua costante voce nella testa.
La shot serve anche e soprattutto per introdurre il personaggio che vedete qui sopra e la sua *coff* love story *coff* con Kiwi.
Fa ridere già così ma mi farete sapere voi se ha senso 'sta cosa. Come ho scritto anche giù nelle note, è tutto in costante wip, soprattutto con lei <3
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Un classico, pensa Kobontåwi mentre il filo gelido di un coltello gli preme contro la giugulare. Ha la testa rigidamente reclinata, sbattuta contro la parete ruvida del vicolo fuori dalla porta delle quinte. Sente la polvere di mattoni vecchi grattargli sulla nuca. Fa male. La parete è una spina nel suo autocontrollo ma la luce delle stelle sopra di sé riesce a tenerla a bada.
Le labbra si storcono in un ghigno di doloroso piacere, che ha lo stesso sapore della sabbia.
Classico. Prevedibile. Facilmente decrittabile.
La pressione della lama si indurisce sulla sua pelle.
Non avrebbe potuto aspettarsi un benvenuto diverso da una minaccia di morte, quando aveva deciso di presentarsi alla prima di Ride the Cyclone nel Teatro Nuovo di Bristol alle 21:30 del 13 settembre. L'unica variabile era il se avrebbe usato il coltello o la pistola.
Era un colpo di scena talmente scontato da sfiorare la banalità, ma questo non gli aveva certo impedito di varcare l'ingresso del teatro.
Si era convinto con fermezza di sapere perfettamente quello che stava facendo. Ovviamente. Ovviamente aveva se stesso sotto controllo.
Le maschere l'avevano fatto entrare come un ospite d'onore – "Ma certo, da questa parte, signor Lenitov! Siamo lusingati dalla sua presenza, signor Lenitov! È un onore averla tra noi, signor Lenitov! Si diverta, signor Lenitov!" – e Kiwi, annuendo educatamente, era stato condotto al palchetto centrale, nel posto migliore per osservare lo spettacolo. La posizione perfetta, dove lei avrebbe potuto notare la sua veste di seta bianca brillare come una stella nel buio, dal bordo del proprio palco.
Quando aveva avvistato il brilluccichio sfrontato di lui nel fiume scuro del pubblico, Kobontåwi era abbastanza certo di non essersi immaginato il lampo d'ira che le era guizzato negli occhi, all'albore della sua prima scena. Anche attraverso il trucco prepotente, la barriera impenetrabile della sua recitazione ferrea e le fila di semibuio soffice che li separava, il ragazzo era riuscito a cogliere con precisione il fremito che aveva attraversato quelle lunghe sopracciglia corvine.
Kiwi aveva passato troppo tempo a decifrare gli schemi labirintici delle sue espressioni, a districare con cura meticolosa l'intrico delle sue bugie, per farsi sfuggire quel bagliore di rabbioso riconoscimento dentro il suo sguardo di cacao amaro.
Era stato soltanto un istante.
Furiosa sorpresa momentanea.
Una promessa tutt'altro che amorevole scagliata come uno dei suoi coltelli attraverso una sala gremita di volti appannati, per colpirlo nel petto.
E poi Evren Karga era sembrata dimenticarsi della sua presenza.
Calata nella parte completamente, quasi nella testa avesse premuto un interruttore per annullare del tutto se stessa. Era stata posseduta da sguardi estranei, iridi castane velate da vite diverse.
Evren. La sua Evren dai mille volti.
Angelo d'inchiostro dalla voce ruggente come l'esplosione simultanea di migliaia di supernove.
So cosa sto facendo.
Ma Kobontåwi aveva contratto le mani nei guanti bianchi, le labbra ridotte ad una linea severa ma gli occhi spalancati dalla meraviglia selvaggia. La stessa che da troppi anni gli si agitava dentro ogni volta che il suo canto lo travolgeva. La voce di Evren si biforcava nell'aria come raggi di luce, un reticolo di corde di ghiaccio spietato e fuoco crudele che gli si annodavano addosso fino a farlo sanguinare.
Era il dolore benevolo dell'aria che sfugge via dai polmoni, mentre si corre a perdifiato all'inseguimento della luna in una notte trapunta di stelle.
Era il frenetico bruciore di unghie che raspano con desiderio sulla pelle umida di un amante.
Droga. Necessità brutale di lei. Voglia pericolosa di immergersi in quel suono per sempre e sentirsi annegare. Sprofondarci dentro fino a smarrirsi.
Kobontåwi si era ritrovato a trattenere il respiro, aggrappato al bordo del palchetto come un naufrago in balia di un mare cattivo, grato che le ombre del teatro celassero la sua espressione sconvolta.
Si era illuso come un idiota di poter controllare la passione con la freddezza di cui tanto era stato fiero. Era stato convinto che l'odio che Evren provava per lui avrebbe dissuaso le onde di emozioni che gli facevano sbatacchiare il cuore nel petto.
Stupido. Era stato uno stupido.
Aveva sottovalutato il potere ancestrale di un battito reale e vivo tra le costole. Aveva trascurato con l'innocenza di un dilettante la forza incontenibile di un'anima ora annidata nel posto giusto, e non più rinchiusa in un ciondolo al petto.
Anima per troppo tempo serrata nella sterilità di una sfera di metallo e ora libera di sprigionarsi nei modi peggiori.
Anima che, come una malia ad avvelenargli la mente, l'aveva condotto quella sera a soffocare nella voce di Evren, mentre scintille convulse si arricciavano negli astrolabi dei suoi occhi spalancati.
Anima stolta affamata di vita.
Perché lo sto facendo?
Dopo lo spettacolo, silenzioso come uno spettro per evitare le moine delle maschere, l'aveva seguita, la lingua stretta tra i denti per imporsi di recuperare la lucidità. Con sollievo, si era reso conto che pensare razionalmente era molto più facile nella luce giallastra e caotica della platea, piuttosto che nel buio sognante della sua voce in scena.
Le mani dentro i guanti, però, non smettevano di sudare.
Doveva parlarle.
Anche a costo di farsi uccidere dalle armi che lei teneva orgogliosamente incastrate nel corsetto o farsi disintegrare dalla durezza del suo sguardo traboccante di odio.
Kiwi aveva visualizzato almeno duecento sessantaquattro modi in cui la conversazione con Evren sarebbe potuta andare, una volta raggiuntala nei camerini. Aveva attraversato i corridoi a occhi chiusi per non farseli richiudere addosso e, quando lei aveva estratto il coltello, trascinandolo con mano rabbiosa contro la parete del vicolo, oltre la porta aperta delle quinte, il ragazzo ne aveva silenziosamente escluse novantasette.
– Lenitov.
Evren che sibila il suo nome ha lo stesso effetto di un soffio di vento gelido sulla schiena nuda.
Kobontåwi non si sforza nemmeno di liberarsi dalla sua presa. Sanno benissimo entrambi che lui potrebbe fermarle il cuore con un battito di palpebre e che in un millisecondo lei potrebbe squarciargli la gola.
È uno stallo giocoso e azzardato, che potrebbe facilmente finire con una tregua o con la precoce morte di entrambi.
Kiwi calcola rapidamente che le possibilità sono un perfetto cinquanta e cinquanta, con fluttuazioni insignificanti che oscillano al ritmo dei minimi cambiamenti di pressione del pugno di Evren sull'elsa del coltello. Potrebbe essere uno studio di probabilità interessante se non avesse il volto di Evren alla distanza di un fiato dal proprio.
Il ragazzo si sente allargare il ghigno in viso, incapace di impedirlo, e percepisce una goccia di sangue mambriano, di un color smeraldo sgargiante, scivolargli bollente giù per il collo.
– Cos'è esattamente che ti fa tanto ridere?
Kiwi sa di non doverlo notare, ma il fiato di Evren sa di dentifricio alla menta.
Il suo sorriso si schiude sui denti bianchi.
– Hai cantato bene.
Evren arriccia il naso.
– Stronzo, non dovresti essere qui.
– Dovevo parlarti.
– Tu non devi fare niente – Evren è alta quasi quanto lui e le curve rigogliose del suo corpo carezzano gli spigoli di quello di Kobontåwi, mentre la ragazza si sporge in avanti, gli occhi che lampeggiano – Tranne sparire, schifoso pezzo di merda. Ma sei così stupido da continuare a tornare. Stasera hai deciso di esserlo al punto da metterti a portata di tiro, mh?
Kiwi prova inutilmente a deglutire, il sorriso che si smorza.
– Evren...
– Vuoi squarciarmi la pancia con la mente, Lenitov? – lo interrompe lei, e altro sangue cola dalla lama – Vuoi rivoltarmi gli occhi nelle orbite e lasciarmi a urlare in questo vicolo?
Kobontåwi indurisce lo sguardo.
– Non lo farei mai.
– Bene. Meglio. Così posso farlo io – e ruota appena la testa da un lato, rughe compatte ai lati della bocca – Immagina un po', eh, Lenitov? Che effetto farà uccidere il leggendario Demone di Mambra e dimostrare a tutti quegli idioti superstiziosi che sanguini esattamente come loro? – il coltello affonda ancora di un millimetro e questa volta Kiwi trattiene un mezzo gemito. C'è qualcosa di folle nel modo in cui lei ha proposto di ucciderlo, senza ironia o indecisione alcuna, che fa fremere di allerta le sue orecchie appuntite.
– Evren, tu sei più ragionevole di così – ha la voce immobile, ma fragile come un diamante.
– Ragionevole? – Evren fa schioccare seccamente la lingua e una breve risata isterica emerge come una scarica elettrica dalle sue labbra laccate di nero – Non so cosa sia essere ragionevole, Lenitov. Non con te. Non più – gli si fa più vicina e il suo profumo di rosa, mescolato con la menta del suo alito, causa a Kiwi un giramento di capo – Non saresti dovuto venire. Non mi importa cosa vuoi. Stasera moriamo entrambi.
Un minimo fremito nella mano di lei. Un bagliore malato e definitivo nel suo sguardo di catrame.
E Kiwi capisce di netto che è troppo tardi per patteggiare.
Centoundici possibilità di dialogo vanno in fumo mentre il ragazzo chiude gli occhi di scatto mezzo istante prima che il coltello affondi. L'universo gli si dispiega prontamente attorno in un vortice repentino di energia che gli scoppia dentro al petto.
Evren lancia uno strillo indignato. La lama traccia un lungo taglio superficiale nella gola di Kiwi mentre mani invisibili immobilizzano le membra della ragazza, trascinandola un passo indietro. Ha le braccia bloccate lungo i fianchi e una luce assassina che le accende lo sguardo.
Non può ribellarsi. Non può muoversi.
Inerme e letale.
È bella come può esserlo una farfalla velenosa fissata su una tela con degli aghi mentre è ancora viva.
Kiwi deglutisce a vuoto, portandosi subito una mano alla ferita sul collo, che brucia come un carbone ardente. La seta bianca del guanto si impregna di verde intenso e il ragazzo, prosciugato dalla forza necessaria a tener ferma Evren, si lascia scivolare a terra lungo la parete ruvida.
La voce dispersa tra gli ansimi, si ritrova delirando a ripiangere il potere che Nome gli trasmetteva dal Cuore, che innalzava i suoi poteri a quelli di un dio. Gli aveva permesso di annientare intere città e a far inchinare i Mondi nella sua ombra. L'aveva rinchiuso nella prigione sicura di specchi, nella quale si sentiva amplificare come il rimbalzo frenetico di un riflesso dentro se stesso.
Ma Nome non parla più. La sua coscienza si è affievolita come una foto che perde definizione, per trasformarsi in un intruglio di colori incoerenti.
Kiwi è libero. E ancora non lo capisce.
Ora è solo un ragazzino accasciato a terra, dio caduto nel fango, che trattiene a malapena il furore assassino degli occhi di Evren, come un cucciolo troppo ingenuo per cogliere il pericolo dietro ai guizzi giocosi del fuoco e ne finisce scottato.
Sente la vitalità avvampata della ragazza corrompersi nel gelo dei brividi sulla propria pelle, ed è con sguardo tremante che incrocia quello di lei. Ha le dita imbrattate di sangue e la solitudine che gli si attorciglia addosso come filo spinato.
Maestro?
Lo chiede nella testa, in un automatismo spaventoso che lo trascina in un baratro di colpevolezza che sembra rifargli l'anima in pezzi.
Ma Nome non parla più.
– Lasciami.
Evren lo sibila con il naso accartocciato in una smorfia di disgusto. Ha le spalle reclinate, la schiena inarcuata e le punte dei piedi che sfiorano appena l'asfalto costellato di vecchie sigarette.
– Lasciami, pezzo di merda!
– Voglio parlare – Kobontåwi lo sputa fuori tradendo la frustrazione – Stai rendendo tutto più difficile.
– Io? – Evren ostenta una risata strozzata – Io? Non parli sul serio. Non parli sul serio – lo ripete due volte, l'isteria che cresce – Stronzo, mi hai mollata su Ninfra in mano sua. Avevi promesso di aiutarmi. Avevi promesso che mi avresti liberata.
Kiwi si fa passare le dita tremanti tra i capelli, sporcandoli di sangue.
– Non capisci...
– Lo vedi? – Evren di dimena e Kiwi si strozza per impedirle di allungare braccio minaccioso verso di lui e graffiargli la faccia – Lo vedi? Sono anni che questa è l'unica risposta che esce dalla tua cazzo di bocca. Lavoriamo insieme e come mai tu vuoi la camera piena di specchi? Non puoi capire, Evren. Come fai a sapere sempre dove mi trovo quando non lo so nemmeno io? Non puoi capire, Evren. Chi cazzo sei davvero, Lenitov? NON LO PUOI CAPIRE – la voce di Evren si gonfia del vigore che lui tanto ama, ritorcendoglielo contro con una serie di colpi secchi che il ragazzo incassa muto, nonostante si senta ricoperto di sangue.
Un piano.
Prova disperatamente a tornare presente a se stesso.
Piano numero 56... 48... 19...
Non so cosa sto facendo.
Uno dopo l'altro i piani superstiti smettono di avere senso. I suoi poteri, soli, poco allenati in assenza di Nome, gli stracciano i pensieri.
– Ti libero adesso, Evren – mormora, le dita a reggersi le tempie pulsanti – Ti libero, d'accordo? Avrei dovuto farlo prima – e lui stesso non sa se si riferisca a pochi istanti fa o al momento in cui aveva visto l'odio del tradimento accendersi nei suoi occhi e perforarlo, in un passato che si risveglia con prepotenza come una bestia sopita.
– Potrei ucciderti, se lo fai – gli ricorda Evren, ma improvvisamente smette di divincolarsi. Sa che è esausto. Che dice sul serio. Che è tanto stupido e disperato da lasciarla andare di sua volontà.
Kiwi storce la bocca in una curva ibrida tra smorfia e ghigno.
– Fallo. E moriamo in due, ti va ancora? – le scocca uno sguardo affilato ed eloquente come un coltello.
È stupido, glielo concede, ma non al punto di lasciarsi ammazzare senza combattere.
Cinquanta e cinquanta.
Interessante.
La ragazza non risponde, ma ricambia lo sguardo munita dell'intensità nera ed incorruttibile della notte di Ninfra. L'ex Guardiano riconosce con un fremito la fredda determinazione che gli rivolgeva ogni volta, prima di gettarsi al suo fianco in una missione suicida.
Nonostante sia sfinito, Kiwi rilascia Evren con cautela, con la gradualità attenta con cui aveva immobilizzato e torturato capi politici per mezza Alleanza a caccia di informazioni, sotto la arida supervisione di Nome. Quei ricordi sono avvolti dalla nebbia, ma le metodiche del suo mentore gli hanno penetrato le ossa.
I piedi di Evren ricadono piano a terra con tutta la pianta (dare l'illusione di stabilità); le scioglie le dita (dalle dita capisci se è sicuro lasciare andare anche il resto del corpo, non sottovalutare l'espressività delle mani), poi le spalle e il collo (il contraccolpo tra la rigidità e il rilascio confonde e sventa la fuga), poi le braccia (tieni i polsi per ultimi, non avrà abbastanza scioltezza per afferrare un'arma) e infine le gambe (non permettere che si muova dal posto prima del tempo).
Ma le premure di Nome si rivelano inutili.
Evren rimane cristallizzata nello stesso punto in cui Kobontåwi la posa a terra, unica traccia della rabbia omicida il brillio criminale nei suoi occhi scurissimi. Lo fissa immobile, la piega dei capelli arruffata dalla zuffa, il corsetto allentato sulle curve di caramello del suo seno e il rossetto nero appena sbavato nell'angolo della bocca, come un distratto schizzo d'inchiostro.
È anche più bella di come la ricordava.
Kiwi deglutisce.
– Il Demone di Mambra a terra – bisbiglia Evren, sibillina, scrocchiando delicatamente le dita per riesumarle – Sanguinante come un uomo qualunque. Non pensavo di vivere abbastanza per vederlo.
– Non è mia più grande vergogna, credimi – il ragazzo si deve aggrappare alla parete dietro di sé per rimettersi in piedi. Fa male. Si concentra sulle stelle per non impazzire.
– Certo, quella è l'essere venuto qui stanotte – replica la ragazza, amara – Senza il tuo maestro a sussurrarti nell'orecchio, mh?
Kiwi si irrigidisce e le scocca un'occhiata in tralice, lasciando ricadere pesantemente le spalle contro il muro e lottando per tenere integro l'orgoglio.
– Lo sai – è una constatazione semplice, ma sulla lingua è come veleno.
– Mi hai insegnato tu a raccogliere i segreti, Lenitov – Evren alza un sopracciglio con indifferenza – E le voci girano in fretta.
– Le voci di solito le metto in giro io.
– Ma sono le persone come me che sanno controllarle, mh? Potrai conoscere le probabilità, ma non c'è legge nei pettegolezzi. Sono cresciuta nelle bugie, Stellina: non fatico a riconoscere cosa non lo è.
Kobontåwi serra in pugni le dita sporche di sangue e, nonostante il battito scostante nel petto, riesce a fatica a non abbassare lo sguardo da quello gelido di lei.
Stellina.
Lo chiamava così.
Nel Prima.
Prima di...
Un lampo di occhi neri trafitti dal dolore. La voce di Nome che si fa sempre più forte fino a cancellare tutto il resto. La paura del sangue di lei a sommarsi alle centinaia di macchie indelebili sulle sue mani che annichilisce l'universo. Una risata che sa di fumo riecheggiante nel buio appiccicoso come pece.
Kiwi annulla tutto questo sbattendo le palpebre. L'ha fatto per decenni, è bravo a far sparire i pensieri sbagliati.
– Non ho più bisogno di lui – decreta Kobontåwi, levando il mento nonostante si stia per accasciare al suolo – Era lui il problema.
Evren ride, ma senza gioia.
– Ottimista – commenta, stirando acidamente un angolo della bocca – Pensare che il problema fosse solo uno.
Kiwi sospira.
– Sai cosa intendo.
– No, non lo so – lo fulmina lei – Di lui non hai mai parlato. Era "il Maestro", giusto? Il tale che nemmeno si poteva menzionare senza che ti trasformassi in un professatore del suo culto e zittissi qualsiasi domanda. Era il padrone del tuo mondo, che ti faceva del male "per il bene di tutto il resto" – fa un esagerato e teatrale gesto delle virgolette nell'aria – Era come se fossi una parte di lui.
– Santo Mevo, è proprio questo il punto – Kiwi digrigna i denti, sempre più esasperato. Si sfila nervosamente un guanto e usa la seta per tamponare il sangue che gli esce dal collo – Maledizione, era questo che ero venuto a dirti. Che lui non mi lasciava respiro. Che lo amavo, ma mai quanto avrei desiderato amare te. Mi ha impedito per anni di dirti che mi dispiace – gli rotola fuori dalle labbra, con la voce, sempre così solida, che si incrina pericolosamente sull'ultima parola. Kiwi stringe i denti per impedir loro di tremare mentre la guarda con occhi lucidi di stelle – Mi dispiace – lo ripete, debole come una supplica.
Decenni di terrore in cui aveva ritorto all'Alleanza gli scorrono davanti come un sogno lontano. Vite spente dal suo sguardo impietoso. Bambini che scoppiano a piangere mentre muoiono di fame. Preghiere di clemenza che lui non poteva concedere e che sfociavano nelle grida...
Decenni di orrore... spazzati via da un paio di occhi scuri come una notte d'inverno e caldi come la semplicità incredula di un bacio.
Evren lo guarda perforando centinaia di maschere.
Vento aspro soffia nel vicolo, percuotendo Bristol e agitandole i capelli in tentacoli di tenebra.
Il silenzio si protrae e pesa su entrambi come se ne stessero venendo impregnati del tutto, fino a zupparsi dell'immobilità della città stanca.
Infine tocca a Evren sospirare. Recupera con un gesto distratto il coltello da terra e lo rificca in tasca come nulla fosse. Poi indica alle sue spalle, verso il rettangolo di luce ambrata del suo camerino.
– Dentro ho del disinfettante – dice, piatta, ma svuotata di ogni segno di ostilità – E c'è uno specchio grande – aggiunge, anticipandolo – Ci ho scarabocchiato sopra le battute, ma credo vada bene.
Kiwi, esterrefatto, annuisce una volta.
Evren gli fa segno con il capo di seguirlo, dandogli le spalle. Si blocca sulla soglia del camerino, una mano sullo stipite, girandosi per squadrarlo di sbieco.
– Questo che numero era dei tuoi piani, Stellina? – sull'oro, il suo profilo ha l'eleganza di un'eclissi.
Kiwi dimentica come si respira.
– Nessuno – ammette.
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Cover credits: @ / cossiopea_ su ig
(Sì, 'sto capitolo serve solo per flexare il disegno, confesso)
NdA:
Qui ci sono io che mi lancio a capofitto nel magico cliché amoroso perché sì.
Evren è il personaggio più nuovo, della lore. Per anni ho stagnato nella fase di rifiuto verso ogni forma di ship non platonica dentro questa storia (e anche in generale eh. Che ve devo di': l'amore da piccola mi pareva 'na perdita di tempo assurda), quindi che FATICA decidersi a dare un calcio a Kiwi in quella direzione: il bro non si voleva proprio decidere.
Però tra Flame aromantica e Howard poliromantico ma con la preparazione emotiva di una scarpa, uno dei tre doveva cascarci. E scrivere di Kiwi innamorato è troppo divertente *risata sadica*
Evren nasce direttamente dalla mia prepotente fase Six of Crows mescolata ad un pizzico di sano Hazbin Hotel. Basta aggiungere un po' di traumi, un coltello, qualche maschera teatrale e le voilà!
Lei è un personaggio ancora in wip ma spero che, nella sua forma grezza, non la odiate troppo <3
Grazie infinite di essere qui aw
Voti e commenti sono accolti con amore <3
Coss
P.S. Esatto, quella sulla sua coscia è una citazione della Tempesta di Shakespeare. Prego.
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