Capitolo 20

Aisling non si era resa conto di essersi appisolata nella vasca, finché qualcuno aveva bussato alla porta. Il primo colpo era stato intenso, il legno aveva emesso un gemito scricchiolante, come se chi stesse dall'altro lato della porta non riuscisse a controllare bene la sua forza. 

La maga spalancò gli occhi con uno scatto, tesa da quel rumore improvviso e il respiro accelerato. Cercò di sollevarsi, ma scivolò sul fondo della vasca, provocando alte onde che fecero fuoriuscire flutti d'acqua dal bordo, macchiando le travi del pavimento. Ma poi i colpi si arrestarono e la raggiunse la voce familiare di Rian: «Aisling, sei ancora viva?». 

Mise a fuoco il bagliore di luce arancione dietro gli scuri della finestra e poi abbassò lo sguardo sulla pelle rugosa delle sue mani. Quante ore aveva dormito a mollo lì dentro? 

Si sentiva il collo indolenzito per averlo tenuto premuto contro il bordo rigido della vasca. 

«Sì. Sì, sto bene» bofonchiò in riposta, abbastanza forte da permettere a Rian di sentirla. La sua voce era ancora impastata dal torpore del sonno. Strinse le mani sui bordi della vasca e si issò fuori, mentre l'acqua le scorreva sul corpo, come una carezza, attratta dalla forza di gravità. 

«Ti serve qualcosa per asciugarti?» le domandò Rian, con voce rilassata, attutita dal legno. 

Solo allora si rese conto di non averci pensato. Era stata troppo scossa dal patto con quel ladro. Aveva ancora il timore che ci fosse un inghippo dietro l'angolo e che la stesse aspettando per assestarle un colpo mirato dietro le ginocchia e farla inciampare. Non si sentiva per nulla ottimista a coinvolgere un'altra persona nel viaggio; nonostante fosse anche lui un ricercato come loro, riusciva a vedere Armand soltanto come una testa in più da proteggere e tenere al sicuro.

«Grazie. Faccio da sola» rispose, richiamando il vento dall'esile spazio aperto sulla finestra, chiedendogli di asciugarla. Il sibilo del suo incantesimo coprì la risposta di Rian.

Si chinò a raccogliere i suoi vestiti, abbandonati sul pavimento. Li annusò e un'espressione di disgusto le si dipinse sul viso; prima di indossarli di nuovo li lavò nell'acqua dove aveva fatto il bagno.

Doveva ammettere che, ad eccezione del collo indolenzito, si sentiva meglio. L'energia che aveva consumato per il rituale dell'albero sembrava essersi completamente ripristinata.

Rian era ancora accomodato alla poltrona di velluto, come se non si fosse mai mosso da lì. Stava riempiendo una sacca da viaggio con del cibo accuratamente avvolto in alcune stoffe.

Aisling si stropicciò gli occhi, tornando nell'altra stanza; notò quanto profumasse di carta e la sua attenzione si abbassò sui libri abbandonati. Si chiese se quel giovane li avesse davvero letti, oppure li collezionasse e basta. Aveva trovato diversi volumi riguardanti la cura dei giardini, uno di antiche leggende, un altro ancora di ricette e uno, il suo viso arrossì ancora mentre ricordava il titolo che aveva sfiorato con le dita, parlava di svariate posizioni da assumere per amarsi. 

«Mi dispiace... Mi sono addormentata e...» cominciò a scusarsi, sgranchendosi il collo a destra e a sinistra.

«Non serve che ti scusi. Te lo avevo detto che avevi bisogno di riposare» le rispose il ragazzo, senza alzare lo sguardo dal sacco che stava preparando.

La maga continuò a scandagliare la stanza. Mancava qualcuno. «Dov'è finito Armand?».

«È uscito. Ha detto che ci sarebbero serviti dei cavalli e sapeva come procurarseli. Vuole che lo aspettiamo qui». 

«Spero che non si cacci nei guai». 

«Dubito che una persona del genere sia capace di stare lontana dai guai». Rian schioccò la lingua, alzò i suoi occhi chiari in quelli della maga e indicò un vassoio sul tavolino: «Ha lasciato questi per tenerci compagnia ma mi ha anche minacciato di non finirli tutti». 

«Che cosa sono?» chiese Aisling, avvicinandosi al mobile per afferrare tra le dita uno dei dischi posati sul vassoio. Erano piccoli cerchi di farina cotta e bianca,  con una spolverata di zucchero sopra. 

«Oh, non ne ho idea, li ha chiamati coroncine, ma sono buonissimi». 

In effetti i granelli di zucchero assomigliavamo molto a piccole gemme incastonate in una corona.

La maga si portò il dolce sotto al naso e ne inspirò l'aroma di grano e cannella. Le venne in mente un mercato sovrastato dal gorgoglio di cascate, accenti strani, musiche di preghiera in sottofondo, e Antartide che masticava un disco simile con qualche briciola rimasta impigliata in un'appena nata barba scura, che lo invecchiava ma, lei lo aveva sempre pensato, gli donava anche un aspetto burbero da guerriero di favole e leggende. «Credo di averne già visti a Selin, una volta. Però non li ho mai assaggiati» pensò a voce alta. Ne morse un pezzo e quel sapore dolce le invase la bocca, cullandola. Non erano solo buoni, ma sorprendenti. 

«Mi stavo chiedendo come mai conosci questi posti se mi hai rivelato che  potete uscire dal vostro regno solo per la tradizione dei compleanni dei principi» le disse Rian a bruciapelo, senza staccare gli occhi da lei.

Aisling continuò a masticare, meditando fin dove poteva spingersi, che cosa poteva davvero rivelargli senza evitare di procurarsi altri marchi del tradimento. Gli aveva parlato della magia, ma quello che adesso voleva sapere era qualcosa di più pericoloso. Qualcosa per cui aveva già mostrato interesse, ma che lei era riuscita a sviare. 

La mano libera le si richiuse in un pugno. Sospirò: «Io e Antartide trasgredivamo le regole. Siamo cresciuti insieme e abbiamo sempre pensato che ci fossero troppe restrizioni nelle leggi del regno. A volte ci addentravamo fino a Selin, la città dei templi sull'acqua... Molte nozioni sui regni confinanti ci vengono insegnate, sono tramandate dai capi dei vari villaggi. Dobbiamo conoscere quello che ci circonda senza sapere se avremo mai la possibilità di vederlo. Non è stato semplice...».

Si interruppe bruscamente e Rian pensò che poteva capirla; anche lui aveva pensato di trovarsi nella stessa situazione, fin quando Grifar lo aveva spinto fuori dal muro che governava i suoi incubi. Aisling riprese a raccontare, con lo sguardo fisso sul biscotto che aveva morso: «A nessuno, a parte gli ambasciatori più vicini al sovrano e rare eccezioni, viene permesso di uscire dal regno più di una volta nella vita. Trovo che sia qualcosa di così assurdo ma ci viene detto che è per la nostra sicurezza, per salvaguardare la nostra specie». 

«Da come ne parli sembra che voi maghi siate in moltissimi» disse il ragazzo sempre più incuriosito.

«Gwarak è diviso in villaggi in base alla magia con cui ognuno dimostra di avere affinità. Quelli più grandi sono il mio del vento e poi ci sono quello dell'acqua che è costruito nelle falde di un lago di montagna e quello del fuoco. Quelli con i poteri più rari invece vivono a palazzo». 

«E c'è qualcuno che non possiede magia?». 

«No. Nessun straniero vi può entrare» dopo aver pronunciato quelle parole le sembrò di sentire un pizzicore alla mano sinistra. Sollevò le dita ma sul suo palmo c'erano ancora soltanto tre segni. Ricordò la fitta di dolore che aveva provato al castello, la stessa scarica di sofferenza che si prova quando un pugnale ti trapassa il fegato. Fece un respiro profondo, come se si stesse trattenendo da chiedere al vento di schermare quella vecchia casa da qualsiasi udito e fu la paura a farla continuare: «Mi stai facendo troppe domande, ci è proibito parlare delle leggi e dei segreti del regno. Io l'ho fatto perché mi fido di te ma non credo di poter proseguire oltre». 

«Ma a te piace trasgredire le regole» la provocò Rian con un sorrisetto incoraggiante, non capendo la gravità di quelle parole.

«E a te piace soccorrere fanciulle in pericolo» gli rispose lei, cercando di stare al gioco, ma riuscì a mostrargli soltanto un sorriso dall'aria tirata. Si voltò per dargli le spalle e considerare chiusa la questione. In pochi passi raggiunse la finestra per osservare il panorama oltre la filigrana bluastra del tessuto della tenda.

«Perdonami se sono stato invadente, ma al mio villaggio tutti credono che Gwarak sia una leggenda malvagia e ancora mi sto abituando a te, a tutto questo» si scusò Rian, appoggiando le mani sulle ginocchia. 

«Per certi versi forse è meglio così. Antartide era convinto che le leggi nascondessero qualcosa di terribile, ma nessuno oserà mai ribellarsi ai metodi del sovrano. A volte penso che sia l'uomo più potente e più longevo mai esistito su questa terra» sussurrò debolmente, prima di addentare un altro pezzo di biscotto che teneva ancora fra le dita. Forse erano stati soltanto colpi di fortuna i viaggi che era riuscita a fare con Antartide in passato. Non erano mai stati scoperti, non avevano mai ricevuto qualche punizione, ma non si erano nemmeno mai spinti troppo lontano in ogni caso. Era sempre stato meglio non rischiare e in quel momento, con quei segni sulla pelle, sapeva che il suo sovrano non andava sfidato. 

Fu Rian a interrompere quel silenzio. Aveva messo da parte la sacca da viaggio per prendere un biscotto. «Secondo te possiamo fidarci di lui? Di Armand?». 

«Non ne ho idea, ma credo che sia la nostra unica via di fuga. Per ora mi sembra molto collaborativo e non ci ha offerto cibo avvelenato» rispose lei, abbassando lo sguardo sulle briciole che le erano rimaste sul palmo della mano.

Armand scivolò leggero e veloce come un'ombra nel rosso del tramonto. Si appiattì contro il muro come una lucertola e strisciò fino al retro dietro la grande casa.

Se c'erano persone che non gli erano mai piaciute nella parte benestante di Danhara erano i membri della famiglia Marchent. Sopratutto i due figli maggiori non riusciva proprio a sopportarli da quando lo avevano preso per i fondelli, quando la sua famiglia non era ancora caduta in rovina. Era stato spesso accanto a quel muro, ma non si era mai introdotto in quella casa ricca e decorata, che profumava di arrosto e risate felici, e di tipiche persone che giravano con la puzza sotto al naso, guardando tutti dall'alto in basso solo perché imparentati alla lontana con la stirpe reale. Stava soltanto aspettando il momento giusto e quello era il suo momento.

Rubare per vendicarsi aveva un sapore diverso dal semplice rubare. Portare via a Lengus e Percevan i loro cavalli preferiti non sarebbe stata una vera vendetta, soltanto una piccola goccia. Ma sua madre gli aveva sempre detto che servono tante piccole gocce per creare il mare, quindi Armand non aveva nessuna fretta e per ora due cavalli potevano bastare.

Avrebbe colpito piano, lentamente, li avrebbe fregati sotto al loro stesso naso, facendo pagare anni di insulti verso di lui e il malsano vizio di suo fratello.

Un lungo brivido di eccitazione gli corse lungo la spina dorsale. Trattenne il respiro come uno spettro. A quell'ora erano tutti radunati a cenare e lui lo sapeva; un tempo quello era stato il suo quartiere, le strade in cui si era sbucciato le ginocchia e dove aveva dato il suo primo bacio. 

Nelle stalle non c'era più nessuno e la servitù aspettava di ricevere gli avanzi della cena nelle cucine. Era tutto così facile, fin troppo facile.

Il Miraggio di Polvere si staccò dal muro e s'introdusse nel piccolo cortile di pietra; la porta dell'edificio dal tetto spiovente, staccato dal resto della dimora, era addirittura rimasta aperta.

Si mise a correre, si nascose nell'ombra del piccolo pozzo al centro del cortile per controllare che nessuno fosse affacciato alle finestre, e si fermò soltanto quando ebbe varcato la soglia del fienile. L'odore di sterco e di fieno gli insinuò fin dentro la gola, mentre con gli occhi vagava verso gli scomparti in cui i cavalli stavano riposando. Ne avevano sei, uno per il capofamiglia e gli altri cinque per i figli. Armand sapeva esattamente quali erano quelli che voleva e li riconobbe subito.

Un possente ercain color ebano di Lengus e un vainnax bianco con la criniera grigia di Percevan.

I cavalli lo osservarono in silenzio, distanziandosi dai bordi dei loro recinti, notando la presenza di uno sconosciuto.

Il puledro di Shilin, la figlia minore, spinse coraggioso il muso fuori dal suo riquadro di staccionata, come se volesse dargli il benvenuto o si aspettasse di ricevere del cibo. 

Doveva sellarli e portarli via velocemente. Si maledisse per non aver un paio di selle nella sua collezione, ma si promise che tutto sarebbe andato per il verso giusto, come sempre. Sfiorò la chiave legata al suo avambraccio; quel magico artefatto che gli aveva regalato una delle tante donne con cui aveva condiviso il letto, quell'oggetto che lo aveva tirato fuori dai guai quando lo avevano catturato già due volte. Quella donna, di cui non ricordava più il nome, gli aveva detto che sarebbe stato l'unico in grado di vedere il cimelio; era rimasto sorpreso quando la ragazza dai capelli rossi lo aveva notato, ma poi si era ricordato che lei era una maga. Forse anche quella donna che glielo aveva donato lo era.

Le redini erano appese con dei chiodi alla parete adiacente agli steccati e le selle erano sistemate e pulite con cura in una cassapanca.

Urtò con il piede un secchio di latta che traballò e finì a terra, mentre con la sua chiave magica armeggiava alla serratura della staccionata, ma l'impatto della sua caduta fu attutito dal fieno sparso ovunque. Il cavallo di Percevan nitrì piano e lo fissò con i suoi occhi chiari quando Armand gli si avvicinò. Il ragazzo si portò un indice alle labbra, cercando di rassicurarlo. La razza dei vainnax era conosciuta per la sua velocità, erano denominati i cavalli della tempesta. Veloci, ma anche molto mansueti; dopo qualche carezza il destriero si lasciò sellare.

Quello di Lengus sarebbe stato più difficile. Gli ricordava molto Nivey, la cavalla che aveva posseduto prima che suo fratello la vendesse per racimolare denaro da sperperare. L'ercain lo guardava dal fondo della staccionata, accanto a quella del suo compare bianco, con lo sguardo astioso di chi sarebbe lasciato toccare soltanto dal suo padrone.

Se si fosse avvicinato avrebbe avvertito la famiglia che gustava la cena ignara del ladro? O gli avrebbe tirato un calcio con quegli zoccoli scuri e duri che gli avrebbe rotto il naso?

Istintivamente Armand si percorse il naso con due dita, come se ne volesse ricordare la linea perfetta nel caso il cavallo avesse provato a difendersi. Il suo sguardo vagò per la staccionata, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo a calmarlo e si focalizzò su una spazzola setosa, posta in cima a un mucchio di fieno accanto a un palo. Si ricordò che a Nivey piaceva essere spazzolata. Posò la sella e le redini che stringeva in mano e la raccolse. 

L'intenzione burrascosa del cavallo sembrò modificarsi e diventare sempre più accomodante man mano che il ladro si avvicinava cautamente, a passi lenti, spalancando le braccia come se volesse stringerlo a sé. Una volta raggiunto il destriero cominciò a spazzolargli la criniera finché non sentì i suoi muscoli rilassarsi, solo a quel punto si arrischiò a recuperare la sella e le redini per sistemarle sulla schiena e sulla bocca della cavalcatura.

Il ritmo del cuore di Armand stava rallentando, l'ansia gli abbandonava gli arti adesso che il suo furto era quasi riuscito. Sarebbe soltanto dovuto montargli in sella e tenendo l'altro cavallo per le redini, li avrebbe scortati fuori dal cortile di pietra.

«Che cosa stai facendo?».

Una vocina stridula gli fece raddrizzare le spalle. Si voltò di scatto. Il cavallo nero nitrì.

Shilin, una bambina bionda che gli arrivava a malapena al fianco, era sulla soglia della staccionata aperta. Alzò il naso spruzzato di lentiggini verso di lui. Tra le braccia stringeva una bambola di pezza e con gli occhi dello stesso colore castano del manto del suo puledro, lo stava esaminando. Non era impaurita, ma incuriosita.

Armand non la conosceva, lei era nata dopo che la sua famiglia se ne era andata da lì; l'aveva intravista giocare in strada con altri bambini quando faceva visita a quel quartiere, restando nascosto a osservare la nuova famiglia che abitava la sua vecchia casa.

Il ladro tossicchiò per dare un contegno al battito del suo cuore. «Non dovresti essere a tavola con la tua famiglia?».

«Sei il nuovo garzone? Mesta ha detto per tutto il giorno che sei proprio un bel ragazzo, è per questo che Lengus ti ha picchiato, non è vero?».

«Sì.. Sì...» pronunciò Armand, titubante, sfiorandosi il gonfiore violaceo sotto l'occhio. Ricordò con rabbia l'espressione compiaciuta del generale di Rena, quando lo aveva pestato affinché rivelasse dove nascondeva le sue refurtive e un ghigno amaro gli incurvò le labbra.

«Allora anche tu dovresti essere a cenare con il resto della servitù» osservò acuta l'ultima figlia dei Marchent: «Io volevo soltanto dare del cibo a Flare». Si avvicinò alla staccionata dove il suo puledro li stava guardando entrambi.

«Penso che lo abbiano già fatto» rifletté Armand, cercando un modo per levarsela di torno e scappare.

«Ma non gli danno le carote!» protestò la bambina, tirando fuori l'ortaggio arancione dalla tasca del vestitino a fiori rossi: «A Flare piacciono così tanto».

Il cavallo aprì la bocca, rivelando una serie di denti bianchi e afferrò il cibo che gli porgeva la bambina. Armand temette che le potesse staccare via anche quelle piccole dita, ma lei mollò la presa sulla carota appena in tempo e lasciò che il piccolo cavallo la tenesse al suo posto.

«Stavi portando i cavalli dei miei fratelli a fare una passeggiata? Non penso che loro lo sappiano e a Lengus non piacerà» domandò, facendo una piroetta per tornare a guardare il ladro.

Armand sospirò e condusse il cavallo verso l'apertura della staccionata: «Senti, questi due cavalli mi servono e ho bisogno che mantieni questo segreto».

La bambina sorrise e i suoi riccioli si mossero con il suo viso. «Se mi prometti che darai a Flare le carote allora lo farò, così non dovrò farlo io e la mamma non mi sgriderà più se arrivo tardi a cena».

Non poteva credere alle sue orecchie, stava contrattando con una bambina. «Va bene» mentì.

Shilin si avvicinò e gli porse la sua manina, mentre stringeva a sé la sua bambola piegando il gomito. «Visto che non ti conosco devi giurare con il mignolo» disse, allungando il dito verso Armand.

Il ladro alzò gli occhi verso il soffitto, ma strinse il mignolo della bambina con il suo, sperando che non arrivasse nessun altro a interromperlo. «Promesso» rimarcò il concetto. Non sarebbe mai stato in grado di mantenere quella promessa, ma la bambina non lo sapeva e sorrise radiosa.

«Usa la porta che dà sulla strada sul retro, così non ti scopriranno e Lengus non ti farà nero anche l'altro occhio» gli consigliò subito dopo, indicandogli una porta dipinta di marrone che si confondeva con il muro di legno della stalla. Era ben nascosta alla fine della costruzione, tra due alti cumuli di fieno; non l'avrebbe mai notata se non gliela avesse rivelata.

«Grazie» le sorrise Armand, ringraziando anche la sua fortuna sfacciata.

La bambina trottò verso l'ingresso della stalla e gli fece un occhiolino prima di sparire.

Le case del quartiere più ricco e benestante avevano tutte del giardino attorno ed erano circondate da mura, per dividere le intimità delle varie famiglie e per tenerle al sicuro; nessuno lo notò quando uscì dalla porta sul retro che, come gli aveva detto la bambina, conduceva direttamente su una strada.

Nessuno badò a lui, nonostante incontrasse nobili ritardatari che stavano rincasando. Si era cambiato prima di partire e per l'occasione aveva indossato gli abiti migliori che possedeva: una camicia bianca un po' consumata sui polsi e dei pantaloni di cuoio. Poteva passare proprio per un servo che portava dei cavalli ai suoi padroni. 

Tenne lo sguardo accuratamente rivolto verso il basso, per evitare di incrociare lo sguardo di qualcuno che potesse ricordarsi di lui.

Non camminò mai in fretta, per evitare di dare l'impressione che stesse fuggendo; solo quando la città diradò dalla vasta collina su cui era costruita, verso il basso, verso la periferia scura e desolata, si concesse di montare in sella al cavallo nero, tenendo l'altro per le redini, e partì al galoppo verso il suo rifugio. Aveva fatto appena in tempo a raggiungere il muro, che divideva le due parti della città, durante il cambio delle guardie e questo significava che dovevano sbrigarsi se non volevano perdere quello serale alle mura esterne.

«Ne hai presi soltanto due?» commentò Rian, dopo che Armand li aveva chiamati a gran voce dalla strada. Non si fidava a legare i cavalli a qualche grondaia, sapeva benissimo che i muri lì avevano gli occhi e la gente le mani lunghe.

«Ne ho presi due perché ho soltanto due mani» gli rispose dal basso. Il cacciatore di Thanlos era affacciato alla finestra e lo fissava accigliato. «Scendete! Ho aperto la porta e dobbiamo andare» ordinò ancora, sbraitando.

Non appena Rian ed Aisling furono in strada con le sacche da viaggio colme di viveri, Armand porse loro le redini dei cavalli e si affrettò a chiudere l'uscio della sua dimora con la chiave magica. Nessuno vi sarebbe entrato durante la sua assenza.

«Ci avevi chiusi dentro come due prigionieri?» protestò irritata la maga.

«Come due gentili ospiti, mia principessa» le prese in giro il Ladro: «Andiamo, se non vogliamo perdere il cambio della guardia per scappare».

Avrebbe voluto chiedere alla maga di utilizzare la magia per aiutarli a fuggire, sarebbe stato più facile, ma a quanto pareva la stancava molto visto che era rimasta per ore a dormire nella sua vasca da bagno. Osservò la finestra del suo rifugio, sarebbe piaciuto fare un bagno anche a lui e mangiare dolci per festeggiare il furto, ma non poteva permetterselo in quel momento, altrimenti avrebbero ritardato la partenza.

«Non mi piace il tuo tono da comandante» gli disse la maga.

«Con chi vuoi montare?» le chiese Armand, ignorando la sua protesta, ammiccando verso il cavallo nero che avrebbe tenuto per lui.

La maga gli lasciò le redini e fece un passo verso Rian, che teneva per le briglie il cavallo bianco. «Non posso avere io un cavallo tutto per me?».

«Miei i cavalli, mie le decisioni» le rispose secco il ladro, mentre le sorrideva felice, nonostante quel rifiuto.

Riuscirono a fuggire da Danhara durante il cambio della guardia, con il favore dell'oscurità della notte che calava sulle torce ancora spente che ornavano le mura protettive della cittadella.

Cavalcarono tutta la notte e decisero di spostarsi soltanto con il buio per evitare di incontrare cacciatori nei boschi o viandanti nelle praterie. Finché, al terzo giorno, quando iniziarono a scorgere la foresta di Halor, notarono le tende dei servi, le cataste di legno, il fumo che saliva dalle pire e illuminava le armature dei soldati che difendevano l'accampamento dei taglialegna.

«E adesso?» domandò perplesso Armand. Si strinse sconfortato nel suo mantello, a meno che la maga non avesse un asso nella manica, quella era un'impresa impossibile. Era un ladro abile, ma c'erano troppi occhi laggiù per rubare indisturbati il legno magico.

Erano rimasti ad osservare, nascosti da grandi rocce a poca distanza da quell'immensa foresta dai tronchi verdi, impolverata da un leggero strato di neve. Gli alberi sembravano maestose colonne di diverse sfumature e nonostante i rami fossero stati spogliati dal vento dell'inverno riuscivano a trasudare rigogliosa vita.

Aisling fissava gli alberi con le palpebre socchiuse, come se potesse vederci attraverso. Il suo animo era addolorato per i tronchi mutilati.

«Credo di sapere dove andare» rispose Rian. La sua voce era sicura di sé, i suoi occhi avevano scorto di nuovo quello strano corvo rosso, che aveva visto l'ultima volta quando erano scappati dalla prigione di Rena. Volava in cerchio e tornava indietro per posarsi sulla roccia che faceva loro da scudo, come a indicargli la giusta direzione da seguire, a spronarli ad alzarsi e proseguire finché erano accompagnati dalla luce delle stelle.

Non sapeva se era una buona idea ascoltare il consiglio di un volatile, ma quell'uccello non era intimorito da loro e forse conosceva un passaggio per la foresta.

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