Il suono dell'anima

"Non mi importa chi sei, se riesci a suonare la musica del mio cuore, allora ti amerò."
~Dandelion

Era una normale giornata di novembre all'interno della clinica di Seoul, o meglio, per me era quella che poteva essere definita una buona giornata, dato che ero stranamente tranquilla e decisamente più propensa a muovermi lungo i corridoi di quell'edificio immerso in una delle zone verdi della città.

Per me era una sensazione strana: erano passati ormai due mesi da quando, a causa dello stress dovuto a un prolungato blocco dello scrittore, ero entrata in crisi, arrivando ad avere un vero e proprio esaurimento nervoso che mi aveva costretta a ritirarmi temporaneamente e a farmi curare. Non avevo potuto fare niente se non lasciare che qualcuno mi aiutasse, perché lo stress, la mancanza di idee e la pressione esercitata sulla giovane e promettente scrittrice che ero mi stavano logorando, causandomi attacchi di panico e una malinconica apatia.

Quel giorno, al contrario dei precedenti, mi ritrovai a percorrere i corridoi dell'edificio, fermandomi ogni tanto di fronte a qualche finestra per vedere il paesaggio fino a quando non raggiunsi la sala ricreativa: era una grande sala con tavoli e sedie che veniva usata come punto d'incontro tra i pazienti e come sala per ricevere parenti e amici. Lì, non molto tempo fa, avevo incontrato la mia migliore amica, che era venuta a trovarmi e mi aveva fatto compagnia, dedicandomi il suo tempo.

Entrai in sala e, prima che potessi sedermi in un angolo appartato, la mia attenzione fu catturata da un particolare piuttosto insolito: una persona era seduta al pianoforte.
Da quando mi trovavo lì non avevo mai notato quello strumento, né avevo visto la persona che era seduta di fronte a esso.

Di lui, dato che mi trovavo alle sue spalle, vedevo poco: aveva capelli corti e neri come la pece, in netto contrasto con la divisa bianca che tutti eravamo costretti a indossare, e una posa apparentemente rilassata ma sicura di sé.

Poco dopo le sue dita sfiorarono il pianoforte, prima con lentezza e con una leggera insicurezza, in seguito con sicurezza sempre crescente, a cui seguivano maggiore precisione e intensità emotiva. Non andai a sedermi, anzi, non mi mossi di un millimetro, perché quella visione mi aveva stregata, costringendomi a restare immobile dietro di lui, a vedere come le sue braccia si aprissero per coprire tutta la tastiera e a intravedere le sue mani muoversi veloci come ragnetti capaci di passare dalla delicatezza all'aggressività nel giro di qualche nota.

Non avevo mai ascoltato un brano del genere, e farlo fu un'esperienza mozzafiato: era da mesi che una melodia non mi colpiva così intensamente, quasi lasciandomi senza fiato e caricandomi di un'energia che non sentivo da tempo e che avevo riconosciuto come ispirazione allo stato puro. Quella consapevolezza, per me, fu come un fulmine a ciel sereno, tanto intensa, improvvisa e travolgente quanto stupefacente ed emozionante. Tutto per merito di quel pianista.

Avendo studiato pianoforte per alcuni anni, sapevo che una mano gestisse il ritmo e che l'altra si occupasse della melodia, e la sinistra, col suo dettare il tempo in maniera incessante e sempre più veloce, stabiliva anche il ritmo dei battiti del mio cuore, talmente forti e veloci che temetti di potermi sentire male da un momento all'altro. Non era un attacco di panico, ma ero sicura che il pathos che ogni parte del mio essere percepiva fosse strettamente legato a quelle note e a quel ragazzo.

In quel momento di paralisi interiore ed esteriore, in cui il tempo si era completamente fermato, ebbi un'unica certezza: quello che stavo ascoltando era il suono dell'anima di quel ragazzo, e, allo stesso tempo, in un modo e per un motivo a me sconosciuto, sembrava essere la musica del mio cuore.

Per la prima volta nella mia vita, osservando quelle mani muoversi così agilmente sul pianoforte, desiderai essere toccata, sfiorata e accarezzata da esse, e fu un desiderio così estraneo a me da sconvolgermi ulteriormente.

Quella esecuzione di cui non compresi la reale durata, a un certo punto, come ogni cosa, giunse al termine, e io non riuscii a fare niente tranne che applaudire sinceramente e tanto, al punto che le mani iniziarono a formicolare e a farmi male. Nel momento in cui sentii il battito delle mie mani, mi resi conto del fatto che noi due fossimo soli all'interno di quella sala in cui, per caso o per volontà del destino o di qualsiasi altra entità, il pianoforte marrone che si trovava in quella stanza era stato appena egregiamente suonato da quel completo sconosciuto.

Dopo aver smesso di applaudire, quel ragazzo, inaspettatamente e con molta lentezza, si girò verso di me, e provai di nuovo quella sensazione di vuoto misto a stupore e panico che mi aveva colpita prima: avendolo di fronte, notai come i suoi capelli neri come la pece fossero in contrasto con il viso bianco come il latte, di una bellezza delicata come quella della Luna, dalle labbra sottili e dal naso piccolo.

La cosa che, però, mi colpí più di tutte del suo aspetto furono i suoi occhi: piccoli e sottili, che ricordavano quelli di un gatto, si impadronirono della mia attenzione, che si soffermò su quel preciso particolare, intrigante e misterioso. Al di là della forma, quello che mi attirò dei suoi occhi fu il loro colore; erano neri, che poteva essere anche un colore abbastanza comune, ma in lui erano diversi: neri come il carbone, avevano il colore di chissà quale profondissimo punto della terra in cui, se fossi caduta, non sarei più riuscita a risalire. Era una trappola, un tranello creato ad arte per me? Erano delle calamite o qualche essere pronto a trascinarmi con sé chissà dove?
Percepii il suo sguardo trapassarmi da parte a parte, ferirmi senza farmi sentire dolore, scavando negli angoli più profondi della mia anima e cercando ogni mio piccolo segreto. Mai lo sguardo di un perfetto sconosciuto mi aveva fatta sentire così nuda e indifesa.

Presi un respiro profondo e sostenni il suo sguardo, tentando di mostrarmi più forte di quanto fossi realmente, anche se ero sicura che lui avesse già visto tutto: la mia paura, l'imbarazzo che probabilmente mi aveva colorato le guance di rosso, i miei problemi e pensieri.

Senza che me ne accorgessi, lui, dopo essersi alzato dallo sgabello, prese una sedia e la posizionò vicino al suo posto, per poi tornare a sedersi e fare cenno a me di avvicinarmi.

Presi un respiro profondo e mi avvicinai lentamente, in seguito mi sedetti di fonte al ragazzo.
<<Io sono Min Yoongi.>> Mi disse tutto d'un tratto, sorprendendomi nuovamente: <<Io sono Park MinJee, piacere di conoscerti.>> Risposi e tentai di sorridergli: <<Sei bravissimo.>>

Lui abbassò un attimo il capo e mi parlò: <<Come mai sei qui?>> Quella domanda mi spiazzò completamente.
<<Ho avuto un brutto esaurimento nervoso, ma dicono che io abbia un disturbo acuto da stress post-traumatico. Tu?>>
<<Depressione.>> Dopo aver parlato lasciò un lungo sospiro: probabilmente, proprio come avevo fatto io in quel momento, era la prima volta che confessava il suo problema ad alta voce.

Abbassai il capo, puntando i miei occhi castani sulle ginocchia, quando un'altra domanda da parte sua attirò la mia attenzione: <<Da quanto tempo sei qui?><
<<Circa due mesi. Tu?>>
<<Un mese.>>
Alzai nuovamente lo sguardo su di lui: <<Non ti ho mai visto prima d'ora.>>
<<Perché, da quando sono qui, è la prima volta che esco dalla mia stanza. In ogni caso, potevo suonare decisamente meglio: questa non è stata una delle mie esibizioni migliori.>>
<<In fondo non suoni da parecchio tempo, quindi è normale. Per me, però, sei stato eccezionale.>> Dissi e gli sorrisi, e in quel momento lui si girò con le gambe verso lo strumento: <<Sai suonare?>> Mi domandò, e io, imbarazzata, gli risposi che non lo facevo da anni, ma che avevo sempre amato quello strumento.

Lui, dopo quell'affermazione, si alzò e mi fece segno di sedermi al posto suo: <<Prova anche con la prima cosa che ti viene in mente, hai l'aria di una persona con una buona memoria.>>
Annuii, pensando a quanto avesse ragione, e mi misi al suo posto, per poi mettere le mani sul pianoforte e iniziai a suonare un piccolo valzer tra dubbi e ricordi.
Quando finii, Yoongi mi chiese come si chiamasse il brano che avevo suonato, e io gli risposi: <<"Occhi Neri"... Come i tuoi.>> Abbassai la testa subito dopo essermi resa conto di quello che avevo detto e, inaspettatamente, lo sentii ridacchiare.

Tornai a guardarlo stupita e lui mi parlò ancora: <<Si vede che ti manca la pratica, però non hai dimenticato.>>
<<Magra consolazione per una che non suona da un paio d'anni, soprattutto se detto da un pianista bravo come te.>> Sorrisi amaramente e lui mi rispose per le rime: <<Evidentemente è successo perché avevi di meglio da fare. Cosa facevi prima di venire qui?>>
<<Scrivevo. Tu, invece? Suonavi?>>
<<Sì. Ma perché hai smesso?>>
<<Di fare cosa?>>
<<Scrivere.>>
<<Perché non avevo più idee, e non ne ho tutt'ora.>>
<<Mi dispiace.>> Quasi sussurrò, creando un breve silenzio che sfruttò per incatenare il suo sguardo al mio.

<<Posso suonare per te? Potrebbe essere utile.>>

<<Sarebbe un bel pensiero, anche se avrei preferito ricominciare a suonare.>> Confessai, abbastanza giù di morale, ma lui non si preoccupò: <<Vedremo: forse, a un certo punto, preferirai ascoltare piuttosto che suonare.>>
<<Qualcosa mi dice che, in un certo senso, questa faccenda ti riguardi.>> Piegai la testa di lato, in un inconscio tentativo di catturare meglio ogni dettaglio del suo volto, e lui mi rispose con tranquillità, ma senza alcuna particolare espressione: <<Diciamo che è così, ma non te lo dirò così presto. Nel frattempo, però, ti va di sentire qualcos'altro?>>

Scattai in piedi: <<Subito! Ma prima devo fare una cosa.>> Ero in procinto di correre verso la mia stanza, ma Yoongi mi bloccò, prendendomi per il braccio: <<MinJee, qualunque cosa tu debba fare, può aspettare.>> Il suo tono basso, quasi rauco, ma allo stesso tempo gentile e delicato come la mano che mi stringeva il braccio, mi rilassò e mi fece desistere dal mio intento.

Annuii e tornai a sedermi accanto a Yoongi, mentre lui faceva altrettanto e dopo un momento di silenzio totale, iniziò a suonare una nuova melodia, incantandomi più di prima: non riuscivo a capacitarmi di come la sua musica riuscisse a toccarmi così in profondità, senza risultare invasiva e con una delicatezza che, prima d'allora, avevo solo immaginato.

Quel giorno fu solo l'inizio di tanti altri: infatti, dopo quell'inaspettato incontro, ci ritrovammo a incontrarci davanti al pianoforte della sala ricreativa quasi ogni giorno, e mentre lui suonava tutte le melodie e canzoni che conosceva, io, stregata, mi limitavo ad ascoltare con gli occhi chiusi e una mano sul cuore, oppure scrivevo senza sosta, per poi correggere i miei scritti in un secondo momento.

<<Quindi è questa la cosa che dovevi fare con tanta urgenza quella volta.>> Mi disse Yoongi non molto tempo dopo, notando il mio lavoro certosino con la penna e i fogli, e io annuii: <<Da quando ti ho incontrato, ho ritrovato l'ispirazione e la voglia di scrivere.>>
<<Secondo me non ci riuscivi perché usavi troppo la testa.>>
<<La testa? Ma se ho sempre scritto col cuore in mano!>>
<<Forse, a un certo punto e per qualche strana ragione, hai smesso di scrivere col cuore e hai iniziato a usare troppo la testa.>>
<<Potrebbe essere un'ipotesi sensata. Ma, se la mettiamo così, questo diventerebbe anche il motivo per cui non sei più riuscito a comporre: non sei più riuscito a sopportare ciò che ti faceva stare male e hai provato a comporre usando solo la testa, anche se sappiamo entrambi che la tua anima ha lo stesso suono che emette questo pianoforte quando lo usi tu.>>

Lui restò a fissarmi in silenzio, sorpreso dalle parole che ero stata incapace di bloccare sulla punta della lingua, ma questa era una parte del mio carattere a cui entrambi ci eravamo abituati: dicevo quello che pensavo nell'esatto modo in cui lo pensavo. Quella volta, però, dovevo averlo veramente sorpreso.

Non riuscimmo a parlare ancora perché il dottor Kim, che mi teneva in terapia, mi chiamò per riferirmi le novità sul mio caso: nonostante il mio disturbo, avevo imparato a gestire anche le cosiddette "giornate no" (infatti c'erano stati giorni in cui non mi ero presentata all'appuntamento del pianoforte per motivi legati al mio disturbo, ma questi erano diminuiti gradualmente), e in più ero riuscita a riprendermi quasi totalmente dopo il trauma dovuto all'incidente per cui avevo rischiato la vita.                                                                                                      Dopo avermi dato quella notizia, il dottor Kim mi disse che nel giro di una settimana avrei lasciato la clinica, e a quel punto lo ringraziai e tornai nella sala ricreativa.

Mi sedetti nuovamente al fianco di Yoongi con lo sguardo basso e lui, con le mani poggiate ai lati dello sgabello, mi domandò: <<Che è successo?>>
<<Il dottor Kim mi ha detto che tra una settimana devo andare via: pare che sia finalmente guarita.>>
<<E non sei felice di questo? Se io fossi in te, lo sarei.>>
<<Io... Non lo so.>>
<<Come non lo sai? Almeno, dovresti essere felice per il fatto di essere guarita!>>
<<E lo sono, ma non riesco a essere completamente felice.>>

<<MinJee, non dirmi che ti dispiace l'idea di andartene da qui, oppure l'idea di lasciarmi.>> Mi disse, ridacchiando e mostrandomi il lato ironico del suo carattere che si era manifestato solo negli ultimi tempi, inconsapevole di aver capito tutto.
<<In realtà, mi dispiacerebbe non incontrarti più.>>
Lui mi guardò con straordinaria serenità: <<Presto non sentirai più la mia mancanza, e io farò lo stesso, non preoccuparti.>>
<<Ma se dovessimo incontrarci di nuovo, continueremmo a comportarci come ora?>>
<<Penso di sì. MinJee, il mondo è strano e noi non siamo da meno, ma sono sicuro che, se dovessi rivederti, ti offrirei almeno un caffè .>>                                                                                           Sorrisi di fronte alle sue parole, ed entrambi tornammo nella nostra bolla fatta di musica e scrittura.

Dopo quel giorno, non riuscii più a vedere Yoongi, sia per le continue visite che per le assenze dovute al suo disturbo. Infatti, quando arrivò il giorno della partenza, salutai tutti, a partire dal dottor Kim, ma l'unico che non salutai fu proprio il mio amico pianista.

Passò un anno e mezzo da quel giorno che mi aveva diviso il cuore tra gioia e tristezza, che ricordava una specie di senso di vuoto associabile solo a una persona: Min Yoongi.

Dopo essermene andata dalla clinica non avevo avuto modo di tornare a trovarlo, presa dal ritorno alla quotidianità e dalla presenza di amici e familiari, e dopo un bel po' di tempo, come aveva predetto, smisi di sentire costantemente la sua mancanza e conservai nella mente solo i ricordi dei momenti che avevamo condiviso.

In quel periodo ero riuscita anche a scrivere, e quella era stata una delle cose che aveva curato la malinconia: avevo scritto un romanzo, e, anche se il contenuto era abbastanza diverso, tra le righe era nascosta la mia storia con quel pianista e tutto quello che ne era seguito.

Dopo la pubblicazione del libro era stato organizzato un galà di beneficenza per promuoverlo e ottenere dei fondi per gli istituti di igiene mentale coreani.

Ero lì tra amici e impresari, quando, a un certo punto, calò il silenzio in sala e l'attenzione si concentrò su un pianoforte a coda nero.
Da lì si alzò una melodia soave, ricca di emozioni e con tutta una sua storia da raccontare. Il cuore iniziò a battere a ritmo di musica, la mente si riempì di ricordi e sentii di nuovo quello stranissimo desiderio di essere accarezzata come i tasti di quel pianoforte, che non era più nero e a coda, ma marrone e verticale, in un angolo della sala ricreativa della clinica di Seoul: era lì, la musica del mio cuore, il suono della sua anima.

La musica, bellissima come mai prima d'allora, terminò, e fu un grande applauso a occupare il suo posto.

Passai in mezzo agli invitati, raggiunsi il pianoforte e fu allora che lo vidi: pelle nivea, un sorriso sulle labbra, i capelli neri così come i suoi occhi, capaci di scavare nell'animo e arricchirlo.

Mi avvicinai a lui e gli sorrisi, poi mi prese la mano e parlò: <<La dedico a Park MinJee, l'unica scrittrice in grado di raggiungere il cuore dei lettori mentre parla con il suo in mano.>>
Io, nonostante fossi una persona che si divertiva a giocare con le parole, non ne trovai, e preferii fare una cosa molto più semplice: lo abbracciai forte e gli sussurrai: <<Yoongi, non hai idea di quanto tu mi sia mancato.>>

Lui si allontanò leggermente per guardarmi negli occhi: <<Mi sei mancata anche tu. Ora, però, dimmi una cosa: vuoi ancora che ti insegni a suonare?>>
Appena disse quelle cose il mio sorriso si allargò, perché mi ricordai di quello che mi aveva detto al nostro primo incontro e mi resi conto che non solo anche lui lo ricordava, ma anche che aveva perfettamente ragione.
<<Mi piacerebbe suonare, ma preferisco di gran lunga ascoltare te, e non solo mentre stai al pianoforte, soprattutto ora che sei qui.>>
Lui scoppiò a ridere, e io con lui, felice di vederlo in quel modo e di sentirlo ridere come non avevo mai fatto.
Purtroppo, però, non eravamo soli in quella sala, e uno degli organizzatori della serata si avvicinò al pianista: <<Signor Min, la ringraziamo infinitamente per averci concesso l'onore di ascoltare la sua musica.>>
Lui si inchinò e lo ringraziò per aver avuto quella possibilità, e dopo aver scambiato qualche parola, sciogliendo il gruppo attorno a noi, tornò su di me.

<<Non pensavo che fossi un pianista così importante.>> Dissi, sorpresa da quello che avevo sentito prima, e lui mi rispose a tono: <<E io non pensavo che scrivessi in quel modo. Ma queste cose, alla fine, per noi non sono così importanti.>>
<<Vero. Allora, vuoi suonare un altro po' ?>>
<<Per te, sempre.>> Disse e, dopo essersi seduto al pianoforte, cominciò a suonare.
Nessuno di noi immaginava che quella melodia sarebbe durata in eterno.

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