7. Buio nelle Iridi
Bridget
I raggi solari battono sulle mie palpebre, costringendomi a schiuderle. Alzo di poco la testa, ma un lancinante dolore al cranio mi costringe a riposare la nuca sul cuscino.
Aspetto che le fitte si plachino, prima di riaprire gli occhi e di inclinare il collo in avanti, per scrutare l'ambiente.
Dove mi trovo?
Sono distesa su un lettino, uno di quelli che utilizzano i dottori quando ti visitano. A dire il vero, questo posto sembra un vero e proprio studio medico. Un armadietto di metallo ad ante chiuse costeggia una grande scrivania, sulla quale sono sparsi fogli, attrezzi da infermiere e scatole di medicinali. Dall'altro capo della stanza c'è una finestra; attraverso le persiane filtra la luce che mi ha svegliata.
Sollevo piano il busto, venendo comunque trafitta da spasmi che mi paralizzano. A fatica, riesco a mettermi seduta e a riordinare gli eventi di ieri sera: la festa, Henry e Kath, l'Ombra, Emily, l'Accademia... poi, un vuoto.
Devo essere svenuta. Emily ha detto che era colpa dell'Ombra: ricordo vagamente la sua voce che mi giungeva confusamente alle orecchie, un attimo prima che svenissi.
La mia mente elabora il pensiero che la precedente notte io abbia vissuto un altro incubo. Però, vedendo questo luogo, accartoccio l'idea. Probabilmente, sono entrata nella famosa Accademia, dopo aver perso i sensi.
Scendo dalla brandina. Schiaccio le suole degli anfibi sulle mattonelle del pavimento e mi alzo in piedi, barcollando. Impiego alcuni secondi, ad acquisire un minimo di equilibrio.
Mi posiziono davanti al vetro della finestra, che riflette la mia immagine: gli abiti stropicciati e impolverati, i capelli disordinati, il viso pallido e le occhiaie.
Perfetto, no?
Almeno, stavolta, non ho avuto brutti sogni. Miracolosamente. Anche se sembra il contrario: il mio aspetto pietoso e le iridi spente sono sempre gli stessi di quando mi sveglio nel cuore della notte.
Vado in direzione della porta, intenta a lasciare lo studio medico. Afferrando la maniglia, i dubbi mi paralizzano. Non ho idea di cosa ci sia oltre. È prudente, andare? Forse, dovrei aspettare che qualcuno venga a prendermi. Emily, per esempio.
Mordicchio il labbro inferiore, incerta sul da farsi. Infine, sospirando, decido di aprirla: dopo ciò che ho affrontato ieri sera, non posso avere paura di una breve esplorazione dell'edificio.
Mi accoglie un corridoio lunghissimo, dalle pareti blu e bianche. Delle lampade a olio splendono fievolmente, illuminando i muri privi di finestre. Comincio a camminare e lo scalpiccio degli anfibi sulle mattonelle di ceramica, anch'esse dipinte di blu e bianco, rimbomba nel corridoio vuoto e semibuio.
Le mie pupille saettano da destra a sinistra, ammirando i dipinti affissi alle pareti. Alcuni rappresentano persone di un rango elevato: scienziati, militari, sovrani. In altri, le pennellate creano luoghi dall'aria magica: regni, castelli, foreste incantate. Sotto ogni quadro si trova una targhetta dorata, dove è inciso il nome di ciò che vi è disegnato.
Leggo di sfuggita alcune didascalie: Palazzo di Ghiaccio, Foresta di Conifere, Comandante Bradley, Regina Miranda.
Sorpasso i dipinti, lanciando loro occhiate rapide, finché la mia attenzione non viene rapita da un quadro in particolare. Arresto la mia marcia lungo il corridoio e mi accosto alla tela.
Raffigura quattro persone: un uomo, una donna e due neonati. Apparirebbe come una normalissima famiglia, se non fosse per le corone sulle teste dei genitori, colorate di un brillante oro.
Leggo le parole sulla targhetta: Famiglia reale Kelley.
Fisso scrupolosamente la bambina dalle iridi castane, tra le braccia di sua madre. Un ricordo che non riesco a mettere a fuoco mi solletica la mente. Porto lo sguardo sulla figura della donna. Della regina. I suoi lineamenti candidi sono incorniciati da una folta chioma di ricci rossi.
La studio con attenzione. Faccio automaticamente un passo indietro, sconcertata, non appena la riconosco.
Non può essere lei. Non è possibile.
Qualcosa, però, mi suggerisce che è la verità: quella è la stessa donna che ho sorpreso a scuola. La stessa donna che mi fissava, che mi ha sussurrato in tono enigmatico quel "Raggiungili" e che, successivamente, è sparita in uno sbuffo di fumo e diamanti.
Perché ho avuto la visione di una sovrana?
All'improvviso, non ho più tanta voglia di perlustrare l'Accademia. Ci sono troppi pezzi che non riesco a collegare, troppe coincidenze, troppe domande a cui non riesco a trovare risposta.
«Chi sei tu?»
Un sibilo inaspettato, proveniente da dietro, mi penetra nelle orecchie. Sobbalzo, presa in contropiede. La mia schiena viene sbattuta prepotentemente contro il muro e due mani mi tengono per le spalle.
Stringo le palpebre e gemo per il colpo alla nuca. Il mal di testa si risveglia e le fitte che mi hanno tramortita ieri sera si ripresentano, sferzanti e dolorose.
«Chi sei?» ripete la voce maschile, con più rigidità e fermezza.
Apro un occhio alla volta, la vista scura e confusa. Batto le ciglia per recuperare la nitidezza del campo visivo.
«Allora?» insiste colui che mi ha inchiodata alla parete, quasi ringhiando. «Chi diamine sei?»
Quando torno a vedere con chiarezza, porto lo sguardo sull'assalitore. Per un momento, temo di trovare un'altra Ombra, ma scopro invece che si tratta di un ragazzo.
È alto, molto più di me. Il ciuffo di capelli, castano e spettinato, mi accarezza la fronte. Fisico allenato e un'espressione intransigente a storpiargli i lineamenti decisi.
Un milione di aggettivi mi attraversa la mente. È bello, non c'è che dire.
E i suoi occhi sono neri. No, non sono semplicemente neri. Sono un abisso di tenebre, due vortici di lucente oscurità. Così scuri che non si distingue la pupilla. Mi ricordano quelli vuoti e terrificanti dell'Ombra che mi ha attaccata.
Ma, se le iridi del mostro mi trasmettevano un gelo infinito e un torpore angosciante, quelle del ragazzo mi attraggono. Affogo nel suo sguardo, senza essere in grado di tornare a galla. È un mare buio, che però, assurdamente, non mi spaventa
Sono calamite.
Pericolose. Insidiose. Bellissime.
«Ti conviene parlare» sussurra al mio orecchio, scandendo minacciosamente ogni lettera. Il suo respiro caldo si schianta sulla mia pelle, facendo tremare qualcosa dentro di me.
Non mi sono mai sentita così in soggezione. Così incantata da uno sguardo. Così confusa. Non riesco a staccare i miei occhi dai suoi, ma al contempo vorrei fuggire dalla sua presa ferrea.
Il ragazzo toglie una mano dalla mia spalla. Mi accorgo solo adesso che tra le dita teneva un pugnale. Sposta l'estremità del coltello sotto il mio mento, obbligandomi a sollevare il viso di pochi centimetri.
Il mio corpo è percosso da brividi. Non capisco se è a causa del contrasto tra la lama fredda e la mia pelle calda o per la paura che sto iniziando a provare. Oppure, è per le sue iridi scure incatenate alle mie, che non mi lasciano via di fuga.
«Ti do l'ultima occasione per rispondere: chi sei e cosa ci fai qui? Sputa il rospo, se non vuoi trovarti questo piantato in gola.»
Di botto, ritorno in me. Devo parlare, o mi ucciderà.
«Una certa Emily mi ha portata qui, ieri sera» dico, piano, il tono di voce frammentato dal timore e appena udibile.
«Avevo immaginato che fossi tu, la famosa ragazzina. Bene, è una fortuna che io ti abbia trovata» sentenzia, premendomi la lama contro la faringe. «Sei una di loro, vero? Ti ha mandata lui, sotto forma di umana terrorizzata?»
«Cosa?» Spalanco gli occhi, non comprendendo le sue accuse. «Non ho idea di ciò che stai dicendo.»
«Non ti credo. Alle Ombre piace mentire. Emily ha detto che sei un'Arcandida, ma nessun Arcandido ha un'aura così negativa. Quella appartiene solo a voi» prosegue, in tono incriminante.
Deglutisco e sento il bordo gelido della lama segnarmi la gola. Mi sta paragonando a un'Ombra? Come può credere che io abbia a che fare con uno di quegli spiriti?
«È assurdo. Non sapevo nemmeno cosa fossero quegli esseri, finché uno di loro non mi ha aggredita» ribatto, con voce leggermente irritata. «Sei fuori strada. Emily mi ha salvata e mi ha accompagnato qui, fine della storia.»
«Ti sembro un idiota? Probabilmente quello di stanotte era un teatrino organizzato dal tuo Padrone. Bella tattica, ma con me non funziona.»
La rabbia mi pervade, sostituendo la precedente paura. Mi sono stufata di questa situazione. Non possono minacciarmi tutti con le loro armi e costringermi a sottostare ai loro folli ordini.
Con tutta la forza che possiedo, spingo il ragazzo lontano da me. Il suo pugnale cade a terra, scivolandogli dalle dita, per lo stupore del mio gesto imprevedibile. Assottiglia gli occhi e si riavvicina, con un alone di stizza.
«È la verità! Devi credermi! Ieri sera, una ragazza di nome Emily mi ha trascinata in questo posto, dopo che sono stata attaccata dai mostri che chiamate Ombre. E, stamattina, mi sono svegliata in una specie di infermeria. Non so chi sia tu, né cosa sia questa scuola. So solo che voglio tornarmene a casa!» strepito, incoraggiata da una folata di spavalderia.
Incastro le dita tra i capelli e respiro profondamente, per recuperare l'autocontrollo. Lui mi scruta con un'espressione indecifrabile. Raccoglie l'arma dal pavimento e ho quasi il terrore di ritrovarmi la lama conficcata nel corpo.
Al contrario di quanto aspettassi, però, infila il pugnale in uno scomparto apposito della cintura e mi tira un'occhiata indifferente. «Bene, andiamo da Mark.»
Il ragazzo si incammina. Muove qualche passo lungo il corridoio; le lampade a olio gettano sulla sua figura bagliori tenui e giallastri. Accorgendosi che non lo seguo, si volta.
«Beh? Non vieni? Non abbiamo tutto il giorno» mi richiama, impaziente.
Lo seguo senza porre domande. Non gli chiedo nemmeno chi sia Mark. Proseguo dietro di lui, con la testa chinata e le braccia incrociate al petto. Tra noi cala un silenzio straziante, che riporta a galla gli avvenimenti di ieri.
Questa faccenda dell'Accademia e l'incontro con Emily mi hanno distratta dal vero motivo per cui sono scappata dalla festa. Henry e Katherine. Cerco di non pensare ancora al loro tradimento, ma è più forte di me: rivivo continuamente quel momento, procurandomi un atroce dolore all'anima.
«Come ti chiami?»
La voce del ragazzo mi riconduce alla realtà. Si sta davvero rivolgendo a me? Credevo che volesse uccidermi, fino un minuto prima.
«Bridget» mormoro in risposta.
Quando il corridoio termina, il debole bagliore delle lampade a olio viene sostituito da raggi intensi e luminosi. Alzo gli occhi per vedere dove siamo.
L'atrio della scuola è un tripudio di luce naturale: il portone d'ingresso, costituito da due vetrate colorate, è spalancato. Il sole varca la soglia dell'istituto e si stiracchia sul pavimento, generando coni luminosi e ombre. Intorno a me, rampe di scale e lunghissimi corridoi. L'Accademia è un labirinto.
Superiamo l'atrio e proseguiamo in avanti, immergendoci in un'altra via costeggiata da dipinti e lucernari antichi.
«Dove stiamo andando?» gli chiedo, titubante.
«Dal direttore dell'Accademia, Mark Smith.»
«Non so ancora il tuo nome» gli faccio presente, con voce impacciata.
Si gira verso di me, una scintilla incomprensibile nello sguardo di pece. «Mason Evans.»
I miei occhi vagano ovunque pur di non incontrare i suoi. Se prima li trovavo stupendi, adesso mi incutono timore. Prende il mio silenzio come un invito ad andare avanti.
Si ferma davanti a una porta di legno laccato, che risalta al centro del corridoio. Sopra al mogano è affissa una targa d'oro che recita: "Ufficio di Mark Smith". Mason batte le nocche e attende una risposta. Percepisco un lieve brusio proveniente dalla stanza; le voci cessano di parlare non appena sentono i colpi al battente.
«Mark, sono Mason» lo chiama il ragazzo.
«Evans, sono impegnato. Torna più tardi» tuona un timbro roco e cavernoso, dall'interno dell'ufficio.
«Devo mostrarti una cosa importante» spiega Mason, lanciandomi uno sguardo furtivo che non ricambio.
Capto dei passi e poi la porta viene aperta, rivelando un uomo, che avrà poco meno di quaranta anni. È molto robusto; i capelli neri sono cortissimi e stonano con le iridi azzurro ghiaccio, che inchiodano in modo torvo Mason.
«Che vuoi, Evans?» domanda Mark, chiaramente infastidito dalla nostra presenza.
Mason fa un cenno impercettibile col capo nella mia direzione. Mark mi squadra dalla testa ai piedi, con il sopracciglio corvino sollevato.
«E lei chi sarebbe?» domanda, poi.
«Chiedilo a Emily» sbuffa Mason, acidamente.
Emily fa capolino dallo studio, sentendosi nominare. Si appoggia allo stipite e ci scandaglia con i suoi occhi blu, brillanti di superiorità.
«Vedo che l'hai trovata» dice a Mason, l'aria divertita e un sorrisino sulle labbra. Si rivolge a me: «dormito bene, principessa?».
Storco il naso in una smorfia, irritata dal suo comportamento antipatico. «Sì, grazie» rispondo, in tono meno duro di quanto vorrei.
«Non hai specificato il fatto che avesse l'aura di un'Ombra. Stavo per ucciderla, sai?» le riferisce Mason, un cipiglio leggermente alterato sul viso.
Emily scoppia in una risata che è un mix tra derisione e ilarità. «Davvero, Mason? L'hai scambiata per un'Ombra? Ma l'hai vista?» ridacchia, dedicandomi uno sguardo che mi fa arrossire di vergogna e rabbia. «Ieri era completamente terrorizzata. Le Ombre sono troppo sveglie e furbe.»
Mi sta dando della stupida? Mason schiude le labbra per ribattere, e anche io sono sul punto di accanirmi contro la bionda dalle maniere arroganti, ma l'intervento di Mark ci frena.
«Smettetela!» proferisce il direttore, sbattendo il palmo sulla porta del suo ufficio.
I due litiganti si quietano, senza risparmiarsi, però, occhiate letali.
«Non è questo il modo di comportarsi, in presenza di ospiti» li ammonisce l'uomo. Colloca le sue iridi di ghiaccio su di me. «Perdonali. Tu devi essere Bridget: Emily mi ha raccontato degli eventi della scorsa notte. Io sono Mark Smith, il rettore di questo magnifico istituto» si presenta, con una certa aria di orgoglio e fierezza.
Stringo la mano del direttore e mi sforzo di sorridergli cordialmente. «Piacere di conoscerla, signor Smith.»
«Puoi chiamarmi Mark, se preferisci. Accomodati pure nel mio ufficio. Abbiamo tanto su cui discutere.»
Oltrepasso la soglia, con Emily e Mason alle calcagna. Lo studio non è molto grande, ma è piuttosto accogliente. Al centro è situata una scrivania, insieme a una sedia girevole dietro e un paio davanti. Noto una finestra coperta da spesse tende azzurre, due poltrone davanti essa, uno scaffale stracolmo di oggetti e scartoffie varie e un po' di cornici sparse in qua e in là.
I ragazzi si siedono sulle poltrone, mentre io e Mark ai lati opposti della scrivania.
«Hai bisogno di qualcosa, Bridget?» si preoccupa il direttore.
Piazzo i palmi sulla superficie lucida della cattedra, il cui legno è tracciato da venature chiare e scure, e mi sporgo verso Mark, legandolo sotto il mio sguardo stanco e furente.
«Me lo sta seriamente chiedendo? Mi hanno trascinata in questo posto contro la mia volontà.» Mi interrompo per soppesare con gli occhi tutti e tre, specialmente la ragazza dalle iridi blu e la chioma d'argento dorato, la mia rapitrice. «Quindi, tutto ciò di cui ho bisogno, è uno straccio di spiegazione. Voglio sapere ogni singola cosa. Me lo dovete. Non crede, direttore?» Incrocio le braccia, impassibile, rimettendomi composta sulla sedia. «Voglio risposte. E subito.»
Spazio Autrice
Il risveglio di Bridget non è dei migliori: si trova in un posto pieno di ragazzi che vogliono ucciderla. Come se non bastasse, poi, ha trovato un quadro che rappresenta la stessa donna vista a scuola. Chi sarà mai? Comunque, i nostri protagonisti si sono finalmente incontrati! La loro conoscenze non è stata delle più dolci, lo so, ma avranno il tempo di parlarsi meglio.
Volete anche voi delle risposte, come Brer? Allora, lasciate una stellina e andate al prossimo capitolo!
Xoxo🦋
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