Capitolo 27

La maschera di Armand era fatta di un tessuto particolare, non era magico come la sua chiave che apriva tutte le porte, ma era un manufatto molto fine e accurato da poterlo sembrare. L'aveva rubata a un viaggiatore, anni fa, non ricordava più esattamente quanti, tanto che gli sembrava di possederla da una vita.

Lo chiamavano il Cambiavolto. Era un vecchio girovago che fabbricava maschere, alcune decorative, altre molto sottili e simili alla pelle umana, come quella. A quanto ne sapeva erano anni che l'artigiano non tornava a visitare la valle degli Acquitrini, e poteva anche aver tirato le cuoia. Aveva scelto quel volto tra altre dozzine che il vecchio teneva nascoste in un baule nel suo carro ambulante. Si vociferava che le creasse su commissione per vecchi soldati che volevano nascondere cicatrici di guerra. 

Il colore dell'incarnato era simile a quello della pelle di Armand, compresi i peli che formavo le sopracciglia, ma a differenza del suo volto aveva una macchia più scura sulla guancia e numerose lentiggini disegnate con abile mano sul naso e sotto gli occhi.

L'appiccicò con le dita premendo sui bordi, facendola aderire bene attorno agli occhi, e poi ne nascose le attaccature facendo scendere un morbido ciuffo di capelli sulla fronte. Era adatta per nascondersi e per arginare quella sensazione di pericolo che gli si insinuava nelle vene. Quel brutto groviglio alle viscere, che dallo stomaco correva nel suo sangue e gli faceva soppesare ogni passo come fosse in bilico tra la vita e la morte.

Detestava sentirsi così coinvolto. Eppure aveva passato di peggio, molto peggio.

Ricordò il pestaggio che aveva subito dai soldati di Rena, quando lo avevano catturato per colpa di quella ragazza. Se non le avesse fatto la corte, se non si fosse lasciato fregare come un allocco, se non le avesse detto che quell'anello lo aveva rubato soltanto per lei, adesso non si sarebbe nemmeno ritrovato in quel caos pazzesco.

Si diede due leggere pacche sulle guance come per svegliarsi. 

Quel viso lo aveva soprannominato Malveus, ed era così che si presentava agli altri quando lo indossava. Era un guerriero di un racconto che aveva letto da bambino, un valoroso ammazzadraghi che diventava ricco dopo aver salvato una principessa di un regno esotico.

Lo usava soltanto quando si sentiva perduto. Quando la paura superava l'adrenalina; come ora, mentre passeggiava fingendo noncuranza, per una stradina polverosa della città.

Gli piaceva essere se stesso, rischiare restando se stesso, altrimenti il suo orgoglio lo faceva sentire un vigliacco, ma adesso si sentiva confuso. 

Vigliacco... Era così che gli strozzini avevano chiamato suo fratello. Armand non voleva essere come lui, non voleva scappare come lui, ma aveva imparato che scappare ogni tanto è necessario. Lasciarsi qualcosa alle spalle significava non trovarselo addosso il giorno successivo.

Non voleva finire nei guai come Aisling e Rian. Andava bene essere un ladro dei bassifondi, ma un ribelle, un rivoltoso... Quello era tutto un altro paio di maniche. Non era pronto, o meglio, non voleva ritrovarsi a far il soldato e immischiarsi in faccende politiche.

In guerra il rischio di morire era molto più elevato.

Aveva sempre pensato che sarebbe morto di vecchiaia nel suo letto, ma una volta che si era ritrovato solo la sua prospettiva era cambiata e aveva iniziato ad aver paura di morire con il collo squarciato da un coltello.

Da quando aveva notato quanto fossero gravi i crimini che tutti imputavano ai suoi compagni di viaggio, nella sua mente si era formata una sola soluzione: abbandonarli. Lo avrebbe fatto e poi se ne sarebbe tornato a casa, se ne sarebbe stato buono per un po', finché le acque si fossero calmate.

Era allentante il pensiero di salire su quella nave, poter mettere le mani sui preziosi tesori che trasportavano verso l'altro continente, ma una volta in mare non sarebbe potuto scappare da nessuna parte con la sua refurtiva. Si sarebbe rivelata soltanto un'ennesima perdita di tempo, come lo era stata chiedere aiuto a quei due girovaghi che lo avevano coinvolto in qualcosa più grande di lui.

Vide una taverna e s'infilò nell'uscio, subito dietro un avventore dalle spalle grosse, per cercare di distrarsi dalla paura che accendeva i suoi sensi.

Non voleva parlare con nessuno al di fuori del rubicondo oste e ordinarsi una pinta di birra, eppure quando due amici barbuti lo invitarono ad unirsi a loro per una partita di Sfida non rifiutò.

«Khonnor portaci dell'altro fuoco liquido!». L'uomo seduto di fronte a lui sbatté un pugno sul tavolo rovinato da diverse scheggiature.

Le carte e le monete sparse al centro del tavolo tremarono e un ragazzo lungo e dritto come un fuso lasciò in parte al gruzzolo di rame altri tre bicchieri colmi di una bevanda rossa. Stava giusto per metterne un altro al fianco destro di Armand, quando lui alzò la mano e gli fece cenno che non ne voleva più.

«Andiamo straniero!» lo incitò l'uomo che aveva chiesto da bere: «Offro io, dato che stai perdendo».

Khonnor fece scattare gli occhi castani dall'uomo corpulento ad Armand, chiedendosi cosa dovesse fare, poi posò anche quel bicchiere e raccolse quelli vuoti.

L'uomo ridacchiò e l'amico sbuffò, come se quella non fosse nient'altro che una danza che avevano già ballato milioni di volte.

Armand rimase tranquillo e tornò a concentrarsi sulle carte che teneva fra le mani. Tre rappresentavano una corona, mentre la quarta un asino.

«Non ci hai detto nulla sul tuo tatuaggio» cercò di deconcentrarlo l'uomo alla sua destra, quello con la barba lunga raccolta in tre codini.

Per un attimo soltanto Armand pensò che gli stesse chiedendo del serpente che aveva nascosto sotto la manica. I suoi occhi andarono in quel punto, nell'incavo del gomito. Il serpente, il simbolo del peccato. Scosse la testa e si ricordò della maschera, della macchia scura sulla guancia destra. «Questo» rispose, facendo scroccare le ossa del collo: «Si tratta di una voglia, la ho da quando sono nato».

Sentiva le ginocchia formicolare. Da quanto stavano giocando?

«Basta chiacchiere, principesse, volete giocare o parlare?» li ammonì l'uomo dall'altro lato del tavolo rispetto ad Armand; quello che aveva ordinato da bere. 

«Sei il solito triste, Ed. Nessuno ha detto che non si può parlare durante una partita, fare amicizia mi pare lecito, magari lo facciamo tornare per un altro giro».

Edvart si scolò in un lungo sorso il bicchiere di liquore. L'alcool sembrò incendiargli gli occhi neri di un'inquieta e calda scintilla. «Fate così perché io sto vincendo, ma temporeggiare non servirà». Sogghignò. Aveva un dente storto. «Avanti straniero» ripeté come se stesse aspettando che Armand lo infilzasse con una lancia.

«Tocca a te, Mal» l'amico di Ed alzò il bicchiere verso Armand che raccolse i quattro dadi sparpagliati per il tavolo.

Li scuoté nella mano destra e chiuse gli occhi sperando in un tiro fortunato. Aveva tre carte uguali, quindi tre dadi dovevano fare lo stesso numero. Quello era l'ultimo giro, l'ultimo tiro. Le carte erano finite. Se i dadi lo avessero ascoltato avrebbe battuto Edvart e si sarebbe preso tutta la vincita.

Soffiò fuori l'aria che stava trattenendo e lasciò cadere i dadi. Era un tiro difficile.

Il primo si fermò sul numero uno.

Gli altri due sul cinque.

Il quarto rimbalzò e finì a terra.

Armand si ritrovò a pregare gli Dei perché uscisse un altro cinque.

Non voleva chinarsi a guardare. Aspettò che l'uomo con la barba legata in codini finisse di ridere di gusto, ma non seppe giudicare se lo stesse schernendo o se fosse soltanto divertito dalla situazione.

Il Ladro aprì gli occhi e guardò il dado che si era fermato accanto alla gamba del suo sgabello. Era un cinque. 

Si trattenne dall'esultare e mostrò le carte che aveva in mano con soddisfazione. Tre corone. Tre rombi raccolti in gruppi di cinque. Aveva vinto, dato che nessuno aveva fatto un tiro buono nell'ultimo giro. Non contava che l'uomo di fronte a lui avesse radunato più monete degli altri accanto al suo bicchiere. L'ultimo tiro del gioco era quello che poteva cambiare le sorti. Quello che poteva rovinarti oppure farti diventare un uomo più felice.

Edvart sbatté un altro pugno sul tavolo e questa volta il rimbombo attirò gli sguardi degli altri avventori più vicini al loro tavolo.

Armand sorrise appena e alzò il bicchiere per brindare. Il liquore gli bruciò prima le labbra e poi la gola, correndo giù verso lo stomaco.

«Non è possibile, hai barato!» Edvart protestò incollerito. Le guance arrossate come il liquore. In una mano stava stropicciando l'asso della strega e del rospo.

«Ed, dai, è la fortuna del principiante» intervenne l'altro giocatore.

«Principiante un corno, è impossibile fare un tiro del genere! Lo hai visto anche tu, Orin?» inveì agitando le mani verso l'amico. «Non ha vinto proprio un bel niente».

Si alzò e le gambe dello sgabello si trascinarono sulla pietra, mentre l'uomo cadeva a terra con un tonfo.

«Hai alzato un po' il gomito, eh?» lo rabbonì il suo amico, alzandosi a sua volta per aiutarlo, ma Edvart si rimise in piedi con uno scatto.

Sembrava pronto a ribaltare anche il tavolo pur di non far prendere ad Armand i suoi soldi, e pensare che non glieli aveva nemmeno tolti di tasca con l'inganno.

L'oste mandò il ragazzo a tentare di calmare gli animi con altri bicchieri pieni e schiumosi, ma Edvart gli prese il vassoio dalle mani e lo buttò a terra, bagnando il pavimento e riducendo i boccali in pezzi.

Il rumore del vetro che si infrangeva costrinse gli uomini seduti lì accanto ad alzarsi dalle sedie e protestare per la quiete che era stata appena rovinata dalla furia di Edvart.

«Signore, temo che dovrà pagare il danno» proruppe il ragazzo, chinandosi a raccogliere le schegge più grosse.

«Ancora bevi il latte di tua madre» lo apostrofò Edvart: «Che cos'è che vorresti da me?».

L'uomo si chinò accanto a lui e lo sollevò di peso per il colletto della camicia. L'oste sbadigliò pigramente da dietro il bancone, come se fosse avvezzo a certe scene, e disse qualcosa a denti stretti molto simile a una minaccia.

Armand approfittò della confusione per alzarsi silenziosamente dallo sgabello, allungarsi sul tavolo e avvicinarsi con il braccio la vincita. Le monete tintinnarono fra loro mentre finivano nella sua sacca da viaggio, accostata al bordo del ripiano.

L'uomo alla sua destra lo aiutò a riempire la borsa facendogli un occhiolino. 

«Per una volta ben gli sta» sussurrò soltanto, mentre Edvart continuava a sbraitare contro il povero ragazzo che non sapeva cosa più cosa rispondere.

«Ti conviene andartene prima che Ed se la prenda anche con te» sussurrò ancora, guardandolo negli occhi: «Ed non sa accettare le sconfitte, faresti proprio meglio a dartela a gambe, Malveus».

«Vi ringrazio» lo salutò.

«E fa attenzione, sembra che ci sia un gruppo di malviventi in città, ribelli... Qualcosa del genere».

«Lo farò».

L'uomo gli mise una mano sulla spalla e lo accompagnò alla porta.

Alle loro spalle Edvart si era accorto di loro. «Ehi tu! Sporco truffatore, rivoglio i miei soldi!». 

«Li ho vinti perché sono più in gamba di te» lo rimbeccò da lontano Armand. 

Edvart era furente, aveva bevuto troppo e gli si era arrossato a chiazze anche il collo per il calore dell'alcool. Sembrava che potessero fumargli persino le orecchie da un momento all'altro. 

«Zitto! Vai! Vai! È meglio per te» mormorò ancora l'altro giocatore. 

Armand non se lo fece ripetere una seconda volta e sgattaiolò fuori dalla porta, mentre alcuni avventori si erano alzati per trattenere il massiccio Edvart che stava maledicendo tutti in quella bettola, persino le sedie e i tavoli e le tegole del tetto.

Il Ladro si allontanò in fretta per la stradina osservando il cielo. Il sole era alto sopra i tetti scuri della città portuale. Era ancora giorno eppure gli sembrava di aver passato lì dentro molto più tempo. 

Mentre soppesava la sua vincita un pensiero lo trafisse. Avrebbe potuto aggiungere altre monete alla sua sacca se solo avesse deciso di consegnare i suoi due giovani compagni di viaggio alle autorità, dopotutto la loro presenza non gli serviva più a nulla. 

Il suo sorriso fece increspare anche le labbra finte della maschera. 

Camminò più svelto lontano dalla taverna Spicchio di Luna. Era ormai diventata un puntino in fondo alla strada e le sue orecchie avevano lasciato gli schiamazzi degli ubriachi per riempirsi  della musica di un'artista che suonava il violino da una finestra rimasta aperta. Svoltò in una stradina all'angolo di una lanterna dal vetro rotto, guardandosi attorno in casi fosse comparso qualche soldato. I suoi pensieri continuarono a vagare sul da farsi, e tra loro si fece strada anche il ricordo dell'avvertimento che gli aveva dato quell'albero parlante.

Doveva stare attento, altrimenti avrebbe pagato le sue azioni con la vita.

Scosse la testa e s'insinuò nel dedalo stretto di viuzze che aveva percorso in precedenza. Era uscito per schiarirsi le idee ma era tornato indietro con altri tanti dubbi.

Quando ritornò alla porta della donna che li aveva accolti dopo la fuga, si tolse la maschera e bussò diverse volte prima che venissero ad aprire.

«Oh, è tornato il figliolo errante» lo accolse la ribelle. Lo afferrò con una stretta energica per la manica della camicia e lo tirò all'ombra della sua dimora. Armand non se lo aspettava e barcollò sugli stivali prima di riprendere l'equilibrio.

«O forse dovrei chiamarti testa di rapa. Ti sei fatto seguire?». Controllò il vicolo, prima di richiudersi la porta alle spalle con un solo veloce scatto.

«Io? No...» borbottò: «No... No... Sono stato attento».

«Sei stato uno sciocco, siete dei ricercati e te ne sei andato a...» arricciò la bocca e i suoi occhi scuri si posarono sul sacco gonfio che portava a tracolla: «Te ne sei andato in giro a bighellonare».

«Dove sono Aisling e Rian?» domandò, stringendo la borsa fra le braccia come fosse un bambino.

«Sono al piano di sopra, a riposare» gli rispose la donna, riservandogli un'altra espressione astiosa: «Qualcosa che avresti dovuto fare anche tu».

«Oh ma io non ho bisogno di riposare» le fece un occhiolino.

La donna s'inviperì ancora di più. «Forza» gli indicò con un cenno del capo la porta che solo qualche ora prima aveva provato a scassinare.

Era aperta. 

Si rimise seduta al tavolo a lavorare a maglia come se nulla fosse. Stava cucendo un elaborato ricamo giallo e verde su una tovaglia. Le perline del suo copricapo tintinnarono come le monete di Armand mentre attraversava la stanza. Sbuffò, ma capì che se avesse tentato di rispondere a modo non le avrebbe tenuto testa per molto. 

Quando l'uomo della taverna si era arrabbiato aveva cominciato a sudare, non avrebbe potuto ucciderlo con così tanti spettatori se solo si fosse azzardato a mettergli le mani addosso, e ora aveva due laghi al posto delle ascelle. Il vento salato che si aggirava per le strade aveva contribuito un po' a rinfrescarlo ma avrebbe voluto fare un buon bagno caldo prima di coricarsi.

Salì una piccola scala a chiocciola fino ad una stanza e trovò Aisling e Rian che confabulavano a bassa voce seduti a gambe incrociate su un letto. Erano uno di fronte all'altra, seri come due statue, talmente presi nel loro discorso che non lo avevano nemmeno sentito arrivare.

Tossicchiò per attirare la loro attenzione.

«Hai cambiato colore?» sorrise alla maga che aveva alzato lo sguardo per prima su di lui.

I suoi capelli da rossi erano scuri come la notte, come i suoi occhi.

Appoggiò la sua sacca da viaggio a terra, accanto alle loro. Le monete risuonarono ancora.

Aisling si accigliò. «Dove sei stato?».

«Non ti riguarda» rispose brusco andandosi a sedere su una sedia all'angolo della stanza. Posò la nuca alla parete.

«Quello che fai ci riguarda eccome» sbottò la maga: «Non siamo in una bella posizione, se non te ne sei accorto».

«No, infatti» ridacchiò tra sé e sé. «Per essere una bella posizione lui dovrebbe stare su di te o al massimo tu su di lui, o magari state sperimentando qualcosa che non ho mai visto prima».

Aisling strinse i pugni. «Ora ti permetti di fare anche allusioni? Sei proprio ridicolo».

«Dillo che sei furente perché eri preoccupata per me» sorrise e chiuse gli occhi: «Già ci tieni? Eppure ci conosciamo da pochi giorni».

«Smettila, Armand» s'intromise Rian: «Questo non è il momento di giocare».

«Sì, vero, continuate a inventare i vostri portentosi piani per fare ciò che vi ha detto una stupida radice».

Rian si girò di nuovo verso Aisling, stava per dire qualcosa ma la maga lo zittì con un gesto. «No» allungò il mento in direzione del Ladro: «Lui non vuole metterci al corrente dei suoi piani, allora non saprà nemmeno i nostri. Non mi fido più di lui».

«Tssk. Tolgo il disturbo allora, vado a cercare dove la vecchia megera tiene il bagno».

La sedia scricchiolò mentre si alzava. Uscì dalla stanza con passo lento, ma senza degnare di un ulteriore occhiata quei due.

Dietro le spesse tende che oscuravano il vetro di una finestra un raggio di luce sollevava e faceva roteare la polvere dal legno. Una porta alla fine del corridoio sembrò chiamarlo. La aprì e trovò una piccola vasca di ottone e un secchio già colmo di acqua ai piedi delle zampe a forma ramo. Increspò con un dito la superficie dell'acqua. Era gelida, ma poco gli importava.

Cominciò con il togliersi i numerosi pugnali che portava nascosti addosso. Cinque piccole lame da cui non si sarebbe mai separato. A malincuore aveva lasciato andare quella che aveva usato per fermare la guardia sulla strada.

Versò l'acqua nella tinozza e dopo essersi spogliato ci si accucciò all'interno.

Sarebbe stato rischioso fare la spia e consegnare Aisling e Rian alla legge, avrebbero potuto tradirlo proprio come aveva pensato di fare lui.

Sospirò. Li avrebbe abbandonati e basta, se ne sarebbe andato prima che la situazione fosse diventata troppo pericolosa. Non erano tutte d'oro le monete che aveva vinto, ma gli sarebbero bastate per il viaggio di ritorno a Danhara.

Raccolse dell'acqua tra le dita e si lavò il viso, togliendosi i residui di colla trasparente della maschera. Rabbrividì per il tocco freddo del metallo sulla schiena. 

Slegò la chiave magica al suo braccio, soltanto per rifare meglio il nodo.

Pensò al libro, quello che era davvero magico, come la sua chiave, quello che li aveva condotti laggiù, in quel porto di gente fuori di testa; alla pagina che se strappata portava in un luogo oltre le Montagne Brune. Aisling lo aveva riposto nella sua sacca da viaggio. Magari avrebbe potuto rivenderlo a qualche mercato nero lungo la strada.

Aveva sentito parlare di due mercati all'ombra delle chiome di Bosco Spezzato.

Si rilassò. Doveva soltanto aspettare il calare della notte e che la cartomante smettesse di controllare la porta.

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