Capitolo 1
Agnese sentiva la nostalgia delle lunghe estati di ozio, dopo la fine del liceo. Erano ormai passati da due anni i tempi in cui restava bivaccata sul divano, dove l'unica preoccupazione era di non fare tardi alle uscite con la comitiva e di pensare a cosa portare in vacanza.
Il liceo, però, era finito e con esso la spensieratezza di quegli anni. L'università era stata un nuovo ciclo, una nuova esperienza di vita che l'aveva completamente avvolta: nuovi posti, nuovi professori, nuovi compagni, nuove materie da studiare. Aveva scelto un percorso non facile, ma non per questo si era lasciata abbattere o si era pentita della sua decisione. D'altronde era abituata ad affrontare gli ostacoli e i pregiudizi sulla sua persona.
Frequentava un corso di laurea pieno di maschi, nonostante fosse passato un intero anno, non si era ancora abituata agli sguardi nei corridoi. La fissavano quasi tutti come un pezzo di carne, ma quello purtroppo era il destino delle poche donne che sceglievano di studiare al Politecnico di Torino. Il suo carattere non le permetteva di lasciarsi abbattere da qualsiasi critica, camminava sempre a testa alta facendo ondeggiare fiera i capelli biondo platino, che portava spesso legati in una coda alta. Questi ultimi erano il suo vero e proprio tratto distintivo, li aveva ereditati dalla nonna materna, Anita, che era di origini polacche.
Nel corso degli anni aveva sentito ogni critica su di lei e sui suoi capelli. Tutte quelle tinte le avranno bruciato il cervello, era la frase che più sentiva dire sul suo conto. Agnese, però, aveva imparato così ad amarli e curarli con degli impacchi di camomilla: ne aveva fatto la sua forza. Aveva risposto a tutti quei pregiudizi concludendo il percorso al liceo scientifico con il massimo dei voti e riuscendo a entrare all'università: prima in graduatoria. A lei non fregava niente dei suoi tratti delicati o del suo viso "da bambola", come lo definiva Demetria, sua madre.
Agnese smise di pensare, e si convinse ad alzarsi dal morbido letto. Quel che poteva essere un normale giorno di luglio per chiunque, per Agnese non lo era. Andava avanti da una settimana ormai, quel senso di inadeguatezza e tristezza che le stringeva lo stomaco.
Lei, suo fratello Valerio e sua madre erano stati convocati dal notaio per aprire e leggere il testamento che aveva lasciato suo nonno. Non era ancora pronta ad affrontare questo passo, significava rendere più reale la sua scomparsa, che ancora non aveva accettato. Non aveva mai versato una lacrima in pubblico, soprattutto davanti a sua madre che vedeva soffrire per la perdita del padre. Era stato tutto troppo veloce e lei si era chiusa in una specie di bolla: si era trattenuta quando gli aveva fatto l'ultima visita in ospedale, quando aveva visto la bara chiudersi e quando l'avevano calata nella tomba di famiglia.
Fulvio era sempre stato una presenza costante nelle loro vite, non gli aveva mai fatto mancare nulla, soprattutto l'amore che un nonno poteva dare. Lui e la nonna avevano dedicato a lei e a suo fratello tutto il tempo che potevano donargli, e loro due avevano assorbito ogni cosa che gli avevano trasmesso. Li consideravano quasi immortali, e separarsi da loro era stata una mazzata non indifferente. Dopo la morte di Anita, dieci anni prima, Fulvio aveva deciso di avvicinarsi a loro, comprando un piccolo appartamento non molto distante da quello della famiglia Campo. Aveva scelto di lasciare la sua adorata casa in montagna solo per stare vicino ai suoi nipoti, sembrava che avesse avvertito che il suo tempo sarebbe presto scaduto.
Agnese aprì l'armadio per decidere cosa mettere. Demetria le aveva raccomandato di vestirsi in maniera consona all'occasione, il suo stile abbastanza casual non era per nulla contemplato. Distolse quindi lo sguardo dalle sue numerose magliette con scritte simpatiche e pungenti e si concentrò sul lato sinistro del guardaroba: scelse una camicetta bianca con dei fiori neri e una gonna lunga fino al ginocchio.
Si costrinse a ignorare il suono di una notifica che proveniva dal computer acceso, uno schermo si era illuminato mostrando la schermata di Minecraft, un videogame online a cui aveva iniziato a giocare quando era poco più che un'adolescente. Avrebbe voluto tanto distrarsi e lasciare il mondo reale fuori per qualche ora. Purtroppo, però, aveva un impegno più importante ed era costretta a rinunciare: si sarebbe collegata quella sera.
Quando finì di vestirsi uscì dalla sua stanza e fece qualche passo in avanti lungo il corridoio, si voltò a destra e bussò alla porta della camera di Valerio. Mentre aspettava che suo fratello aprisse, Agnese indugiò sulla foto di famiglia appesa proprio nel muro accanto: ritraeva loro due da piccoli, in braccio ai nonni. Una nuova stretta le attraversò lo stomaco e la voglia di piangere si fece prepotente.
A salvarla dal singhiozzare come una scema fu Valerio, che aprì la porta appena in tempo.
«Vieni, entra» le disse solo, spostandosi.
Agnese accettò l'invito e si richiuse la porta alle spalle. La stanza di Valerio era in penombra, la serranda della finestra era quasi del tutto abbassata. Il letto posizionato al lato opposto della porta era scombinato, Valerio era in piedi rivolto verso la libreria e sembrava indaffarato a sistemare i tomi: li prendeva e li metteva sulla scrivania e li disponeva chissà in quale modo. Era vestito con un pantalone nero e una camicia bianca a cui aveva fatto le svolte fino ai gomiti. La stanza era fredda grazie al condizionatore acceso.
«Che stai combinando, Vale?»
Agnese incrociò le braccia sotto al seno, con un'espressione divertita. Conosceva il perché di quell'atteggiamento: Valerio era nervoso e non riusciva a stare fermo. Anche lui aveva incassato il colpo di quei giorni difficili, chiudendosi in se stesso.
«Sistemo.» Valerio le rispose lapidario, liquidando il discorso e continuando a spostare e ordinare i libri.
Agnese si staccò dallo stipite della porta dove si era appoggiata, e lo raggiunse in pochi passi. Gli afferrò i polsi e lo costrinse a guardarla.
Erano gemelli ed erano di aspetto identico. Stessi occhi azzurri, stessi capelli biondi, stesso viso dai tratti delicati e proporzionati. L'unica cosa che li distingueva era l'altezza: Valerio superava Agnese di una decina di centimetri.
Questo li faceva sentire speciali, era una rara condizione in cui due gemelli crescevano all'interno dello stesso sacco amniotico, condividendo anche quasi la totalità del codice genetico. La differenza più marcata era rappresentata dal sesso diverso. Agnese adorava pronunciare quella parola strana per identificare il loro caso: sesquizigotici. Valerio, invece, non sempre riusciva a ricordarla e nella maggior parte dei casi non sapeva esporre con esattezza quel fenomeno, viaggiando un po' con la fantasia e inventando spiegazioni poco razionali.
Le loro personalità, invece, erano del tutto opposte. Valerio si era appassionato alle arti classiche, amava leggere e scrivere, suonava il pianoforte e adorava gli scacchi. Agnese si era dedicata anima e corpo al mondo informatico, ai videogiochi, si scatenava con la musica rock e con i suoi roller rosa con cui adorava andare in giro e con cui faceva anche delle gare.
«So che è difficile, Vale, nemmeno io voglio andare da questo sconosciuto a sentire leggere un testamento. Dobbiamo farlo, però. Per noi stessi e per la mamma, non possiamo farla andare da sola. Non credi?»
Valerio non disse nulla, la guardò un istante con gli occhi tristi e poi abbracciò la sorella. Stettero qualche secondo stretti l'uno all'altra, fin da piccoli avevano scoperto che comunicavano più in silenzio che parlando.
Demetria aprì la porta di ingresso, facendo scattare due volte la serratura. Aveva finito il solito turno in ufficio, ma la giornata si prospettava ancora lunga. L'appuntamento a cui doveva andare insieme ai suoi figli la inquietava, sembrava che non riuscisse a prendersi un momento per restare da sola: voleva piangere suo padre un'ultima volta, lontana da occhi indiscreti.
«Ragazzi, siete pronti?» Demetria alzò il tono di voce, per farsi sentire.
Valerio e Agnese si precipitarono da lei, mentre la ragazza, con una mano, si stava ancora sistemando i capelli.
«Sì, penso che possiamo andare» disse Valerio, inarcando leggermente le labbra in un sorriso tirato.
«Datemi solo cinque minuti, ho bisogno di darmi una sciacquata. Oggi fa troppo caldo.» Si avvicinò al figlio e gli diede un bacio sulla fronte.
I due gemelli si sistemarono provvisoriamente sul divano e, nell'attesa, presero il loro smartphone. Demetria, come al solito, era stata di parola e dopo cinque minuti si presentò da loro.
«Ora penso che siamo tutti pronti. Andiamo, ragazzi.»
Agnese notava sempre ogni dettaglio, e anche quella volta al suo occhio attento non sfuggì che sua madre aveva cambiato la maglia, ma non la colorazione. Indossava un tailleur nero e sotto la giacca aveva un top dello stesso colore. Demetria non avrebbe superato quella perdita, e solo la sua famiglia poteva esserle d'aiuto. Insieme al loro padre avevano già parlato con lei del nero dei vestiti, ed erano riusciti a strapparle una promessa: li avrebbe indossati per un mese, poi basta.
Uscirono da casa e un'ondata di aria calda li travolse, le temperature estive erano aumentate in quei giorni, sfiorando quasi i trentanove gradi. L'unica cosa che li salvava era l'aria condizionata, almeno nella loro abitazione potevano godere del refrigerio. Si infilarono in macchina, che per fortuna era stata parcheggiata all'ombra, e Demetria mise in moto, partendo in modo spedito: se non si fossero sbrigati sarebbero arrivati in ritardo.
La strada per raggiungere l'ufficio del notaio prevedeva che si passasse per Piazza Statuto, vicina alla loro abitazione, una delle piazze più importanti della città di Torino. Ogni volta che passavano di lì, Agnese aveva un brivido lungo la schiena, non sapeva neanche spiegarsi il perché di quella coincidenza, ma sentiva come se una piccola scossa le attraversasse tutto il corpo. Era come una scarica di adrenalina.
Guardò di sfuggita Valerio, sapeva che anche per lui era così. Ricordava che la nonna li portava spesso in giro per la città, raccontandogli dei monumenti e della storia, più volte si era soffermata proprio sulla struttura di quella piazza. Sembrava saperla lunga su ogni argomento, Anita era una donna di un'intelligenza straordinaria.
L'elemento che contraddistingueva quel luogo era un monumento composto da grandi pietre l'una sull'altra e dei corpi appoggiati su di esse, all'apice c'era una statua di colore scuro che raffigurava un angelo: Lucifero. Quell'opera scultoria, che era stata eretta in occasione della realizzazione del traforo del Frejus, aveva da sempre attirato la particolare attenzione dei due fratelli.
Dopo avere trovato parcheggio in una via parallela, arrivarono davanti un palazzo antico dopo pochi minuti di camminata. Esso era situato in una delle vie del centro città. Demetria suonò al citofono e insieme ai suoi figli attese una risposta. Dopo essersi presentati, il portone scattò in maniera rumorosa. Quando varcarono la soglia dello studio del notaio Giordano, si ritrovarono in un luogo arredato in stile classico.
La segretaria li fece accomodare nella sala d'attesa, poiché il notaio avrebbe perso ancora qualche minuto. Si notavano subito divani e poltrone in pelle marrone, le pareti erano di un colore molto chiaro che si avvicinava al crema, e nell'angolo in fondo un grande acquario con pesci colorati attirava l'attenzione di chiunque entrasse in quella stanza.
Si sedettero tutti assieme sullo stesso sofà, e casualmente Agnese capitò nel posto centrale. Alla sua sinistra c'era sua madre che, nervosa, muoveva la gamba. La figlia le avvicinò la mano invitandola a stringerla. Conosceva bene la forza d'animo di sua madre, ma sapeva anche che la cosa che l'aveva resa sempre più forte negli anni era stata la presenza del marito, Adriano. Per Agnese i suoi genitori erano sempre stati un esempio di amore incondizionato, ed era felice di saperli uniti anche dopo tanti anni.
Demetria strinse la mano della figlia immaginando che fosse quella di Adriano, lui non era lì perché non era stato convocato, e non gli avrebbe fatto prendere un permesso a lavoro per nulla. Inspirò, imponendosi di restare calma, e attese di entrare in quell'ufficio. Era vero, suo marito non era con lei, ma era accompagnata da Valerio e Agnese e quello la faceva stare un po' più serena.
«Prego, il dottor Giordano è pronto a ricevervi.»
La giovane segretaria si alzò dalla sua postazione, dopo essersi aggiustata la gonna dritta a pois. Indicò con un gesto la porta dietro di lei, mentre un boccolo le sfuggì dalla perfetta chioma bruna ben tirata. Valerio non poté fare a meno di scrutarla, si beccò un leggero colpo da parte della sorella che lo rimproverò con lo sguardo: non era il caso, né il luogo. Demetria annuì, si alzarono tutti e tre all'unisono come se fossero sincronizzati.
Lo studio del notaio era illuminato dalla grande finestra posta a destra della stanza, era chiusa e l'aria all'interno era fresca grazie al condizionatore.
«Benvenuta, signora Campo. Buon pomeriggio, ragazzi.»
Dario Giordano, il notaio, si alzò dalla sedia, sporgendosi in avanti dal lato della scrivania per stringere le mani a tutti. Aveva quasi sessant'anni, ma un principio di calvizie lo faceva apparire più vecchio. Il volto era serio, ed era costellato da macchie dell'età soprattutto nell'area del naso. Era vestito di tutto punto, Valerio pensò a quanto dovesse soffrire il caldo a restare con quegli abiti in piena estate.
Il terzetto prese posto nelle sedute davanti alla scrivania in legno lucido, di solito erano due, ma ne erano state preventivamente preparate tre.
«Buonasera, signor Giordano. Mi dispiace se le sembro un po' confusa, ma come le ho detto ieri al telefono non mi aspettavo di essere convocata per qualcosa del genere.»
Suo padre non le aveva mai parlato di un testamento, né tantomeno di un notaio.
«Non si preoccupi, signora, comprendo il suo stato d'animo. Molti dei miei clienti prendono questa decisione poco prima di morire, a volte perché sono malati e gli resta poco da vivere, altre volte perché sentono di dover compiere questo gesto. Il caso di suo padre è proprio quest'ultimo: questa è la busta del documento.»
Il notaio mostrò ai presenti una busta marrone, chiusa da una ceralacca rossa.
Demetria spostò un ciuffo di capelli biondi dietro l'orecchio, per celare il nervosismo.
«Capisco, allora non ci resta che aprirlo. Proceda pure.»
Agnese e Valerio seguirono attenti ogni movimento del signor Giordano: il notaio alzò con cura il sigillo che provocò un piccolo crack quando si spezzò. All'interno della busta estrasse un singolo foglio, era bianco e scritto da un solo lato. Prese gli occhiali dalla custodia posata sulla scrivania e li inforcò, pronto a leggere il testo dopo essersi schiarito la voce.
«Queste sono le ultime volontà del signor Forti Fulvio: "Torino, 30 giugno 2026. Io sottoscritto Fulvio Forti, nel pieno delle mie facoltà mentali dispongo delle mie sostanze per il tempo in cui avrò cessato di vivere con il presente testamento olografo. Istituisco mia erede universale in tutto il mio patrimonio mia figlia Demetria. Lego ai miei nipoti Agnese e Valerio la casa in montagna situata a Resia, frazione di Curon-Venosta nella provincia autonoma di Bolzano." È tutto.»
I due fratelli si strinsero la mano più forte, quando il signor Giordano aveva fatto i loro nomi una sensazione di ansia li aveva pervasi entrambi. Si scambiarono uno sguardo perplesso, ricco di dubbi e domande. Una in particolare risuonava nella loro mente: dove diavolo era Resia?
Vi lasciamo qui sotto la copia del testamento scritto da nonno Fulvio.
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