4. Il Peso di Mille Menzogne

Bridget

Senza che nemmeno me ne accorga, nel cielo il sole lascia spazio all'oscurità della sera, tramontando oltre la costa del fiume Hudson.

Mi ritrovo immediatamente con le ante dell'armadio spalancate e gli occhi che vagano di vestito in vestito, cercando qualcosa di adatto da indossare per la festa.

Pesco un abito nero dall'armadio. Studio, attraverso lo specchio ad anta, la mia sagoma coperta dall'indumento. Scuoto la testa, disapprovando, e lo getto alle mie spalle. Vola come un fazzoletto, fino ad atterrare sul materasso, in mezzo alla montagna di indumenti scartati.

È da più di un'ora che continuo a rovistare, a togliere grucce, a provare, a fare smorfie e a tirare.

«Ho un dannatissimo armadio, pieno di dannatissimi vestiti, e non mi piace niente» sbotto tra me, digrignando i denti.

I miei lamenti interiori vengono fermati da un bussare insistente alla porta.

«Avanti!» urlo il permesso, con la testa ancora immersa tra i vestiti appesi.

Sento la porta che viene aperta e, in seguito, chiusa. Poi, la voce fastidiosamente ironica di mio fratello. «È scoppiata una bomba, qui dentro?»

«Una cosa del genere» bofonchio, senza guardarlo. Le mie pupille navigano tra i capi d'abbigliamento, soffermandosi su ognuno di essi e riflettendo su come potrebbero starmi.

«Sei ancora in crisi da abbigliamento?»

Mi decido a guardare Matthew. Sul suo viso è cucito un sorrisetto. Appallottolo una t-shirt rossa e gliela lancio contro, per strappargli quel ghigno insolente dalla faccia.

Butta la maglietta sul letto, insieme al resto degli abiti. Setaccia con lo sguardo il cumulo di vestiti sparpagliati e ne agguanta uno.

«Potresti mettere questo, no?»

Me lo mostra: è un abitino bianco, dalla candida gonna in tulle, tempestato di fiorellini colorati.

«Mi prendi in giro? Quello è di Lenny» gli faccio notare. «Non so nemmeno come ci sia finito, nel mio armadio.»

«Era un'idea.»

«Le tue idee sono pessime.»

«Sei insopportabile» borbotta, trucidandomi con le sue iridi verdi.

Gli scocco a mia volta un'occhiataccia. Se i nostri occhi lanciassero saette e scintille, saremmo entrambi morti folgorati da tempo, per le innumerevoli volte in cui ci fulminiamo a vicenda.

Esamino il suo abbigliamento: un paio di jeans scuri, una camicia nera e una giacca di pelle sintetica. I capelli castano dorato contrastano con gli indumenti cupi, insieme agli occhi smeraldo.

«Sono fantastico, vero?» si pavoneggia, sorridendo in modo malizioso.

«Continua a sperarci, fratellino.»

Torno a scavare nell'armadio. Soppeso con gli occhi una minigonna nera. Arriccio le labbra, contrariata, vedendone la lunghezza eccessivamente corta.

«Mamma e papà stanno di nuovo litigando» sputa Matt, di punto in bianco, cambiando argomento.

La gonna mi scivola dalle mani, depositandosi ai miei piedi. Le sue parole, inaspettate, mi hanno colpita come uno schiaffo.

«Secondo te, perché?» chiedo in un sussurro, senza trovare il coraggio di girarmi e incrociare le sue iridi.

«Non ne ho idea, Bree. Papà non si fa vivo da giorni e mamma svia sempre il discorso, quando provo a parlarne.»

Sospiro pesantemente, ravviando una ciocca di capelli dietro l'orecchio. È da settimane, che discutono. Mamma urla, papà urla. Elena piange, Matt scaglia colpi a tutto ciò che capita nel suo raggio visivo, per sfogare la rabbia. Io sono troppo impegnata a maledire lo specchio del mio bagno e a svegliarmi nel cuore della notte.

Non mi servono altri problemi.

Non mi serve stare ancora più male.

Ultimamente, i nostri genitori hanno optato per continuare a strillarsi addosso tramite telefono. Forse, per evitare di turbarci.

Un cigolio mi distrae da questi pensieri burrascosi. La porta della mia camera si schiude di qualche centimetro ed entra nostra sorella. Zampetta verso me, l'espressione contenta, e fa una piroetta.

«Come sto?»

Il corpicino di Elena è fasciato da un vestitino bianco a fiori rossi, simile a quello che Matt mi ha mostrato precedentemente. I capelli sono raccolti in due lunghe trecce, lasciando libero lo sguardo verde brillante.

Io e mio fratello ci scambiamo un'occhiata d'intesa, ricordando l'abito per cui stavamo discutendo poco fa.

«Sei bellissima, Lenny.» Mi inginocchio alla sua altezza per stringerla tra le mie braccia.

«Dove vai?» le domanda Matthew.

«Al compleanno di Cassie! Non vedo l'ora!» esclama, euforica, battendo le mani.

Ridacchio davanti al suo entusiasmo. Un'altra figura si aggiunge, sporgendosi dallo spiraglio aperto del battente. La testa rossa di mia madre fa capolino dalla porta.

«Elena, andiamo» richiama sua figlia.

Ne approfitto. Afferro la manina di mia sorella e la porto fuori dalla stanza, conducendola dalla mamma, che aspetta in corridoio.

«Lenny, puoi aspettare di sotto?» le domando, con lo sguardo incollato alle iridi azzurre della donna. «Io e mamma dobbiamo parlare.»

Elena annuisce e scende le scale, scomparendo al piano inferiore. La mamma, con le braccia incrociate e i lunghi capelli di fuoco a contornarle il volto severo, mi osserva, in attesa.

«Cosa sta succedendo, tra te e papà? E non mentirmi» indago, in tono esigente.

La sua rigida compostezza si smonta improvvisamente. Espira, e sembra così stanca. «Tesoro, non adesso. Per favore.»

«Voglio solo sapere perché litigate di continuo» insisto. Non voglio mollare.

«Quando sarà il momento, vi racconterò tutto.»

«Stiamo parlando di mio padre» ringhio, affondando le unghie nel palmo della mano per incanalare la rabbia.

Non m'importa se finiremo per gridarci contro, se mamma ha detto "no", se non sono affari miei. Devo risolvere questa faccenda. Subito, prima che crolli ogni cosa.

Lei, però non risponde. Si limita a studiarmi con le sue iridi celesti, facendole scorrere sulla mia figura. Nel suo sguardo vibra una nota di tristezza. Alla fine, distoglie gli occhi da me e comincia a scendere i gradini della rampa.

«Non sei l'unica che ha il diritto di essere stanca, mamma!» le urlo dietro, con sdegno.

L'ultimo rumore che sento è quello del portone d'ingresso che viene chiuso e del respiro frustrato che mi esce dalle labbra. Poi, il silenzio occupa la nostra abitazione.

Torno in camera e mi appoggio con la schiena alla porta della mia stanza, scivolando sul battente, fino a trovarmi seduta sul pavimento. Sono infuriata. Lancio un'occhiata sbieca a Matt. Anche lui pare sull'orlo di una collera cieca: sta serrando le dita in due pugni, seduto a testa bassa sul materasso. Ha ascoltato la conversazione, a quanto pare, ed è arrabbiato.

È la rabbia di quando capisci che non puoi fare niente. Puoi solo aspettare. Sperare che le cose si risolvano. È frustrazione, impotenza.

Io, in questa rabbia, ci vivo. Dalla notte in cui il circolo di incubi è iniziato. Aspettare, sperare, stringere le mani e i denti.

E piangi, strilli e scoppi. Ma è inutile. Mi chiedo se anche io scoppierò, prima o poi. Se travolgerò qualcuno, con tutta questa rabbia. Oppure, se travolgerò solamente me stessa.

Sbuffo. Non passerò la serata a piangermi addosso. Così, mi alzo in piedi e mi riposiziono di fronte all'armadio. Setaccio per un'altra decina di minuti il guardaroba, finché non trovo un outfit adeguato.

Mi sposto in bagno e indosso i vestiti. Applico anche il mascara e una linea di matita nera sulle palpebre. Le scaglie dorate dei miei occhi - piccoli spuzzi brillanti sullo sfondo castano delle mie iridi - sembrano più grandi e luminose, in questo modo.

Contemplo il risultato, attraverso il riflesso nello specchio, con un sorriso compiaciuto. Ho scelto una semplice maglia bianca e una gonna di jeans blu. Prendo la spazzola e sistemo i capelli, lasciando che i lunghi boccoli ramati mi cadano sulle spalle, risaltando sul tessuto di cotone.

Poso cautamente l'oggetto sul ripiano di ceramica. La spazzola è rivestita interamente d'argento e sul dorso sono incise delle lettere. Formano una parola che non ho mai decifrato, in una lingua incomprensibile, simile al norvegese. È da anni che tento di tradurla, con scarsi risultati.

La possiedo da quando sono bambina, insieme alla collana da cui non mi separo mai. Accarezzo con i polpastrelli il ciondolo, un fiocco di neve argentato e scintillante, pendente da una catenina sottile.

E, guardandomi, non posso fare a meno di notare l'incredibile somiglianza con la donna misteriosa che ho visto a scuola. Chi era? Non riesco a scacciare dalla mente il modo in cui è sparita: si è frantumata in una miriade di cristalli bianchi, che poi si sono dissolti.

Dovrei ricominciare a dormire, la notte. Sto iniziando a vedere cose che non esistono.

Tuttavia, quella donna aveva un'aria familiare, e non solo perché era la mia fotocopia. Sono sicura di conoscerla.

Mando via le riflessioni assurde che mi ruotano incessantemente in testa ed esco dal bagno. Mi appoggio di peso allo stipite della porta e fisso Matt, con insistenza, fino a fargli sollevare lo sguardo dal parquet.

«Che c'è?» prorompe, confuso e irritato.

«Abbiamo una festa» gli ricordo, con voce perentoria, «quindi, alza il culo dal letto e andiamo.»

Matthew scuote la testa, ma scorgo l'ombra di un sorriso divertito sul suo volto. «Va bene, sorellina» mi dà retta, mettendosi in piedi.

Indosso un paio di anfibi neri, infilo il telefono in una borsa del medesimo colore e seguo mio fratello fuori. Usciamo da casa e ci copriamo con le rispettive giacche, raggiungendo la sua macchina.

****

Il tragitto in auto è durato circa venti minuti. L'unico suono che si udiva nel mezzo di traporto era quello della musica trasmessa alla radio e quello dei nostri respiri.

Ovviamente, stavamo pensando entrambi alla stessa cosa: la nostra famiglia che con inesorabile lentezza si sta sgretolando e noi che non possiamo fare nulla, per rimediare.

La casa di Julie Wayne erge fuori Manhattan. Abita in una villa gigantesca, bianca, con tanto di giardino, dove ama organizzare party, ogni singolo weekend.

Parcheggiamo dall'altro lato della strada rispetto all'ingresso. Fuori dalla macchina si sente il fresco pungente dell'autunno, il vento che soffia, che trascina via le foglie, creando vortici di caldi colori e secchi scricchiolii. Vorrei che anche i miei problemi volessero via insieme alle foglie cadute e alla brezza settembrina.

Controllo se ho ricevuto messaggi da Henry o da Katherine. Zero. Rimetto il telefono nella borsa e impongo a me stessa di non farmi divorare dall'ansia. La brutta sensazione di timore si è ripresentata, e mi rosicchia ferocemente le viscere.

Varchiamo il cancello di ferro battuto e calpestiamo il vialetto di ciottoli e sassolini, che conduce al portone. Il cortile è macchiato di fiori vivaci e cespugli potati, secondo forme geometriche bizzarre e differenti. È installata persino una fontana di pietra, dalla quale zampilla l'acqua, in fiotti limpidi.

Sull'erba curata del prato sono seduti dei ragazzi: alcuni conversano, sfiorando distrattamente i ciuffi verdi dell'erba, mentre altri sono sdraiati, ubriachi e smarriti, come a domandarsi per quale motivo si trovano a casa di una cheerleader.

All'interno, la festa è già iniziata: la musica a tutto volume accompagna gli invitati, che ballano sulla pista improvvisata al centro dell'enorme salone. Anche le luci a intermittenza si scatenano. Lampeggiano, cambiano colore ogni dieci secondi e creano intervalli brevissimi di buio totale e luce intensa e sgargiante. Sulla parete di destra c'è un lunghissimo tavolo, schiacciato contro il muro e strabordante di alcolici e stuzzichini.

La mia esplorazione visiva della casa viene interrotta da un tocco leggero sulla spalla. Sussulto, spaventata, ma mi tranquillizzo nel momento in cui gli occhi azzurri di Henry incontrano i miei.

«Ehi» lo saluto, abbandonandomi a un sorriso contento.

Gli getto le braccia al collo e lui ricambia la stretta, circondandomi i fianchi. Immerge il viso tra i miei capelli ramati, accarezzandomi la pelle del collo con la punta del naso.

Vedendo oltre la sua spalla, mi accorgo degli occhi scuri di Kath, che si scrutano intorno. Ha uno sguardo... perso. Luccica di ira e amarezza.

«Abbiamo incontrato Matthew, all'entrata. Ci ha chiesto di dirti che sarebbe andato da Aiden e Lucy» mi informa il mio ragazzo, spezzando l'abbraccio.

Intreccio le nostre dita e gli sorrido. «Starà bene anche senza di me.»

«Bella festa, vero?» commenta all'improvviso Katherine. «Vado da Julie a complimentarmi.»

Non ci lascia il tempo di aprire bocca che si catapulta tra la folla, venendo divorata dalla massa di corpi danzanti.

«Ma che le prende?» domando a Henry, stranita dal comportamento della mia migliore amica. «Lei odia Julie.»

Fa un'alzata di spalle. «Chi lo sa.»

Il mio ragazzo mi trascina su uno dei divanetti imbottiti, rivestiti di pelle rossa, accanto al tavolo del cibo e delle bevande. Agguanta due bicchieri di plastica, li riempie e me ne porge uno.

«Hai detto che Matt è con Lucy?» gli chiedo, bevendo un sorso dal mio bicchiere.

Henry annuisce, con un sorriso sincero. «Credo che si stiano riavvicinando.»

Lucy Johnson è l'ex-ragazza di Matthew. La loro storia è durata poco: i motivi sono tanti, e nell'elenco spiccano la scarsa fiducia, il disinteresse, la gelosia. Nelle ultime settimane, stanno provando a tornare amici.

Percepisco il calore delle dita di Henry che giocherellano tra le ciocche dei miei capelli. Li attorciglia, li stende, li accarezza. Dal momento che tutti i divanetti sono occupati, ha insistito perché mi sedessi sulle sue ginocchia.

Eppure, avverto qualcosa di insolito, mentre mi sfiora il collo, nella sua postura rigida e nervosa. Lo sguardo perso nel vuoto, i lineamenti contratti.

«Henry» sussurro, nonostante la musica alta, «tutto bene?»

Sembra risvegliarsi da un sogno, con il mio richiamo. I suoi occhi chiari, puntati tra la folla di studenti, si posano finalmente su di me.

«Cosa? Sì, sì, tranquilla» risponde in modo approssimativo. «Sono solo preoccupato per Kath. È meglio che vada a cercarla.» Si alza, costringendo anche me a farlo. «Aspettami qui.»

«D'accordo» dico a bassa voce, sempre più frastornata. La premonizione di una catastrofe imminente mi trivella il cervello, di nuovo, più intensa di prima.

«Torno subito» mi assicura, stampandomi un bacio sulla guancia.

Pochi secondi e la calca di persone lo inghiotte. Tamburello le dita sulla gamba e torturo il bordo del bicchiere di plastica. Analizzo la maniera con la quale le luci danno una strana colorazione al drink e come il liquido ondeggia all'interno del recipiente, scosso dalle vibrazioni della musica elevata.

Resisto a malapena un quarto d'ora. Dopodiché, balzo in piedi, lascio il bicchiere sul tavolino e decido che sono stufa di aspettare.

Perlustro ogni angolo della casa: dal salone al cortile esterno, dal retro dell'abitazione alla cucina. Ma Henry non c'è, e neanche Katherine. Provo a telefonare loro, ma in entrambi i casi risponde la voce robotica della segreteria. Lascio loro decine di messaggi, senza però ricevere risposta.

Sto per arrendermi, quando ricordo che non ho controllato al piano superiore. Guardo in tralice l'imponente scalinata, con il terrore che mi assale. Mi faccio coraggio, demolendo ogni cattiva ipotesi, e stringo il corrimano tra le dita, cominciando a salire.

La prima porta che spalanco è quella del bagno, ma, ovviamente, non sono lì. La maggior parte delle camere da letto è chiusa a chiave, perciò chiamo Henry e Kath da fuori, sperando che possano udirmi. Nelle altre stanze trovo ragazzi impegnati, e sono costretta a richiudere di scatto il battente, imbarazzata.

Maledico il mio fidanzato e la mia migliore amica per avermi cacciata in questa situazione. Poso la mano sulla maniglia della penultima stanza, ma questa si abbassa dall'interno e la porta si apre, prima che possa spalancarla io.

Ne escono Matthew e Lucy.

Rimango per un istante immobile e sbigottita, il braccio ancora teso in avanti, verso la maniglia. Mio fratello sgrana gli occhi e Lucy arrossisce fino alla radice dei capelli scombinati.

«Oh. Bree» biascica Matt, stupito di vedermi.

«Noi...» attacca Lucy, però non sapendo come proseguire.

«Lasciate stare» scuoto la testa, per cancellare l'immagine di mio fratello e della sua ex-ragazza - non più "ex", a quanto vedo - dentro quella stanza. «Sono contenta che... che siate tornati insieme» mormoro con un timido sorriso, non riuscendo a trovare parole migliori.

«Beh, grazie. Cercavi qualcuno?» mi domanda gentilmente Lucy.

«Henry e Kath. Avete idea di dove possano essere, per caso?»

«Ho visto Katherine entrare nella camera accanto» mi riferisce Matthew. «Sembrava piuttosto giù di morale.»

Ringrazio mio fratello per l'informazione. Lui e Lucy scendono al piano di sotto, mentre io raggiungo l'ultima stanza del corridoio.  Sono davvero felice che si siano rappacificati; so quanto Matt tenga a quella ragazza e quanto abbia sofferto per la loro rottura.

Serro le dita intorno alla maniglia di ottone della porta restante. La abbasso e la serratura scatta, segno che non è chiusa a chiave. Conto fino a tre, prima di spalancare il battente.

Uno.

Due.

Tre.

E il sangue mi si gela nelle vene. Smette di scorrere. Divento un blocco di ghiaccio. Forse, perché il mio cuore si è appena sbriciolato.

E quando il cervello elabora l'informazione, la consapevolezza mi colpisce con tale forza e brutalità che quasi perdo l'equilibrio. Internamente, però, sento di averlo già perso: sto precipitando in un abisso infinito.

Henry. Katherine.

Katherine. Henry.

Nudi. Avvinghiati.

Bugiardi. Traditori.

Le iridi azzurre di Henry, che mi sono sempre parse così limpide, adesso appaiono come due pozze d'acqua torbida. Acqua sporca, sporca come lui, che stringe tra le braccia un'altra ragazza. La mia migliore amica.

«B-Bridget?» farfuglia Henry, sbiancando. Probabilmente, spera che quella dinanzi a lui non sia io.

«Non è come pensi!» si difende immediatamente Katherine.

Sposto lo sguardo su di lei e il ricordo di noi due, all'età di cinque anni, che ci giuriamo amicizia eterna, mi colpisce con una tale violenza da strapparmi il respiro. L'ossigeno mi manca, e annaspo in un'oscurità senza termine, schiacciata sotto il peso di mille menzogne.

«Ah, no?»

Le parole sfuggono in autonomia dalle mie labbra. Parole fredde, gelide. Non riconosco più il mio tono, tanto è austero.

«Non è come penso?» ripeto, tagliente. «E, allora, com'è?»

Nessuno dei due replica. Scappano dal mio sguardo, vergognandosi troppo, non essendo in grado di sostenere l'affilatezza delle mie iridi roventi di collera.

«Anzi, non voglio saperlo» scuoto la testa, ridendo. Una risata secca, ironica, cupa. «Ditemi solo quando è iniziata.»

«Giugno» risponde Katherine, la voce flebile e spaventata.

Giugno.

Tre mesi. Dodici settimane. Novanta giorni.

E non mi sono accorta di niente.

Sento un'altra emozione che straccia la rabbia, facendosi spazio nel mio animo infranto. Dolore. Mi coglie alla sprovvista, travolgendomi come un'onda anomala. Le lacrime mi riempiono gli occhi.

Prima di spezzarmi definitivamente, scappo via. Mi sento soffocare, sull'uscio di quella stanza, con due delle persone più importanti della mia vita a sbattermi in faccia il loro tradimento, i corpi intrecciati e svestiti.

Ignoro le voci che mi richiamano e scendo di corsa le scale, la vista appannata dalle lacrime e un fischio costante a trapanarmi le orecchie. Sgomito tra gli invitati e raggiungo la porta, accostata, che dà sul retro. Con una spallata recisa la schiudo completamente, precipitandomi all'esterno.

Una ventata di aria gelida mi sferza il viso. Ho lasciato la giacca dentro. Cammino per qualche decina di metri, al freddo, fino a giungere ai piedi di un palazzo decadente. Schiaccio il corpo contro il muro e mi lascio andare al dolore.

I miei singhiozzi squarciano il buio silenzioso. L'aria gelida mi ghiaccia le lacrime sulle guance. Piango per minuti che mi sembrano ore, martoriata dalla scena tatuata a fuoco nella mia mente.

E rimango qui. Senza nessuno. L'unico a farmi compagnia è il vento, che mi accarezza il volto umido di tristezza e propaga il rumore dei miei singulti per il quartiere desolato.

Sono sola, in una strada deserta, con parole non urlate che mi distruggono dentro. Da sola, in un mondo dove i segreti e le bugie degli altri mi circondano, mi rompono, mi disintegrano.

Perché tutti hanno dei segreti. Alcuni innocui, altri meno.

Ciò che non sapevo, era che presto anche io avrei avuto un segreto.

Un segreto pericoloso.

Un segreto distruttivo.

Spazio Autrice

Salve, readers!

Eccoci al capitolo della famosa festa, dove sono successe un po' di tragedie (le prime di una lunghissima serie).
Avevate dei sospetti su Henry e Katherine? Bridget sicuramente no. Si fidava ciecamente, e il tradimento l'ha devastata. Cosa credete che farà? Tornerà alla festa?

Vi avverto che nel prossimo capitolo entreremo nel vivo della storia e ci saranno moltissimi cambiamenti. Curiosi?

Commentato tanto, mi farebbe piacere leggere le vostre opinioni!

Un bacio! Xoxo💋

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top