Prologo
Thanlos era sempre stato un posto nebbioso. Un grigiore argentato, cupo e denso, risaliva dalle acque del delta dove era situato. Si amalgamava con discrezione sulla superficie bluastra dell'acqua per poi salire e depositarsi in cima ai tetti, e percorrere le strade lastricate del piccolo villaggio, come se fosse un suo perenne abitante.
Non a caso, Thanlos si era guadagnata il soprannome di "Città delle nuvole" o "Città umida".
I suoi abitanti convivevano con quello scomodo mantello, soliti dire che ci avevano fatto l'abitudine. La città stessa era diventata un posto tenebroso. Una cripta del silenzio. Una landa di scongiuri.
Soltanto i più audaci si recavano a Thanlos in inverno, quando la nebbia si faceva più intensa, e di forestieri se ne vedevano veramente pochi, destinati a diminuire col passare dei secoli.
Ogni inverno il gelo incatenava l'aria in una morsa feroce e il manto nebbioso la celava come se volesse rubare un fazzoletto di terra al mondo, nascondendo il villaggio da lontano e facendolo assomigliare ad un'indistinta macchia vaporosa.
Non a caso se dovevi nascondere qualcosa o qualcuno, per un certo periodo di tempo, Thanlos diventata il posto giusto. La gente era schiva e consumata dal gelo; tutti si facevano i fatti propri e nessuno osava porsi troppe domande.
C'era chi riusciva a farsi strada nella coltre, ma in molti vi si perdevano all'interno e ne sbucavano fuori dopo mesi di tanto girovagare, da qualche parte, al confine della brulla pianura incastonata nella valle del fiume Dras, senza aver mai incrociato il villaggio.
Si era sparsa così la voce che quella nebbia fosse incantata, dal momento che l'inspiegabile per il popolo era opera di magia. Ma il trucco era quello di non tentare di orientarsi attraverso la nebbia. Bisognava bensì ascoltarla e farsi guidare, come un marinaio dalla sua bussola personale.
E il capitano Avrael sapeva sicuramente essere un ottimo ascoltatore di nebbie, che fossero magiche, oppure no.
Camminava solo, ma accompagnato da una leggera luce crepuscolare aranciata, che mitigava il solito grigiore invernale con un bagliore tenue e inquietante.
Il capitano si stringeva nel suo scuro cappotto logoro, il largo cappello ben calato sul volto, con la solita piuma rossa al lato sinistro che ondeggiava a ogni suo passo. L'equipaggio lo aveva lasciato sulla sua nave, mimetizzata in un'insenatura del fiordo, ad attendere che facesse ritorno da quell'impellente necessità di incontrare una vecchia amica. Quelle erano state le uniche spiegazioni che aveva deciso di dare alla sua ciurma.
A quell'ora le botteghe sulla via principale stavano chiudendo. Avrael percepiva il peso di qualche occhiata su di sé, ma non se ne garbava. Qualcuno lo fissava come se fosse stato uno spettro che camminava per strada, altri invece peggio, avevano sguardi d'ammirazione come se fosse una leggenda. Poteva quasi sentire le parole rincorrersi nelle loro menti. Un morto che è resuscitato miriadi di volte. Un uomo che è riuscito a toccare la fine di questo mondo ed è tornato indietro. Erano molte le dicerie sul suo conto e lui le conosceva tutte a memoria. Dopotutto lui era il capitano della nave pirata più famigerata di quelle povere acque e non metteva quasi mai piede sulla terraferma.
Questa volta era stato costretto a scendere dalla sua nave, e il solo affare che gli premeva portare a termine era nascondere o proteggere dal freddo un rigonfiamento, appena visibile, sotto i lembi del suo cappotto. Una strana figura che si incurvava verso l'alto e si trovava proprio all'altezza del petto e gli lasciava penzolare nell'aria la manica destra, senza il braccio al suo interno.
Ripercorrere quella strada lo stava innervosendo più di quanto avrebbe voluto.
I suoi stivali affondarono in una pozza di fango mentre deviava verso un piccolo molo. Due pontili di roccia sempre vuoti, sporchi di salsedine e inghiottiti dalla solita nebbia che nessun abitante di Thanlos osava sfidare per mare. Il porto era misero e deserto, come lo ricordava, se non per due fasci di luce, che fendevano la nebbia in due lunghe ombre gialle e si proiettavano sulla terra bagnata, luminose come lame di una spada appena lucidata.
Provenivano da due finestre di una larga locanda in mattoni grigi che sovrastava il porto. L'unica macchia di colore era data da nove uccelli azzurri, dalle ampie code variopinte aperte a semicerchio, dipinti sull'insegna di legno nero.
Nove pavoni. Era quello il nome della locanda; il luogo in cui il capitano era diretto.
Avrael si bloccò di colpo, quando oltre la porta massiccia uscì barcollando un grassoccio uomo stempiato. L'alito gli si condensava in nuvolette di vapore davanti alla bocca e puzzava di alcool. Fissò il capitano farfugliando frasi senza senso, per poi cadere rovinosamente a terra e spaccare la bottiglia che teneva tra le mani. Avrael lo scavalcò senza degnarlo di ulteriore sguardo, aveva visto uomini in condizioni ben peggiori.
Sentì scricchiolare le schegge della bottiglia sotto le suole, prima di spingere il battente con il braccio libero. Arricciò il naso e si sentì improvvisamente stanco, come se la fatica del viaggio fino a Thanlos gli fosse crollata tutta addosso proprio in quel momento.
Non era pronto per ciò che stava per compiere. Rabbrividì. Lacrime minacciavano di inumidirgli gli occhi e cercò di calmarsi, chiedendo a sé stesso di essere forte e fedele a quella figura che le leggende avevano plasmato per lui e lo avevano condotto dove non avrebbe mai immaginato di arrivare.
Il tepore che si sprigionava dal focolare sulla parete di fondo lo investì poco dopo, facendogli spuntare un mezzo sorriso tra la folta barba nera, mentre avanzava verso il bancone, ringraziando lo scoppiettio delle fiamme per quell'accoglienza benevola.
Due uomini stavano giocando a dadi sul tavolo in prossimità del fuoco e altri cinque festeggiavano allegramente in un angolo appartato, facendo tintinnare i loro boccali di birra ambrata e ridendo tra di loro per chissà quale motivo.
Solitamente quella locanda era un posto chiassoso e affollato. Il fatto di trovarla quasi vuota turbò Avrael così tanto da chiedersi cosa fosse accaduto dopo le meste notizie che aveva ricevuto circa la morte del vecchio che la gestiva. Si prese un momento per ammirare le novità.
Tutti gli orpelli e i ninnoli di Braen erano misteriosamente spariti e ora le pareti erano assi verticali di legno nudo e vuoto. I quadri dipinti da chissà quale autore erano scomparsi, tripudi di occhi e volti sconosciuti che sembravano osservare ogni tuo movimento. Non c'erano più le mensole sovrastate da statuine di draghi dalle sfumature di ogni colore e razza, né cordicelle che trattenevano piume di uccelli che pendevano dai candelabri del soffitto, né improbabili incisioni di dorate rune magiche a decorare il centro di ogni tavolo.
Forse la nuova proprietaria aveva venduto tutto. Già, ma per quale motivo?
Quel posto sembrava ancora in lutto.
Avrael pensò che adesso quel luogo era decisamente meno accogliente, come se fosse stato spogliato di un marchio che lo identificava, una vecchia cicatrice di guerra, ma anche meno pacchiano, più essenziale. Semplice, come piaceva a lui.
Adagiò il gomito sul tavolo e batté il pugno due volte per richiamare l'attenzione della donna che aveva preso le redini della baracca.
Lei comparve dal retrobottega, scostando una tendina di perle bianche e per poco non le cadde il vassoio di mano quando i suoi occhi color miele incrociarono la figura del capitano.
«Avrael». Il nome le sfuggì dalle labbra sottili e stupite; soltanto a lei aveva concesso di sapere come realmente si chiamava. Tutti gli altri lo conoscevano semplicemente come "Il capitano", compresi gli uomini che in qualche occasione gli avevano salvato la vita, tirandolo fuori dai guai. «Ti trovo invecchiato» disse posando il vassoio sul ripiano fra di loro; contorse le dita in un pugno per evitare che le tremassero le mani.
«Attenta a cosa dici, Fenycia» finse di rimproverarla, aggiustandosi la falda del cappello sul volto per nasconderle un sorriso amaro. «Vanno male gli affari da quando il vecchio Braen è morto?» s'informò, cercando di assumere un tono di voce premuroso che tanto stonava col suo volto carico di cicatrici e il suo sguardo cupo.
Fenycia non rispose, fece spallucce e gli chiese: «Perché sei qui?».
Quella domanda gli provocò un altro sorriso. Lei era sempre stata curiosa ed era anche l'unica abitante di Thanlos a fare domande, a immischiarsi negli affari degli altri. Ma dopotutto lei non era nata lì. Avrael l'aveva salvata da una goletta che smerciava schiavi, quando era soltanto una bambina e poi aveva deciso di lasciarla a Thanlos con un vecchio che possedeva una locanda rinomata, per quanto si potesse definire tale; visto che ben pochi stranieri avevano dormito nelle sue stanze, ma molti più avventori si ritrovavano lì per scambiare merci oscure e prestigiose. Merci fuori legge perlopiù.
Ogni volta che la guardava ad Avrael veniva in mente quella bambina dalla pelle scura e dai lunghi riccioli neri, con la mano grande quanto il suo pollice, fragile e spaventata, così diversa dalla donna che si trovava di fronte ora.
La pelle era più chiara, le forme gentili, l'aria sicura, ma nei suoi occhi notava sempre quella scintilla vispa che gli ricordava la bimba pestifera che aveva viaggiato sulla sua nave.
«Ho bisogno di un favore» le rispose: «E so che mi posso fidare di te».
La donna annuì. «Vuoi parlarne qui» indicò uno degli sgabelli accanto al bancone: «O in privato?».
«Dove nessuno ci possa sentire» sussurrò il capitano.
Fenycia gli fece strada oltre la tenda, nel piccolo retrobottega, chiedendosi sempre più perplessa quale favore volesse da lei. Avrael era sempre stato un uomo orgoglioso fino al midollo, che non chiedeva mai nulla a nessuno. Eppure ora era qui a cercare aiuto proprio da lei.
Si chiese se riguardasse la possibile fasciatura che aveva al braccio, dal momento che lo teneva ripiegato dentro al cappotto. Forse si era fatto male in qualche sua dannata caccia a tesori sperduti, o qualche nemico lo aveva ferito in battaglia, o peggio ancora, lo aveva perduto. Forse, questa volta, si era davvero rotto un osso. Avrael intanto si accomodava con studiata lentezza su uno dei tanti barili di rum sparsi qua e là per la stanza.
Fenycia pensò che fosse una sorta di piccola vendetta. Una ripicca per il suo silenzio su Braen, ma non aveva alcuna voglia di parlare del vecchio che l'aveva cresciuta. Si sentiva elettrizzata.
Avrael era tornato per lei. In quel momento avrebbe voluto aprire una bottiglia nuova, una di quelle che Braen amava tener chiuse nell'angolo segreto della cantina e festeggiare con Avrael, mentre lui le raccontava le sue ultime avventure per mare, dove era stato e che cosa aveva passato in quegli anni in cui lei era diventata una donna ed era cresciuta sperando che tornasse a prenderla.
«Allora?» lo incalzò altezzosa, incrociando le braccia davanti la scollatura del pesante abito blu.
Avrael sbuffò, non amava chi gli si rivolgeva in questo tono, ma a lei lo lasciava fare, perché se l'era presa a cuore quella bambina spaventata e senza famiglia. Vederla così cresciuta gli aveva provocato un nodo alla gola; non aveva mai tenuto a nessuno, non quanto teneva a lei. Per questo motivo era certo che fosse la persona più adatta per il compito che le stava per affidare.
«Si tratta di questo». Aprì il cappotto e tirò fuori dalle pieghe un uovo di diverse tonalità di verde, grande quanto il suo avambraccio. Si aiutò con la mano sinistra a reggerlo e lo fece ammirare alla donna. Spirali colorate sembravano vorticare e inseguirsi come onde in burrasca sulla sua superficie, animate da un alito invisibile. Non era un uovo comune. Era un uovo magico.
«Un uovo di drago?» domandò Fenycia, faticando a trovare le parole per l'emozione: «A chi l'hai rubato?».
«A nessuno. È mio e poi non si tratta di un uovo di drago».
«A me sembra di sì. Cosa sarebbe altrimenti?».
«Non lo so. Ma ho come la sensazione che sia importante» le spiegò spiccio, rigirandosi l'uovo tra le mani: «Vorrei che lo tenessi in custodia per me, Fenn».
La donna gli regalò uno sguardo preoccupato, di disappunto e si arricciò un morbido boccolo nero all'indice.
«Non ti metterei mai in pericolo, lo sai» continuò serio, allacciando il suo sguardo per una frazione di secondo. «Ho bisogno che qualcuno si prenda cura di lui. Non posso tenerlo con me sul Flagello Rosso, sarebbe troppo...» sembrò leggere quella frase direttamente sulle assi del pavimento «Troppo rischioso».
Le porse l'uovo e Fenycia fu tentata di allungare le mani verso quell'ovale liscio e brillante. Ma si trattenne e spostò lo sguardo sulla cera che colava dal candelabro posato sul tavolino poco lontano e poi sulla tinozza colma di stoviglie sporche. Ovunque, pur di non guardare quel dono che l'attirava, ma le faceva anche venire i brividi.
La magia era proibita in quel regno e Avrael lo sapeva fin troppo bene.
«Lo farai per me?».
«Sei sleale, sai che non ti direi mai di no. Ma se dentro ci fosse un mostro marino?».
«Nessun mostro, te lo prometto». Il capitano le sorrise e lei capì che le stava nascondendo qualcosa. Si alzò dal barile, raggiungendola di fronte agli scaffali della dispensa e le avvicinò l'uovo, porgendoglielo come un uomo in procinto di regalare un mazzo di fiori alla sua amata.
Fenycia lo toccò con mani tremanti e sotto la superficie percepì un lieve movimento; qualcosa galleggiasse al suo interno. Strinse gli occhi e mormorò una lunga preghiera tra sé e sé e poi lo prese, traendoselo in grembo.
«Pesa» constatò, mentre Avrael infilava il braccio destro nella manica del cappotto. Stava per domandargli nuovamente che cosa contenesse, sperando che la smettesse di fare tanto il misterioso, ma lui le sussurrò dolcemente all'orecchio: «Ti devo un favore, mia cara».
Il suo odore di sale le pizzicò le narici, ricordandole i giorni trascorsi sul suo vascello.
«No, hai un debito» lo prese in giro la donna, facendolo ridacchiare. Dopotutto era lei quella che aveva ancora un debito da saldare nei suoi confronti, per averle restituito la libertà.
«So che te ne occuperai con amore e non dovrò preoccuparmi» continuò: «Hai tutta la mia fiducia e la mia stima, Fenn».
«Sempre se non mi mangerà per colazione, mio capitano, così la tua stima non mi servirà a nulla. E in quel caso credo che il mio spettro ti perseguiterà in eterno».
Avrael le si avvicinò come se volesse abbracciarla, ma si ricordò dell'uovo che stringeva a sé e non si mosse. Lasciò scivolare le mani nelle tasche; la sinistra era bucata.
«Ti consiglio di non buttare via il guscio» le disse come ultime istruzioni, facendole l'occhiolino prima di salutarla frettolosamente, in modo tale da evitare qualsiasi ulteriore domanda.
Quando andò via, Fenycia si affrettò a chiudere la locanda e preparò un nido di stracci e morbide coperte dove depositò l'uovo al sicuro, accanto alla sua stanza da letto. Si chiese quando il suo capitano sarebbe tornato a riprenderselo. Anche se era certa che probabilmente lo avrebbe rivisto quando la sua crespa barba sarebbe diventata completamente grigia.
Si maledì per non averlo trattenuto. Avrebbe potuto inventare una scusa o semplicemente chiedergli di fermarsi per stare con lei. Soltanto qualche giorno. Si sentiva così sola da quando era morto Braen e non aveva per nulla una buona sensazione riguardo quell'uovo; le era sembrato che Avrael avesse fretta di disfarsene. Spiacevoli presagi le si annidavano nello stomaco e quando l'uovo cominciò a tremare decise di chiudere la locanda per tenerlo sotto stretta sorveglianza. In caso ne fosse fuoriuscito veramente un drago o un mostro marino.
Per sua fortuna nessuno a Thanlos faceva domande, così nessuno si stupì più di tanto, quando una decina di giorni dopo, l'uovo si schiuse e Fenycia si ritrovò con al collo un prezioso monile di smeraldi, da cui non si separava mai, e madre di un bambino che non le somigliava per nulla.
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